Bianco Conestabile 2017 Umbria Bianco IGT, Vini Conestabile Azienda Agricola della Staffa, Danilo Marcucci, 12 gradi.

“Vino senza chimica, cantina senza tecnologia, vino naturale” (cit. dall’etichetta).

Qualche mese addietro, poco prima di Natale, mia moglie decise di farmi un regalo: mi portò in un’enoteca ben fornita e mi disse: “Scegli quello che vuoi. Questo ciò che puoi spendere, questo il numero di bottiglie che puoi comprare”. Per un appassionato, un sogno.

Però, come gestire quel tesoretto? Comprando una sola bottiglia da sogno oppure creandosi una certa scorta? Scegliendo quei vini già noti, che piacciono tanto, oppure esplorando?

Io combinai le diverse possibilità, orientandomi su 4 o 5 bottiglie.

Nell’esplorazione degli scaffali, una mi attrasse particolarmente per l’etichetta démodé, ricercatamente semplice, con uno stemma verde su fondono paglierino e scritte in caratteri italici, dalle ampie volute. Più ancora mi attrasse il colore del vino, un giallo limone molto carico, quasi dorato, non perfettamente limpido: un colore pieno, materico, che traspariva perfettamente dalla trasparenza del vetro. Sembrava che una bottiglia di sessanta, settant’anni fa, misteriosamente fosse atterrata su quei scaffali contemporanei di una grande città, scavalcando il tempo.

L’etichetta, però si riferiva all’annata 2017, malgrado recitasse compunta “Vini Conestabile dal 1889”; azienda che ignoravo totalmente: nemmeno sentita nominare.

Poi vidi riportata la sede aziendale: Magione; e mi venne memoria di antiche trasferte di lavoro, quando andando verso Perugia costeggiavo con la statale il Trasimeno, traversando quel paesaggio dolcissimo che degradava morbido verso le acque lacustre, punteggiato di vigne, di ulivi, di frutteti, che si vestivano di rosa e di oro all’ora del tramonto, quando l’occhio spaziava panorami di struggente magnitudine.

Il prezzo era abbordabile malgrado i pesanti ricarichi lì praticati e mi decisi ad acquistarla, tra la curiosità è l’istintiva simpatia.

Ed eccolo questo vino umbro, finalmente nel bicchiere.

Frattanto mi sono procurato qualche informazione, per capire meglio ciò che bevo. Leggo che l’azienda aveva smesso di produrre vino in proprio per sessant’anni, conferendo a una cantina sociale; che Danilo Marcucci, dopo esperienze in altre aziende artigiane, decide di riavviare la produzione vinicola dell’azienda di famiglia, scegliendo un approccio il più possibile non interventista; diciamo pure: metodologie antiche, con i primi imbottigliamenti nel 2015.

A monte, un approccio essenziale ed esclusivamente manuale alle vigne, 12 ettari, situate tra i 300 e i 400 metri di altezza.

Quindi: fermentazioni spontanee in tini aperti, macerazioni sulle bucce anche per i bianchi, follature manuali, nessun controllo delle temperature, illimpidimento con travasi seguendo le fasi lunari, imbottigliamento senza solforosa aggiunta.

Si potrebbe anche temere un vino spiacevolissimo, con queste tecniche antiche: il famoso vino del contadino che i vecchi toscani così classificavano: “beilo te!”.

Invece no: al mio gusto, almeno, questo vino è piacevolissimo; né si può dire che la macerazione sulle bucce l’abbia appesantito o ne abbia velato il carattere territoriale.

Anzi, per me quel carattere qui viene esaltato. Questo vino così polposo, materico, più di certi bianchi anodini rispecchia il carattere umbro, il genio, la cultura, persino l’orografia.

C’è nell’umbro, come in buona parte della cultura del centro italia, qualcosa di fortemente concreto, persino nell’ascesi. Si prenda San Francesco, che loda la creazione: “ Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba“ “, e loda il sole, il vento, la luna; e quando poi menziona “Sora nostra morte corporale”, la loda sì, ma si sente in quel “corporale” anche un certo disappunto per tutte quelle belle cose della natura, se davvero non si potrà più vederle.

Ecco: i bianchi carta, quand’anche perfetti, mancano un po’ di quella visceralità carnale, con ascendenza etrusca.

Non così questo Bianco Conestabile, da Malvasia e grechetto, che rinforza in me l’idea che le uve tradizionali del Centro Italia si giovino di trattamenti tradizionali, per ragioni di affinità elettive.

E rafforza in me l’idea della vocazione umbra per i vini bianchi, più ancora che per i rossi, per la straordinaria combinazione qui possibile di finezza, forza, grazia, corpo, freschezza, longevità.

Del bellissimo colore ho già parlato. Aggiungo: è lucente, qualche traccia di carbonica disciolta, un po’ di fondo che non deve spaventare. La componente glicerica è già evidente alla rotazione, ma si traduce in un velo evanescente, più che in gocciole.

Il profumo è molto intenso e complesso, nitido, sospinto da un accordo iridescente di aldeidi non timido: altri potrebbe esserne infastidito, io mi ammalio, perché sale come una nuvola colorata, con sé portando fiori di acacia, di camomilla, anice, mentuccia, finocchietto selvatico, fieno, legumi, mandarino, chinotto, pesca, susine verdi “Claudia”, peperone verde scottato, pepe verde, noce moscata, cannella, cereali, lievito. Assolutamente, non ci sono né note di legno di affinamento, né i cattivi odori di una vinificazione imprecisa.

Il sorso è avvolgente, glicerico, polposo, di corpo medio-leggero, molto gustoso,un po’ piccante, con un’acidità mediana e un allungo notevole, fortemente sapido, molto ben bilanciato, dove lo sbuffo alcolico è solo un tenue, confortante calore. La tannicità è poco poco più che accennata, calibratissima, piacevole.

Tant’è che un bicchiere tira l’altro e bisogna stare attenti a non esagerare, soprattutto a tavola, perché è flessibile, con le vivande di mare, di lago e di terra, dalle zuppe alle carni bianche, attraverso gli affettati tipici: non vedo l’ora d’accostarlo a un buristo senese. Di certo preferirei offrirlo a un amico che di vini sa poco, piuttosto che a qualche grande intenditore, sebbene io lo preferisca a tanti altisonanti cru, anche esteri: perché lo si apprezza meglio senza preconcetti.

Infatti, ogni vino rispettabile – parlo di vini veri, con un’anima – ha una sua lingua e racconta qualcosa: alcuni parlano americano, altri tedesco, altri sono poliglotti; alcuni raccontano le pagine di un romanzo, alcuni una novella, certi discorrono di affari, alcuni di donne e di auto sportive; insomma, c’è n’è per tutti i gusti.

Questo parla una lingua non antica, ma arcaica, così lontana da certo sentire d’oggi che può anche spiazzare. Ma non hanno guardato a forme arcaiche grandi artisti novecenteschi, come Marino Marini, Arturo Martini, Giacomo Manzù?

Ha difatti il fascino remoto, enigmatico, di un sorriso etrusco, di un affresco di Cerveteri.

Esagero? Forse. Ogni tanto vale anche l’iperbole, per parlare al cuore.

Malvazija Carso 2006, Skerk, 14 gradi.

“Il Carso è un paese di calcari e di ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontrosi, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi.

Lunghe ore di calcare e di ginepri, l’erba è setolosa.

Bora, sole.

La terra è senza pace, senza congiunture. Non ha un campo per distendersi. Ogni suo tentativo è spaccato e inabissato.

Grotte fredde, oscure. La goccia, portando con sé tutto il terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente, da centomila anni, e ancora da altri centomila.

Ma se una parola deve nascere da te – bacia i timi selvaggi che spremono la vita dal sasso! Qui è pietrame e morte. Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera.” (da “Il mio Carso” di Scipio Slapater).

Non ho mai incontrato il Carso, eludendo e frustrando un desiderio che portavo in me intensissimo. Mi avevano incuriosito e conquistato le storie della prima guerra mondiale, tragiche, epiche, pittoriche; più ancora, i racconti di mio padre che – giovanissimo per l’anagrafe, ma già adulto per la vita – aveva girato la Venezia-Giulia negli Anni Cinquanta, spingendosi verso il Carso e l’Istria.

Io invece, girando per lavoro l’Italia, mi spinsi fino a Trieste, di sfuggita, non oltre. Altri viaggi di piacere mi portarono – quasi vent’anni fa – più a sud e più a oriente, sulle coste istriane e croate. Ancora una volta, il Carso fu eluso, rimanendo un’immagine confusa di nozioni, fantasie, bagliori visivi.

Ho di Trieste, del Carso la porta, un ricordo: il bianco, un intenso riverbero bianco che mi sembrava penetrare anche le zone d’ombra, fin sul far della sera, venando l’azzurro del mare.

Intuitivamente, magari sbagliando, ho esteso quel ricordo al mio Carso immaginifico, col bianco primario che si stratifica, come in certi quadri divisionisti, al blu di cielo ed acque ed al verde delle colture, come in certi esiti paesaggistici di Sargeant.

Quest’immagine pittorica è fusa con quella assai più concreta e sapida delle osmize, ossia delle frasche dove si serviva – e si serve- il vino della cantina (spesso scavata nella roccia), uova, formaggi, salame, pane.

Così, il mio Carso immaginifico è una terra di autenticità eroica, ruvida e dura, scabra, di rocce bianco-grigie e terra rossa, di tinte traslucide, di essenzialità ascetica, capace però di inattese dolcezze, di riverberi e vedute marine con l’Adriatico lì addossato, di mollezze episodiche e verdi di pampini e viti.

Mi portò anni fa un amico cartoline liquide del Carso, bottiglie di vino bianco e rosso locale, inclusa questa Malvazija, che però mi ostinai a non aprire: aspettavo di andare nel Carso, di conoscerlo finalmente, di studiarne accuratamente la viticoltura, di passeggiarne i luoghi, per correlare poi il sentimento locale al vino; di visitare magari io stesso la cantina di Skerk, celebre per le sue grotte di invecchiamento, per la sua osmiza, per aver tra le primissime tenuto la barra dritta su coltivazioni e vinificazioni quanto più possibile naturali, con le uve bianche tradizionalmente macerate sulle bucce.

Appunto, sono passati anni. Per fortuna, si impara col tempo ad accettare con leggerezza la propria ignoranza, a godere innocentemente come un’infante. Perciò mi decido ad aprirla, conscio dei sui 14 anni, chiedendomi se non sia già troppo tardi, senza sapere davvero che cosa aspettarmi: perché non ho neppure i riferimenti per immaginare questo vino giovane, nulla che vada oltre le nude nozioni varietali.

Mi sorprende: appare molto più giovanile della sua età, nella quale è lecito attendersi viraggi all’arancio, fino al mogano dell’ossidazione. È ambra tenue, trasparente e brillante, bellissimo a vedersi, con gocciole rade.

Il suo profumo è molto intenso, nitido e terso come aria marina, cangiante, come un prisma luminoso che ruoti al sole: albicocca disidratata, pesca sotto spirito, chinotto, canditi, violetta foglie di olivo e di alloro, rosmarino, miele d’acacia, caramello, noce moscata, cannella, e quella combinazione di grano, malto e orzo così agreste e domestica, che faceva battere il cuore a Veronelli. Eppure mi rendo conto che non bastano in descrittori ad esprimerne purezza e fascino evocativo: è in lui una vibrazione interna, pennellate di luce e colore liberissime e ordinate.

Al sorso è di corpo, un abbraccio glicerico che subito si muta in un contrasto acido-salino potentissimo e sorprendente, perché il profumo è da bianco maturo, ma sul palato guizza rinfrescante, energico, teso come un vino giovane. La tannicità matura e dolce che gli deriva dalla macerazione sulle bucce è appena percettibile, avvolta da quella sua ricchezza senza peso da mosaico orientale, della quale vive e vibra.

Lo innerva una lunghissima scia minerale, come un luccichio di brillanti che segna il tragitto verso il finale lunghissimo, pulito, senza traccia di calore alcolico: un sorso tira l’altro, dimentichi del grado.

Possiede un immensa forza vitale: è una sorta di roccia liquida, che sciolta mantiene compattezza, ma diviene flessibile, coerente. Quasi che il tormentato Carso, duro di terre, di genti, di guerre, di odii, abbia ricomposto in questo vino i suoi contrasti per una superiore armonia, distillandosi al sole tramite la vite e l’uva.

Un grandissimo vino, che rimane nella mia memoria tra i più grandi bianchi mai assaggiati.

L’ho avuto, viaggio d’amore, su scialatielli con seppie e gamberi, rana pescatrice al forno con pomodorini e patate.

Malvasia Salina DOP Francangelo 2016, Punta Aria, 12,5 gradi.

Era l’agosto del 2007. Di stanza a Panarea, si andò a Salina con l’aliscafo. Là si prese uno scooter per girarla. Questo il mio ricordo: sole, roccia, vento, mare: la natura vulcanica sembrava respirarsi nelle nari.

Rammento una tratta, guidando, col sole che meriggiava: a destra il mare, quasi strapiombo, che biancheggiava agitato; a manca la roccia nuda caldissima rilasciava vampate: pensavo fosse residuo del vulcano spento, invece era solo scirocco fortissimo, presumibilmente.

(Finimmo difatti per passarvi la notte, interrotti i collegamenti in aliscafo; nemmeno noleggiando privatamente un motoscafo si tornava. C’era, combinazione, Massimo Lopez in fila con noi ad informarsi e pensai che la natura non guarda in faccia nemmeno ai VIP; lui si comportava, onorevolmente, da turista qualsiasi, e l’apprezzai. Dormii lì, in una stanzetta al piano terreno, proprio dietro al porto. Al mattino, una colazione luculliana in una pasticceria stile Anni ’70, della quale ho scordato il nome, ma che era buonissima. Sfogliatelle, cannoli, dolci al pistacchio. C’era un signore anziano, pantaloni corti e camicia a quadri leggera, un po’ aperta, intento alla sua colazione e a leggere il giornale. Lo salutarono con familiarità e deferenza, quando uscì. Mi convinsi che fosse Andrea Camilleri. Probabilmente non lo era, ma mi piace continuare a crederlo).

Nel girovagare, pampini verdi su terra ocra, allevati bassi, un po’ ovunque. Già allora sapevo della fama del vino di Salina, ma non rammento se l’assaggiai; in caso, non mi conquistò; ma avevo un altro gusto e un’altra testa, allora.

Tuttavia, vivissimo il ricordo di quell’isola e il rimpianto di non esservi tornato.

Qualche tempo addietro, amici mi regalarono questa bottiglia di Malvasia secco, di Salina: bada, amico o amica che mi leggi, non la celebre e meravigliosa versione passita, che tanti conoscono. Questo è vino da pasto, raro a trovarsi fuori zona.

Attendi attendi, mi son risolto oggi di aprirlo su spaghetti al pesto di pistacchio, appena approntati.

Intelligente intuizione, perché l’abbinamento funziona; ma inaspettata è la bontà caratteriale di questo vino.

Non si misura un punti, una Malvasia così: parla emozioni, non numeri.

Tre anni d’età ed una permanenza, mea culpa, lunga in frigo, tale da sfibrare.

Tuttavia nel calice ho un liquido luminosissimo, color limone carico, con riflessi cangianti tra il verdino e l’oro, che lascia appena un velo lieve sul calice: dura una quindicina di secondi, poi scompare, senza generare gocciole.

Il suo profumo è una cartolina pulsante di Salina: il sole, il vento, il mare, la macchia, i capperi, l’uva dorata al sole, un bagliore affumicato, in una mimesi affascinate e sconvolgente. Suggestione? Forse. Menzioniamo allora l’uva spina, a completarne il profilo, e la lavanda, e il lime. Appena, con l’età, balugina zucchero filato.

Evoca il Mediterraneo, ma declinato in freschezza, rammentando l’origine del nome Eolie: da Eolo, dio dei venti, ritenuto qui abitante.

Vieppiù si rinnovella al sorso: leggero, ma ben presente, nervoso di una acidità ardita e sorprendente: essa spinge come folate di vento, impietose, e muove il vino donandogli vigore, slancio, ritmo quasi implacabile, che da un attacco morbido sulla punta della lingua incalza verso un finale lunghissimo, col sostegno di una salinità martellante.

Il contrappeso della sensualità morbida ed orientaleggiante della Malvasia completa il quadro: obliquo, sbalzato in chiaroscuro, con la pennellata grassa, ma guizzante e nervosa.

Un bel godere, davvero. Peccato la reperibilità, che temo scarsa.

Se ti interessa, amica o amico che mi leggi, aggiungo che il vino è certificato biologico.

Il Volpato Bianco e Rosso del Podere Nannini: una micro verticale.

Volpato Bianco Toscana, IGT 2017, 12 gradi; IGT 2016, 13 gradi;

Volpato Rosso Toscana, IGT 2017, 13 gradi; IGT 2016, 12,5 gradi;

Podere Nannini.

Ho conosciuto la Maremma che ero un bambino: erano i primissimi Anni ‘80, perché dell’ultimo scorcio del decennio precedente, è difficile io abbia contezza. La si frequentava in transito per andare d’agosto all’isola d’Elba: i miei genitori, i miei nonni, zii e cugini, la famiglia e gli amici di mio fratello. Bellissima e selvaggia quella terra, di fascini e silenzi notturni, di immobili meriggi assolati, affocati dal caldo e dal ronzio delle cicale che invadeva i cespugli degli oleandri. C’era,allora, la vecchia Aurelia, che inanellava come le semi di un rosario paesi dai nomi aperti e indolenti, evocativi di sole, di mare e di rena: Bibbona, Donoratico…costeggiando i vecchi poderi un po’ cadenti, che immancabilmente avevano un capanno di legno e canniccio preposto allo smercio di frutta, verdura, vino e olio, saltuariamente miele e qualche cacio. Un paesaggio non molto diverso da quello dell’“abito fiero” e “dello sdegnoso canto” di carducciana memoria o dalle macchie abbagliate di un Fattori, di un Signorini, di un Lega, di un Borrani, di un Cabianca.   La zona di Castagento Carducci e di Bolgheri, da spettinata e sonnolenta che era, si è oggi rifatta il trucco grazie al turismo ed all’enoturismo, divenendo assai più curata ed elegante, ma perdendo qualche cosa in autenticità e schiettezza. Da qualche anno ritrovo la memoria di quell’antica Maremma dei miei ricordi scendendo un poco più a meridione e doppiando il capo dove sorge Piombino, verso Follonica.  Lì si stende una landa – ché  diversamente non saprei come definirla- piatta, lembo estremo della Val di Cornia quando quest’ultima si tuffa nello specchio di mare che guarda la sagoma sensuale e altera dell’Elba. È incorniciata a settentrione dalle sagome spettrali degli altiforni Ilva, poi Lucchini, oggi Jindal, con le loro duplici ciminiere altissime; a meridione dalle palazzine di Follonica. Nel tratto parallelo al mare condta di aree incontaminatamente, umide, selvagge (il parco della Sterpaia), mentre nell’interno la campagna è ancora genuinamente campagna: una distesa vasta e spaziosa di terra coltivata, di zolle fertili rimosse, coi campi di girasole, grano, carciofi, lattughe, peschi e albicocchi, ulivi e viti; che, se non sono coltivati promiscui filare per filare, poco ci manca, tanto un appezzamento confina con l’altro, variando la coltura: così che le une si affratellano alle altre secondo riquadri regolari. Essi sono delimitati, di quando in quando, dalle numerose strade bianche; e, d’intorno, stanno le colline subito alte e verdi di boschi. Lì, ancor oggi, ci sono tante aziende agricole, dove ancora si posson comperare al minuto frutta, verdura , formaggi, olio, miele, vino; da coltivatori diretti di un’autenticità sana e veramente a chilometro zero, altro aspetto che mi rende sempre piacevole una vacanza a Torre Mozza, ultima località livornese prima del confine grossetano.

Ora: non è che vedendo qualche cartello di codeste aziende che reclamizzava la vendita di vino, mi fossi in verità mai affrettato ad assaggiare quelle bibite: su quelle terre piatte, apparentemente pesanti, e assolate, che cosa poteva mai venire? E poi, lo sapevo, qui si produce ancora tanto sfuso senza pretese – non c’è nulla di male, se non si hanno particolari aspettative.

Ventura vuole che lo scorso novembre, girellando per i banchetti del meraviglioso mercato FIVI, mi imbattessi in un’azienda della quale non avevo mai sentito il nome e che notassi, con una certa curiosità, che era di Riotorto, una frazione del comune di Piombino che sta a un tiro di schioppo dal mare e da Torre Mozza.  Assaggiai i due “Volpato”, bianco e rosso, ed il rosso più ambizioso, l’Esopo, l’ unico ad affinare in legno.

Furono però i “ Volpato” ad accendere il mio interesse: giovani, spontanei, schietti, pieni di carattere; vini di ispirazione felicemente artigiana, quasi antica se mi ricordavano certi vini contadini locali degli anni ’70 e 80. Il Bianco mi attrasse in maniera particolare, rammentandomi i buoni bianchi locali e rustici di un tempo;  ripulito, sì, questo Volpato, ma autentico: dal colore carico e vivido, generoso, gustoso, corposo, dissetante, univa queste doti dei bianchi  maremmani della mia memoria ad una moderna precisione, con un taglio particolare, credo all’incirca paritario, di uve verdicchio e vermentino, che fu portato in zona da coloni marchigiani negli anni ’20 e ’30: erano terre di bonifica quelle del fondo della Val di Cornia.

Difatti  dal mercato FIVI mi riportai a casa due Volpato Bianco 2016 , un Volpato rosso della medesima annata ed una bottiglia del loro olio franto da poco, che trovai eccezionale: estremamente aromatico, piccante, vivido e sbalzato come un bassorilievo.

L’occasione di una vacanza a Torre Mozza in questo fresco principio di giugno è stata propizia per una visita al Podere Nannini, fugacissima ma intensa: qui c’è ancora una realtà autentica, contadina, dove una famiglia coltiva i campi, taglia le siepi e coglie le albicocche: se è il caso, potresti trovartele offerte, come usava un tempo: grandi, colorate, polpose e sode, saporite, asprine il giusto: squisite. L’ospitalità è calda, amichevole, genuina: in un attimo ti senti in famiglia, perché trattato con domestica e gentile confidenza. Per arrivare, uno stradello sterrato che si separa dalla strada provinciale 39 ( la vecchia Aurelia) e si infila fra i campi piatti, bordeggiando distese apparentemente  sconfinate di spighe dorate e di carciofi, grandi e violacei come monumenti barocchi. La terra attorno è di zolla grave, scura, gravida di sostanze nutrienti come una vitella dalle lunghe corna; e, credo, con una certa percentuale di argilla.  Piatte sono pure le vigne, quelle che ti vengono mostrate con orgoglio: amplissima quella vecchia di trebbiano, con piante che superano i quarant’anni e sono magnificamente in vegetazione, quasi formassero un labirinto verde; e  assai più raccolta quella di cabernet franc, appena piantata, che andrà in produzione tra qualche anno.

Viene spontaneo riflettere, empiricamente: le vigne distano 5-6 chilometri dalla linea di costa, che è la lunga spiaggia sabbiosa del parco della a Sterpaia; troppi forse per ricevere appieno le brezze marine che spazzano l’ampio golfo di Follonica (in estate, lì sul mare, può fare persino freddo), tuttavia son sicuro che benefici della sua azione termoregolatrice, delle sue guazze notturne (che ristorano le viti quando soffia la calda brezza di terra) e di quella luce intensa, pura e particolarissima per la quale è celebre questo tratto di costa Toscana, da  Bibbona a Gavorrano. D’altra parte le vigne in pianura possono anche limitare l’espressione di certe varietà e sospetto che il verdicchio funzioni bene in taglio per regalare un di spinta acida e struttura  al vermentino che qui, forse, da solo riuscirebbe troppo largo e senza nerbo.

Con la visita al Podere Nannini mi son messo in bagagliaio anche qualche bottiglia del Volpato Bianco 2017 e del Volpato Rosso 2016, potendomi così divertire al gioco di una  verticale di due annate: piccola, improvvisata, domestica, ma rivelatoria. Cominciando, come da vecchia tradizione, dal vino più giovane.

Il 2017 ha un bel color limone luminoso e molto pieno, con riflessi verdini, quasi di giada: saranno verdicchio e vermentino con quelle a radice “ver/verd/vert” ad ispirarlo.

Forma sul calice un velo spesso, che diviene lacrime massicce, lente, evanescenti. Si vede ancora un po’ di finissima anidride carbonica disciolta, segno di giovinezza e di un imbottigliamento tutto sommato recente. Per me è la benvenuta.

Esprime un profumo molto intenso e campereste, estivo: fosse un arazzo, l’ordito sarebbe scopertamente cerealicolo, di campi di grano maturi e biondi, sui quali si disegnano rustiche figure di salvia e di alloro, di albicocche e foglie di carciofo, di semi di girasole e di papavero, un tocco delicato di uva spina ed uno deciso di pomodoro, con una lieve scia minerale.

Al palato è schietto: di corpo importante,  ben secco, eppur morbidamente avvolgente per effetto del glicole, ha un’acidità netta (un “asprigno”, ha detto il mio babbo), che disseta e richiama sorsi e sorsi, anche perché c’è quell’anidride carbonica disciolta ed una certa sapidità che titillano. Al gusto è dinamico, con continui e franchi rimandi ai suoi profumi intensi, e tuttavia il vino rimane improntato ad una certa delicatezza di tocco, in virtù anche di una sensazione tattile  fluida e sciolta.  Il finale ha una giusta lunghezza, pulizia, ed un gioco quasi scherzoso tra le dolcezze alcoliche e le note saline. Fosse una luce, sarebbe quella decisa, ma nitida ed ancora fresca di metà di una mattina di giugno. Credo che trovi il suo migliore abbinamento su una cucina di mare ricca e sapida , ma lo proverei volentieri anche sulle verdure ripiene e sulle carni bianche.

Curiosamente Il Volpato 2016 esprime un grado alcolico maggiore, una sorpresa considerato che l’annata 2017 è stata più calda; ma calore, si sa, non significa necessariamente  grado alcolico, che è piuttosto legato all’intensità luminosa ed alle ore d’insolazione: anzi, la maggior calura può aver da un lato mandato le viti in uno stato, per così dire, di protezione; dall’altra il cielo potrebbe essere addirittura rimasto più velato per l’afa, riducendo l’insolazione; e conta, ovviamente, l’epoca della vendemmia. Rispetto al fratello minore ha un color limone più carico e maturo, e profumi ancora più intensi, robusti, profondi: qui si annodano in perfetto ed armonioso bilanciamento agrumi maturi (e limoni, in particolare), frutta secca (nocciole fresche, mallo di noce), spunti idrocarburici e terrosi, su un tappeto soffice di fiori gialli e bianchi, di uva spina, con intermezzi quasi piccanti di peperoncino e timo. Ritornano i girasoli, petalo e seme, ritorna la macchia riarsa dal sole, evocata e subito sfumata. Sorso molto armonioso, col corpo ampio, energico, di notevole spinta acida e salinità più delicata, quasi accennata rispetto al 2017, ma in realtà ben presente e integrata in delicata fusione grazie alla maggior presenza  estrattiva del vino. Al gusto è ancora più concentrato e nel finale si illumina di un’inattesa balsamicità di resina di pino, che all’olfatto era appena accennata. Anche la persistenza mi sembra avere una marcia in più rispetto al fratello più giovane, per lunghezza ed armonia. Mantiene in pieno, tuttavia, quelle benvenute doti di freschezza e secchezza, quel dissetante “asprigo”. Fosse una luce, in questo caso virerebbe su quella di un mezzo meriggio di giugno: sempre decisa, ma ancora più forte e più calda. Lo direi bene sul pescato di mare, e su grandi crostacei: astice, aragosta.

La mia micro verticale del Volpato rosso è forse una piccola forzatura, essendo dichiaratamente , questo, un rosso da gustarsi nella sua giovinezza.  Però è stata l’occasione quasi di riscoprire questo vino, che durante la fiera novembrina non avevo forse apprezzato appieno nella sua giusta dimensione, che poi è quella della tavola, dei sapori sapidi e genuini, dell’aria aperta: non ti aspettare qui -amica o amico che mi leggi- un vinone signorile da concorso, un bell’imbusto in doppio petto, ma un vino amico e schietto, quello è.  Curiosamente, nel rosso l’annata ha avuto effetto inverso sul grado alcolico, maggiore nel vino più recente.

Il Volpato Rosso 2017, è perlopiù di uva sangiovese, con aggiunte di canaiolo e ciliegiolo. Ha un colore rubino perfetto,  molto trasparente, bellissimo e luminoso; lascia sul calice un velo evanescente. Profumo di intensità  superiore alla media, semplice e fresco, principalmente sulla frutta rossa: se parte dalla rosa, vira subito sulla  fragola e attraverso la ciliegia trascolora  fino all’amarena, persino quella candita e  sotto spirito. Un fondo delicato di erbe aromatiche un po’ selvatiche, come il timo, e minerale, di grafite, di legna bruciata. Di corpo quasi lieve, inferiore di certi a quello di molti rossi, ha snellezza, scatto, tanta acidità ben integrata che lo rende fresco e dissetante come un agrume, ed un più è assai salino. Il tannino c’è , ma leggero, fine. Non ha grande estratto, ma è ragionevolmente gustoso,  ed ha un finale di discreta lunghezza, equilibrato, nitido e pulito, perché si giova della secchezza del vino: è senz’altro toscano è maremmani nel carattere, non ci sono svenevolezze qui. Sobria quasi una versione mediterranea, sorridente, virile di un Beaujolais, ma di quelli buoni: un  Morgon, un Moulin a vent. Fosse un colore, sarebbe un rosso vivo, ma pastello.

L’abbiamo gustato con grande piacere su un’insalata di pomodori rossi locali, squisiti, e su pecorino fresco ed affettati assortiti, tra i quali una divino prosciutto di cinta senese brada della Macelleria Marini di Agliana (PT), tagliato rigorosamente al coltello. Tuttavia non esito  a immaginarlo ottimo su zuppe di pesce e persino sulle triglie alla livornese, per non parlar dello stoccafisso in umido, come si prepara in Toscana; e, perché no, sul tonno. A mio vedere, è un vino da pesce paradigmatico.

A margine, mi sono chiesto come sia stato possibile ottenere un rosso così lieve e dalla tinta trasparente in un’annata calda e asciuttissima  come la 2017, e in questa zona, dove sui colli vicini seccavano persino gli alberi nei boschi. Non credendo a magheggi di cantina – perché il vino fluisce in maniera talmente naturale- ritengo che l’effetto del mare ed una certa percentuale di argilla nel terreno possa aver aiutato le viti, ma soprattutto che,  intelligentemente, la vendemmia sia stata alquanto anticipata e la macerazione sulle bucce tenuta corta.

Il Volpato Rosso 2016, complice l’annata felice ma notoriamente particolare, mostra in maniera se possibile ancora maggiore un carattere originalissimo ed artigiano: mi ricorda davvero, come se li avessi materializzati davanti, certi rossi toscani che si bevevano qui e sulla dirimpettaia Isola d’Elba, soprattutto dal punto di vista aromatico. Già al colore, l’impatto è diverso: sempre rubino trasparente, e  molto luminoso, ma assai più concentrato e cupo rispetto al fratello più giovane. Anch’esso forma sul calice solo un velo, che si ritira adagio ed uniformemente, senza quasi accennare a lacrime. Il profumo è molto intenso, concentrato e complesso, sfaccettato fino a toccare note più acute e profonde. C’è un’idea di fiori, come di petali di viola appassiti, che vanno a braccetto con profumi di frutti di bosco rossi e neri (lamponi, more e mirtilli), fino all’uva aleatico appassita. In mezzo sta la frutta rossa: polpose susine, mature ma ancora croccanti, un po’ acidule. Intorno sta una nuvola complessa ed inestricabile di macchia, quella selvaggia e resinosa delle dune costiere, ed una scia sottotraccia di spezie di norcineria – il pepe nero e quello bianco – e di sottile mineralità. In bocca è gustosissimo, succoso, longilineo, ben secco, salinissimo e con un’acidità spiccata: non l’ho assaggiato in parallelo col 2017, tuttavia credo che i parametri analitici di acidità non siano granché diversi: ma in questo 2016 la combinazione di maggior estratto e minor alcol (limitato alla soglia legale dei 12,5 gradi) risulta in una superiore freschezza: letteralmente,  è appetitoso e fa salivare appena lo si avvicina al naso. Di corpo presente, ma assai misurato, sul finale è nitido, equilibratissimo ed in rimando continuo ed incalzante tra frutta e sale, dolcezza e acidità, molto gustoso e di spiccata persistenza. Insomma, ha una marcia in più rispetto al fratello minore; o, piuttosto, un eloquio più scopertamente tridimensionale. Toscanissimo anch’esso e forse più ancora dell’altro. Fosse un colore, sarebbe un viola scuro, luminoso e cangiante, come i petali di certi fiori di campo. L’abbiamo goduto con piacere su un piatto di penne coi pomodori freschi, guardando il mare del Golfo di Follonica, ma lo proverei, credendolo ideale, sovra un galletto alla griglia o al mattone, o eventalmente allo spiedo.

Rossi, entrambi – mi raccomando di cuore amica o amico che mi leggi- da bere un po’ freschi, assolutamente non oltre i 18 gradi e scendendo tranquillamente fino ai 14, in particolare col 2017, specie lo gusti su vivande di mare. Faccio mia la raccomandazione che il produttore mi ha detto mentre si caricava in macchina le bottiglie: meglio berlo in fretta, senza lasciarlo troppo invecchiare; ed io direi che il suo orizzonte può essere i tre, forse i quattro anni dalla vendemmia,  solo se ottimamente conservato.

Guarda tu che vini, quelle viti di pianura, quelle terre da ortaggi, da pesche…è forse questo il massimo che possono dare?

Ecco un territorio che parla attraverso il bicchiere, grazie ad una mano sapiente e rispettosa, in grado di valorizzarne la peculiarità oltre ogni aspettativa. Proprio vero: “ nel vino si riconosce il mondo”.

La prossima volta al Podere Nannini mi fermerò con calma: farò mio il tempo lento di stringere le mani, di aspettare il tramonto passeggiando le vigne.

Bianco Pomice 2010, Sicilia IGT, Tenuta di Castellaro, 13,5 gradi.

Oggi il Mercato novembrino della FIVI (Federazione Italiana Vignaioli indipendenti) è uno tra gli eventi più conosciuti , amati e frequentati da chi, a varo titolo, si occupa di vino. Io, che per intuizione fortunata lo visitai anche il primo anno che si svolse, posso testimoniare che partì alquanto in sordina. Però, ciò che era vero allora è vero ancora oggi: al Mercato della FIVI si possono scoprire vini meravigliosi, anche uscendo dalle rotte più conosciute. Fu appunto in quel lontano primo mercato della FIVI che acquistai questo Bianco Pomice: mi stregò allora, mi strega forse ancor più oggi, che mi decido finalmente ad aprirlo. Pomice nel nome, perché richiama la pietra vulcanica e leggera che abbonda sulla terra dove è nato: Lipari, l’isola maggiore delle Eolie. Fu, nell’assaggiarlo allora, un tuffo nel sole di quell’isola, nei riflessi del suo mare, nei suoi profumi, evocando in me i ricordi di una visita lontana nel tempo, ma abbagliante. Vino, questo Bianco Pomice – sei decimi da malvasia delle Lipari ed il restante da uva carricante- che mi pareva di esecuzione precisa e di grande suggestione; tuttavia ne sospettavo e temevo una ridotta capacità di tenuta nel tempo, un po’ per mio preconcetto di allora verso i vini isolani in generale, vieppiù se bianchi e del sud, un po’  perché ricordavo che la Tenuta di Castellaro era alle sue prime annate e, nella mia mente, tale gioventù produttiva doveva pur pagarsi, in qualche modo. Il produttore stesso ne indicava una vita stimata tra i tre e i quattro anni. Perché dunque aspettai tanto ad aprirlo, otto lunghi anni dalla sua vendemmia? I casi della vita, puri e semplici, senza nessuna premeditazione.  Ecco dunque che viene il momento propizio, e speranzoso lo apro. Speranzoso, sì, perché col tempo l’esperienza mi ha portato a deflettere da quei preconcetti. Speranzoso, malgrado l’abbia conservato in una cantina buona, ma non ideale. Però, a versarlo nel calice, io resto addirittura allibito:  il suo colore è limone perfetto, limpido, appena con qualche riflesso dorato, luminoso, solare, e forma sul calice gocciole rade, veloci, che subito divengono evanescenti: prima un velo, poi spariscono. A riguardarlo – e bisogna, perché affattura la vista- non dimostra che la metà dei suoi anni.
Attira, seduce, in un attimo si accosta alle nari: anche il profumo, benché in evoluzione, è assai più giovane di quello che detterebbero i suoi anni; risponde piuttosto, in pieno, alla sua immagine visiva: pulito, molto intenso e complesso, ti rapisce e ti porta dritto nella primavera eoliana avvolgendoti in una nuvola di zagara, mimosa , di fiori di limone e di arancio e i fiori gialli tutti; ed ecco che il fiore diventa frutto e si fa estate profumata di limoni, di aranci maturi, materici fino a percepirne il profumo della scorza, e poi le susine bianche (le Claudia); ed ecco inoltrarsi ancora nei caldi agostani, le macchie riarse ed ebbre di salsedine, le erbe arroventate dal sole che ancor più si fanno odorose: rosmarino e timo; persino la terra nuda, in una mineralità ocra che profuma quasi di sabbia, di pomice, creando una correlazione evocativa tra profumo e colore e materia impressionante; ed ancora, ad un ascolto attento (eh sì, perché un vino così , che racconta, bisogna proprio ascoltarlo) , capperi e acciughe, su un fondale distintamente ammandorlato: pura territorialità.
È il suo bacio però, come in un crescendo, a conquistarti per sempre, come proprio dovrebbe essere per tutti i grandi vini: alla bocca è incredibile per forza motrice, così ampio, pieno di gusto, perfettamente rispondente e aperto come la coda di un pavone, ripercorrendo sul palato tutti i profumi dell’olfatto fino a toccare, nel retrogusto la mandorla e l’amaretto. Tuttavia, sono la sua struttura e la sua freschezza ad accendere la miccia di tanta complessità, e provocarne in bocca l’esplosione piroclastica che la lancia in volo: la sua acidità è altissima, incredibile per un vino isolano di quelle latitudini, ed è meravigliosamente integrata, sciolta e naturale al punto che, foss’anche un gioco di prestigio enologico  –  ma non lo credo affatto- lo avrei benvenuto. Poi è salinissimo, come pochissimi ne ho assaggiati in vita mia, al punto che userei un doppio superlativo per descriverlo, come si faceva nelle filastrocche da bambini: “ -issimissimo!”.  E sul sale sta per tutta la sua persistenza, per il resto bilanciatissima e lunghissima. Per complessità, souplesse e scatto, ed anche per la suggestione dovuta alla forma della bottiglia, verrebbe da definirlo un Borgogna del sud Italia: la citan tutti a sproposito la Brogogna, lo faccio anch’io. La realtà tuttavia è che  questo Bianco Pomice è individuale e unico, perché  riesce a trasmettere tutta l’emozione e la forza del suo territorio in una veste moderna, precisa, distinta: forse perché c’è in lui e nella mente e nelle mani di chi l’ha creato un laico ideale di rispetto per ciò che genera la terra, la volontà di assecondare la vocazione dell’uva, senza forzature, utilizzando tecnica e ingegno solo quanto basta, quasi l’enologia non fosse che l’opera sensibile di una levatrice: lieviti indigeni, chiarifica naturale dei mosti, pratiche antiche. E, per esperienza ci scommetto, partendo da una gestione attenta e progettuale del vigneto.
Il risultato è, al mio gusto almeno, un miracolo di bellezza.  
Lo immagino ideale, in questa fase matura  della sua vita, su pesce pescato di mare al forno- ad esempio un semplice branzino al sale. Stasera ha avuto compagno del pesce spada cotto coi pomodorini: la sua voce ci ha comunque incantato. 

Chianti Classico 1997, Dievole, 12,5 gradi.

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Credo che per molti della mia generazione, se bazzicavano la Toscana e se si accostavano al vino come me, più o meno autodidatti, i Chianti Classico di Dievole siano stati le prime bevute veramente serie, venendo direttamente dal bianco Galestro delle estati dei primi baci, o giù di lì.
C’è stato un momento, verso la fine degli anni ’90, che le bottiglie di Dievole avevano goduto di un’ottima distribuzione ed erano comparse persino sugli scafali di qualche supermercato di un certo tono. Era un progetto, quello di Dievole, all’avanguardia per i tempi. Anche il marketing era originale e aggressivo: le etichette frontali dalla grafica affascinante e innovativa, le etichette sul retro a libro, e parlanti, piene di foto; certe bottiglie, ricordo, recavano le foto dei vecchi contadini della zona o l’impronta delle loro mani; i campioni dei vini, venivano mandati alle prime riviste online. Addirittura, tutta questa originalità  finì forse per nuocere, spostando l’attenzione dal vino all’involucro e alla comunicazione. Peccato, perché il vino in sé era serio, e  si scostava abbastanza dagli schemi dell’epoca, con una produzione curata e di qualità: grande attenzione ai vitigni autoctoni, anche minori, uso estensivo di moderni tini di legno troncoconici con controllo delle temperature, uso misurato e consapevole delle barrique. Al punto che, sono sicuro, se facessimo un sondaggio, chi all’epoca beveva Dievole negli anni si è accostato a vini artigianali, naturali o basati sui vitigni autoctoni; chi beveva, per dire, il Bruciato di Antinori, è rimasto legato alle grandi produzioni e a uno stile più “internazionale” .
A me i Chianti Classico di Dievole piacevano molto. Mi pareva fossero davvero Chianti degni di questo nome, per il valido profilo sensoriale, che non aveva né la magrezza di certe produzioni, né quelle note esplicite di uve straniere e quelle morbidezze incongrue che altri avevano. Difatti ne comprai diverse bottiglie e li consigliai a mio padre, che aveva ancora il ristorante all’epoca: lui, per una volta, mi ascoltò, forse convinto dai vini stessi più che dalle mie parole.
Qualcuna di quelle primissime bottiglie rimase al buio nella mia piccola cantina toscana, appositamente, per il piacere di risentirla più in là negli anni. E perciò  l’assaggio oggi alla prova del tempo questo Chianti Classico del 1997, annata che venne salutata con grandi elogi, ma che ora si dice sovrastimata. In questo vino stanno: sangiovese, canaiolo, colorino e, a memoria mia, anche malvasia nera. Il suo colore è granato profondo, limpido, con gocciole molto fitte, regolari, veloci; ne parte poi una seconda ondata, e sono più rade e più lente. Il suo profumo, dopo vent’anni, è molto intenso ed ancora in sviluppo, molto complesso: viole appassite, susine mature, amarene, lamponi; anche un bel po’ di frutta nera: mirtilli e more di rovo; arancia – elegante- e melograno; una speziatura raffinata di noce moscata e chiodo di garofano; spunti balsamici: mentolo,  alloro, erbe medicinali, foglie e bacche di cipresso.  Vi sono poi, evidenti ma in equilibrio, i profumi più tipici dell’ invecchiamento, più ombrosi e segreti: il muschio, il fungo porcino, la terra bagnata, la ruggine, il ferro, la ghisa. A mio vedere, le stigmate del Sangiovese ci sono, eccome, ed anche quelle della Berardenga, che, almeno nella mia minuta esperienza , regala i Chianti Classico più ampi e più fitti. Difatti il sorso è pieno e, incredibilmente per l’età, ancora molto succoso, fresco e scorrevole; eppure è di gran corpo, con un tannino ancora molto presente, ma maturo e insieme croccante. Certamente la snellezza di beva si giova di un tenore alcolico di 12,5 gradi, quale oggi si stenta a trovare, tuttavia la sua acidità altissima, e la sua grande salinità, lo spingono verso un finale lunghissimo, equilibrato, proporzionato e franco nel passare nuovamente in rassegna tutti gli aromi, in un ultimo saluto che non sembra finire mai. Complessità, eleganza e scatto: verrebbe quasi da accostarlo a un Barbaresco invecchiato, per spiegare il genere, se non avesse qualche cosa di profondamente terragno, carnale , etrusco. Prosit, con questo vino che, pur figlio del suo tempo,  forse meritava maggiore considerazione per ciò che era e ciò che ha fatto, crescendo tanti di noi. Non so la nuova proprietà come gestisca l’azienda: magari benissimo; a quel Mario svizzero però, che di cognome faceva Schwenn e che si firmava “ di Dievole” nelle comunicazioni, che aveva solo 21 anni quando a Dievole aveva cominciato a coltivare il suo sogno, un bel grazie per quel progetto un po’ matto e visionario bisognerebbe dirglielo.

Ageno 2007 Emilia IGT, La Stoppa, 13,5 gradi.

Se nominassi i Colli Piacentini ad uno straniero, o anche ad un italiano che vive fuori zona, diciamo al sud, credo che evocherei ben poco. Non che la zona brilli per visibilità, né dal punto di vista enologico, né da quello strettamente paesaggistico o artistico, ed è un peccato, perché in realtà si tratta di una gemma a pochi chilometri da Milano: un polmone verde che è rimasto per tanti versi autentico e incontaminato, a dispetto dell’industrializzazione che si spande disordinata dai lati dell’autostrada A1.
Per me, i Colli Piacentini erano quelli delle gite domenicali con la mia famiglia: mio padre li privilegiava perché erano ad un’oretta d’auto, non si trovava mai traffico e con poco si mangiava bene. Mi ricordo tante volte in autunno, in inverno, si usciva dall’autostrada a Piacenza e in pochi minuti si era tra i campi dalle zolle brune che esalavano nebbia verso un cielo uniformemente grigio, verso il quale filari di alberi levavano i rami spogli come un monito nero, ed i corvi pigri a terra punteggiavano il paesaggio dell’unica apparenza di vita; eppure l’insieme era di una dolcezza nuda, desolata e struggente, quasi segreta nei ruderi di chiese e ville barocche, e abbazie, e fattorie e castelli che si intuivano in lontananza; profondamente triste e consolatoria come l’Andante con moto quasi Allegretto, che del terzo dei Quartetti Razumowski di Beethoven è il secondo tempo. Poi, si saliva verso le colline, così morbidamente da non avvertire alcuna soluzione di continuità. Allineate lungo i fiumi, che le solcano da sud ovest a nord est, si traversavano la Val Tidone, la Val di Nure, la Valchero, la Val Luretta, la Val Trebbia, scabre l’inverno e talvolta imbiancate, su su fino a Bettola o a Bobbio, dove si pranzava e ci si scaldava col locale Gutturnio, che se anche a volte era un po’ rustico, a noi piaceva, così pieno e corposo. La primavera, invece, che era un tripudio di verde virgineo, uno scorrere d’acque, un luccicare di sabbie gialle, dinargille azzurre, di candidi calcari , di arenarie grigie  (le matrici sono marine e spesso affiorano fossili), di fiori e di api, era anche il tempo dell’Ortrugo: bianco, fresco, vivace e sottile; allora, anch’esso un po’ rustico, o comunque senza troppe pretese. Se li nominavi fuori zona, Ortrugo e Gutturnio, ben pochi ne avevano sentito parlare. Eppure la tradizione vinicola dei Colli Piacentini è antica e la vocazione riconosciuta, quantomeno  da alcuni pionieri: pare infatti plausibile che il celebre Louis Oudart, che a metà ‘800 per primo vinificò il Nebbiolo secco a Neive (e perciò lo si ritiene il “papà” dei moderni Barbaresco e Barolo), si rifornisse già nel 1833 di uve dalle parti di Bobbio, le vinificasse alla maniera dello Champagne e come Champagne le vendesse: non c’erano le DOC e AOC allora. Tra i pionieri, probabilmente, andrebbe nominato l’avvocato Giancarlo Ageno, che fondò La Stoppa ai primi del ‘900, impiantando vitigni francesi per saggiare il territorio.  

Io pure, pur amando profondamente quelle colline, non mi ero reso conto del potenziale dei vini del  piacentino, finché, qualche anno addietro, non assaggiai vini de La Stoppa a una manifestazione chiamata Sorgente del Vino, che si teneva la allora appunto su quei colli, nel suggestivo castello di Agazzano; e rimasi letteralmente a bocca aperta.

La Stoppa appartiene dal 1973 alla famiglia Pantaleoni, che a Rivergaro, su quei terreni di terre rosse antiche, ricchi di ossidi minerali, poco lontano dal fiume Trebbia,  ha deciso di ripiantare in buona parte uve autoctone, di coltivare e vinificare secondo principi biodinamici, con interventi in cantina minimi. Tutta la produzione è buonissima, territoriale, personale. Già in quegli assaggi, però, un posto speciale me lo conquistò nel cuore proprio il vino dedicato all’antico fondatore, un bianco da  malvasia di Candia aromatica, ortrugo e trebbiano, vinificato secco e fermo, con la tecnica della macerazione sulle bucce (30 giorni) e affinato a lungo in legno e acciaio: tre anni. E che sorpresa fu trovarlo in offerta su un sito internet  inglese ! Perché questo non è un vino standardizzato e per tutti , mainstream, come dicono lassù, ma una cosa viva, parlante, mutevole, inevitabilmente dialettica. Ti racconto – amica, amico che mi leggi- il mio assaggio domestico, che risale a 7 giugno del 2016. 

Il suo colore…come definirlo? Ambra luminosissimo e trasparente? Ricorda più un vinsanto, o un Madeira, o un whisky scozzese, che un vino da pasto, sia pure anche superiore, come si diceva una volta. Disabituati noi, forse, a certe tinte affascinanti e antiche. Lascia sul calice gocciole estremamente lente, variabili nella velocità e che dunque formano cime frastagliate, ma regolari nella successione. Molte bolle finissime di anidride carbonica lì intrappolata si palesano nel bicchiere, ma subito svaniscono alla vista lasciando il vino limpido e fermo, però rimangono al palato sotto traccia,  stuzzicandolo. L’Ageno esprime un aroma intensissimo e estremamente complesso, continuamente cangiante, notevolissimo per la personalità del suo profilo: acetaldeidi in misura che può che anche disturbare chi è di naso sensibile,  e tanta frutta matura, maturissima, ma tutt’altro che cotta: arance, limoni ( persino canditi), tanto mandarino, susine bianche, pesche ,albicocche, corbezzoli; persino tocchi tropicali. Fiori ed erbe: ginestre, origano , rosmarino, salvia, prezzemolo, timo. Poi sentori di lieviti: biscotti, crosta di brioche; uniti a burro (che in genere stucca e qui invece mi delizia) e funghi, neanche fosse un grandissimo Champagne maturo. Quindi, attendendo ancora, un’altra arcobaleno di sovrappone senza sostituirsi, spiazzante: ora è minerale iodato, sa di sabbia sulla spiaggia; sa di vaniglia e di cocco; di mele, al plurale: cotogne, renette, golden; di nocciole; di pere; di muschio e legna umida; di sandalo; di zafferano. Se lo bevi,  noterai lo stuzzicare dell’anidride carbonica residua sulle prime; sentirai che c’è anche un po’ di tannino, inevitabile, ma maturo e di grana molto fine.
Noterai poi il sapore molto concentrato, con tocchi addirittura di frutta rossa ed ancora di burro; ed il corpo che è pieno e glicerico e che si snoda deciso sul palato; ma soprattuto che il vino è lieve, vivido, danzante, e con un’acidità ancora altissima e ben distribuita, fusa con una estrema salinità, viaggia verso una chiusura lunghissima, perfettamente equilibrata e rotonda  al gusto; forse appena un po’ alcolica, ma non è che un’inezia: spicca di più la sua tessitura carezzevolissima, con un tocco ruvido che la rende vibrante. L’ho provato sui cibi più svariati e si è dimostrato a suo modo garbato nell’ accompagnare ( sta su tutto) e insieme estremamente selettivo (difficile trovargli l’abbinamento eccellente). Allora, se pure è stato bene su bucatini a cacio e pepe, credo che il suo meglio l’avrebbe dato con abbinamenti più marcatamente territoriali: sarà la biodinamica che rafforza il legame con la terra d’origine, ma avessi avuto con me certi soavi e sapidi salumi piacentini,  certe paste ripiene locali così opulente e di sapori e condimento, certi arrosti scioglievoli! Magari non è per tutti questo bianco assaggiato a 9 anni dalla vendemmia, con quella quantità di aldeidi, con quell’equilibrio funambolico tra freschezza- che c’è, eccome- ed ossidazione: chi cerca solo la prima, ne sarà spiazzato. Per me, però, è semplicemente un gran vino, che migliora a distanza di giorni dall’apertura , diventando più delicato e floreale; così grande che invoglia non solo a berne e riberne, ma anche  a conoscere meglio tutti i prodotti di quel territorio: ti par poco, amica o amico che mi leggi?

Il bianco dell’Erta di Radda 2015, Erta di Radda Azienda agricola Diego Finocchi, 12,5 gradi.

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La Toscana, si dice spesso, non è regione bianchista. Questa affermazione mi è sempre parsa un po’ azzardata, e non solo per spirito campanilistico. Le tante DOC e DOCG bianche regionali vorranno pur dire qualche cosa. Io, nel mio piccolissimo, ho ricordi lontani e recenti di bianchi toscani degnissimi. A parte varie interpretazioni della Vernaccia di San Gimignano, ricordo ottimi Vermentino, Montecarlo Bianco, Bianco di Pitigliano; poi, altri da uve foreste, che hanno avuto ottimi riconoscimenti dalla critica specializzata: i vari Viogner, Chardonnay, persino Sauvignon e credo, in certe plaghe più fredde e prossime all’Appennino, addirittura Riesling. Epperò nella considerazione universale mancano i due vitigni forse più classici e storici, il Trebbiano e  la Malvasia, che insieme formano il taglio più tradizionale: anzi, come dice chi ha studiato, il blend. Al punto che si fatica quasi a trovarne di questi vini di Trebbiano e Malvasia, perché in essi sovente si miscelano uve alloctone nel tentativo -dubbio, mi pare- di nobilitarle. Vero è, mi assicura chi di viticoltura ne capisce, che trovare buoni cloni di Trebbiano Toscano, più qualitativi che produttivi, sia oggi un’impresa. Inoltre resto fermo della mia idea che i nostri vignaioli ed enologi non abbiano ancora esplorato a fondo le potenzialità di queste uve e non è detto che abbiano trovato la chiave per vinificarle nella maniera migliore e valorizzarle: manca, per così dire, il commento critico, l’interpretazione. Perciò questo Bianco dell’Erta di Radda mi ha incuriosito: il tradizionale -e oggi rarissimo- Trebbiano e Malvasia, che nasce a Radda  in Chianti appunto, da viti vecchie di quaranta e forse più anni, se ben ricordo ciò che mi spiegò Diego Finocchi, il loro vignaiolo. La vinificazione è neutra in acciaio e classica “in bianco”. Bada, amica o amico che mi leggi: per quel che ne so per secoli il Chianti è stato nomato più per la Malvasia che per il suo Vermiglio ( vero è che nel Medioevo era un’altra agricoltura, e forse un altro clima, di certo altri gusti). L’assaggiai la prima volta a fine inverno, a “Terre di Toscana”, e ammetto che non ne rimasi molto convinto: bestia io o qualche mese in più di bottiglia fino ai caldi di giugno gli ha giovato? Di sicuro la prima spiegazione è vera,  ma possibilmente lo è un pizzico anche la seconda. Lo riassaggio poi a “Radda nel bicchiere” e ne resto affascinato, al punto di acquistarne. Mi conquista per il suo peculiarissimo carattere, che è quanto di meno ovvio si possa immaginare. Lo verso: è paglierino delicato dai riflessi verdolini, con lacrime lente sul calice, frastagliate un po’ evanescenti. Il suo profumo è molto delicato – stavo per usare l’avverbio “estremamente”. Anzitutto è la florealità ad insinuarsi tra le sue maglie:  fiori bianchi di pitosforo, di arancio, di pesco, forse anche di glicine. Vi trovo un cenno molto tenue di polpa bianca di pesca; poi qualche cosa di erbaceo, di vegetale: di salvia , di menta, di sedano; un tocco iodato e più ancora ferroso, quella ferrosità che io reputo così raddese.  Un’idea, alla fine e quasi retronasale,  di zenzero e rafano.  Un profumo che nasce dalla ricomposizione di piccolo frammenti, che formano un insieme dalle vibrazioni sottili ma intensissime; direi elettriche,  se il termine non restituisse un’idea di frenesia, che  qui è lontanissima: c’è dinamismo, ma con  misura. L’assaggio ed alla mia bocca è simile all’olfatto: ha senz’altro più presenza, lo definirei persino gustoso; ma è rispondente, nel senso che sensazioni ed immagini descrittive combaciano con quelle percepite dall’olfatto, perchè anche qui il vino è giocato sulle mezze tinte. Ha un corpo medio, o appena meno che medio; una qualità tattile delicatissima e carezzevole; una traccia salina delicata ma persistente; un’acidità superiore alla media; una persistenza tanto sottile quanto tenace, per un finale lungo, di grazia aerea e felpata. Questo Bianco dell’Erta di Radda ha una  qualità o caratteristica che nei miei assaggi ho trovato rarissima, forse unica in questa misura: la sua energia deriva da forze contrastanti che agiscono con tinte di acquarello. Io sarei assai curioso di lasciarlo qualche anno in bottiglia e riprovarlo poi, affidandomi alla tenuta del bel tappo di sughero intero. Con una forma di marzolino fresco del Chianti penso, amica o amico che mi leggi, possa trovare il suo matrimonio d’amore e di elezione.

Frascati Superiore Vigneto Santa Teresa 2013 e 2007, Fontana Candida.

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Parlavo anni fa di vini con un collega romano che mi era carissimo. Si era trasferito da tempo al nord ed amava i bianchi trentini e altoatesini. Si divertiva a stuzzicarmi col suo spirito sarcastico, ma curioso:  sapendomi appassionato, mi metteva alla prova.  Lo colsi, a un certo punto, in contropiede: “Ma il Frascati Santa Teresa, che è delle tue parti, l’hai mai assaggiato?”. Rimase quasi incredulo. Capii che persino per un romano di buona cultura era ormai difficile prendere sul serio il Frascati; figuriamoci se in altre parti d’Italia sarebbe stato possibile.
Io sono sempre stato un bevitore curioso: tutti i vini di antico nome e poi caduti in relativa disgrazia  mi hanno sempre attratto, per un ragionamento semplicissimo: se certi territori originavano grandi uve in un tempo antico quando l’agronomia e l’enologia non erano avanzate, perché oggi non dovrebbe più essere possibile? E qui si aprirebbe una serie di riflessioni: ad esempio, sui cambiamenti in vigneto dovuti alla volontà di massimizzare le rese e di meccanizzare gli impianti. Nel caso dei Castelli Romani e quindi di Frascati – mi spiegarono al bellissimo Museo del Vino di Monteporzio Catone-  anche la necessità di ricostruire in tempi brevi i vigneti che erano andati distrutti durante gli eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale, portando quindi all’impianto di varietà e cloni a rapido accrescimento, ma di qualità corrente. E poi, tutti i maneggi in cantina: intendiamoci – amico o amica mia che mi leggi – ben vengano le tecniche moderne, al netto di tanti pasticci perpetrati, ma non sono sempre sicuro che quelle scelte siano sempre le migliori per interpretare e valorizzare i territori, specie quando si trattano le vecchie varietà di uva a bacca bianca del Centro Italia; ma qui seguo una mia idea e non ti voglio aduggiare.
Se tu invece andassi ai Castelli Romani, ne passeggiassi la terra, le strade, i borghi e le vigne, capiresti: su quelle terre vulcaniche, tra quei laghi che dormono tranquilli nei coni degli antichi mostri sputafuoco, dove la zolla a tratti sa essere nera  come le scorie della fucina di Efesto e la vegetazione di un verde quasi iridescente, con quel clima dolce, per forza debbono venire uve buone e buoni vini, a non sciuparle. Non è solo suggestione io credo, nata magari sulla scorta di certe immagini letterarie ottocentesche o più antiche ancora, oppure dalla fascinazione della presenza antica di ville del patriziato della Roma papalina e,prima ancora, di quella imperiale e repubblicana. Il Frascati Superiore Vigneto Santa Teresa, da uve Malvasia puntinata e di Candia, Trebbiano, Greco, fu il mio vademecum: la sua bontà sorprendente e ricca di carattere a mi spinse a interessarmi e a visitare i Castelli Romani. Viene da un unico corpo vitato di 13 ettari, un vero Cru. Se ne produce una quantità importante (credo sulle 110.000 bottiglie in media), con una qualità molto buona in ogni millesimo: quando ero solito frequentare  parecchio Roma per lavoro non mancavo mai di procurarmene una bottiglia, che acquistavo all’aeroporto di Fiumicino e ho finito per accantonarne alcune annate. L’ultima fu una 2013, che aprii ed assaggiai il 29 febbraio 2016: me l’ero portata in Inghilterra e volevo ritrovare nel bicchiere le sensazioni e i ricordi di quel viaggio bellissimo ai Castelli. Magari non si dimostrò il migliore Vigneto Santa Teresa che avessi assaggiato, ma mi regalò il piacere di ritrovare il suo gusto identitario. All’inizio lo trovai chiuso all’olfatto e un po’ scomposto in bocca: solo dopo ore trovava il suo equilibrio, ma per me era segno di longevità. Il colore – che del Vigneto Santa Teresa mi era sempre parso bellissimo –  un paglierino dai riflessi dorati, di media profondità. Niente gocciole sul cristallo del calice, solo un velo che si ritirava lesto. L’aroma era intenso, ma non prorompente -(né sarebbe stato giusto aspettarselo da un vino di questa tipologia), ma molto complesso: toccava tutti i registri, tra aromi di matrice minerale, fruttata, floreale, in quest’ordine. Emergeva per prima infatti la pietra focaia, insieme al gesso; poi la mela cotogna, il cedro candito, l’ananas e il pompelmo; quindi ginestre e mimose ed infine tanto buon fieno e paglia su uno sfondo ammandorlato. E poi in bocca così voluminoso, largo, alcolico, ma con nerbo e scatto, grazie a un’acidità medio-alta. Il finale sulle prime era particolare, un po’ medicinale, su note di ruta, ma dopo alcuni giorni dall’apertura queste note si perdevano, e diventava più gentile e nitido. Tutto il vino in realtà cambiava, manifestandosi più ricco e avvolgente, con l’acidità e l’alcol (13,5 gradi) più a fuoco e integrati. Malgrado qualche nervosismo e tensione di gioventù un ottimo compagno della tavola, flessibile e indomito, se stava bene persino con un buristo di Monteroni d’Arbia, un sanguinaccio dal gusto divino e violento.
Mi rimaneva per la testa, però, quell’ipotesi di longevità del Frascati Vigneto Santa Teresa, che non volevo lasciare ad una mera speculazione intellettuale, ma provare sul campo. Avevo in realtà anche gioco facile: gli appassionati di questo vino sanno della sua tenuta nel tempo; ma l’occasione di pescare nelle mia cantina ed aprirne l’annata 2007 a distanza di qualche settimana mi apparve troppo ghiotta. Si direbbe su una rivista di auto: “una bella prova su strada”, perché il vino è stato comperato in aeroporto (dove ci sono luci abbaglianti e temperature piuttosto alte), poi invecchiato in una cantina certo discreta, ma non perfetta; e assaggiato con quasi nove anni sulle spalle.
Certo, il tappo (un bel sughero intero e lungo) aiuta la tenuta di questo Frascati Vigneto Santa Teresa 2007, che è meno alcolico dell’altro: 13 gradi. Versatolo, il colore appariva dorato, maturo. Ancora la caratteristica di non creare lacrime sul calice, ma quel velo che si ritira irregolare, questa volta con calma tuttavia. Al naso, se così si può dire, lo stesso impianto, ma più ricco, con aromi che si susseguivano in ordine sparso e non per famiglie: idrocarburo, violetta, chinotto, mandorle, pepe bianco. Anche in bocca mi sembrava più rotondo, con un’acidità vivida ma qui immediatamente ben integrata; anzi, tutto il sorso era più rotondo e più lungo, sia in termini tattili, che di persistenza gustativa, che era piena ed aggiungeva ulteriori colori a questo piccolo arcobaleno: vaniglia naturale, iodio, fiori di sambuco, birra trappista.
Vallo a raccontare in giro che un Frascati di 9 anni è così buono e poi dinne anche il prezzo, che credo sia sui tredici euro a scaffale per l’ultima annata: ti prenderanno per matto. Pensa che i giornalisti americani ancora credono che i bianchi italiani campino  uno o due anni. Eppure non tenerlo il segreto. Questa volta non devi. Fai come feci io, vai ai Castelli Romani, che ti invada la loro bellezza, ti inzuppi da capo a piedi; poi scontrati coi cancelli chiusi, con le catacombe inaccessibili, le ville in rovina o in triste semiabbandono, come la meravigliosa, enorme villa Aldobrandini che domina l’ingresso di Frascati. Allora capisci che il mondo deve sapere che vino si può fare a Frascati, che quelle vigne a un passo da Roma non le deve invadere la boscaglia o peggio il cemento. Scorra ancora quel vino nelle fontane dei giardini barocchi, le inondi; spalanchi  porte e finestre delle case, lavi le vie e le facciate dei palazzi; sia rugiada nei boschi e balsamo sulle mani callose di chi ancora coltiva la terra.

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Malvasia di Bosa 2006 secco, Cooperativa Viticultori della Planargia, 15,5 gradi.

Per me Bosa è l’immagine improvvisa di un cartello stradale nel silenzio della campagna sarda al sole di febbraio, sotto un cielo incredibilmente luminoso e azzurro. Ero in viaggio per lavoro: una lunga settimana percorrendo fuori stagione la Sardegna da nord a sud, scoprendola più autentica e più bella. Ad accompagnarmi un collega carissimo, per certi versi un maestro. Non ricordo se fosse già con me o se dovessimo incontrarci la sera a Sassari. Ricordo però il mare davanti ad Alghero, la distesa immensa delle vigne di Sella e Mosca, da lasciarmi stupefatto.
Le strade quasi deserte. Poi, a un crocicchio, un cartello tra tanti: “Bosa”. Il desiderio di svoltare, di raggiungere quel luogo, di camminare quelle vigne. La necessità di continuare oltre, giuste le esigenze della professione.
“Bosa”: il fascino arcano del nome, che ha in sé qualcosa di primitivo ed elementare. La locale Malvasia: vino esoterico del quale sentivo dire meraviglie per la rarità estrema, l’incostanza artigianale della produzione, il suo stile originalissimo e fuori dal tempo, la particolare lavorazione, la qualità sublime. Certi produttori entrati nel mito: G. B. Columbu, i Fratelli Porcu. Fortuna volle che prima di ripartire ne trovassi una bottiglia all’enoteca dell’Aeroporto di Cagliari, sebbene prodotta dalla locale Cooperativa che mai avevo sentito nominare invece che dai celebrati produttori locali.
Giacque per anni nella mia cantina in attesa, come tante, del momento giusto. Intanto mi interessavo del vino e studiavo, imparavo di quelli spagnoli di Jeres  che maturano coperti dalla flor, strato di lieviti che protegge il vino dall’ossidazione e introduce aromi particolari grazie allo sviluppo di acetaldeidi. Ecco che si annodava nella mia mente un filo che ha a che fare con la storia: la dominazione spagnola in Sardegna e il suo influsso. Non solo: giungendo la Malvasia da lontano, forse da Creta, mi pareva di scorgere nella remotissima Bosa un luogo d’incontro che misteriosamente univa l’Oriente e l’Occidente del Mediterraneo.
Alla fine un giorno l’ho aperta, senza un’occasione particolare, senza un’amicizia speciale lì presente con la quale condividerla. Solo per me: per conoscenza e piacere.
Non ha tradito la sua fama, non l’attesa: ambra trasparente, con lacrime lentissime, persistenti, abbastanza frastagliate, più che altro un velo. Aromi intensi e concentrati di caramello ed aldeidi, i chiari richiami dell’ossidazione e del particolare processo fermentativo; ma anche macchia, mirto, buccia di arancia e limone, che regalano all’olfatto una sensazione sorprendentemente fresca. Il resto arriva in seconda battuta: corbezzoli, castagne; ed in terza: alloro e timo, foglia bagnata, the, menta, fiori di campo, camomilla, zafferano, noce moscata, un pizzico di chiodo di garofano, note vagamente ferrose e un poco ematiche; profumi che sfumano e virano l’uno sull’altro incessantemente, talvolta coesistendo addensandosi o stratificandosi.
Di sapore concentrato ma straordinariamente lieve al palato, e magra di alcool diresti questa Malvasia. Soprattutto, secca: solo la presenza di glicole da’ un’apparenza di zucchero: considerarla un vino dolce è peccato mortale.  La trama è minerale, salina. Al gusto ancor più che all’olfatto emergono il tabacco, il tronchetto di liquerizia. Ha una bevibilità pericolosa questa Malvasia, dall’attacco fino al finale sfumato di discreta lunghezza ammandorlata, con note di noce e nocciola lì come fossero abbellimenti: persistente, ma non percussivo. Colpisce la tridimensionalità di questo vino arcaico, la sua capacità di ricomporre registri diversi e lontani in un insieme unitario e coerente. Si raccomandava in etichetta l’abbinamento con la pasticceria secca, quei dolcetti sardi così unici e gustosi che ricevevamo da un amico in regalo quando ero un bambino e tanto mi piacevano. E sarà anche giusto il suggerimento, ma mi par limitativo. Perché non goderne ad esempio come di uno sherry ammontillado, per un aperitivo di vera distinzione? Del resto questa è l’usanza locale, mi conferma un’amica di Bosa: sulle olive verdi del posto conservate sotto sale è un’ora da re, assicura, né stento a crederci. Io mi sono divertito a sperimentare e ne ho avuto piacere: buona sui taralli, ottima sulla bresaola; perché non provarla sulla bottarga e sui crudi di mare, o sulla cucina fusion, vista la sua flessibilità. Di qui passa io credo la rinascita di questa straordinaria tipologia italiana che ahimè rischia l’estinzione e la morte della memoria, attraverso il coraggio di ristoratori che davvero vogliano offrire nuove vie ai buongustai, non solo usando a vuoto la parola gourmet. Anzi: vorrei vederla come aperitivo d’obbligo nei locali italiani più raffinati e alla moda accanto ai cocktail più avanguardisti, eccellenza riconosciuta e immancabile al pari del Parmigiano e di cento nostre altre delizie. Altrimenti verrà davvero il giorno nel quale della Malvasia di Bosa celebreremo solo il De profundis. Intanto, mi vien detto (e spero sia un errore), la Cooperativa Viticultori della Planargia ha chiuso i battenti nel 2012: un etichetta e un vino – un sapore – che non esistono più.