Quattro storie di Aglianico

Questo che iniziate a leggere, amici lettori e amiche lettrici, è un racconto alquanto sghembo.

Già il titolo è sbagliato: più corretto sarebbe: “Due storie di Taburno e due storie di Vulture”, però forse non ci saremmo capiti e la legislazione italiana, la DOC/DOCG, pone per questi vini l’accento più sul varietale ampeleografico che sul territorio di provenienza.

Difatti, potendo, vorrei scrivere: “Vulture Aglianico”, o addirittura: “ Vulture Rosso”, e similmente “Taburno Aglianico” o “Taburno Rosso”. Anzi, mi piacerebbe poter specificare le località d’origine, i paesi quantomeno: Maschito o Barile, Montesarchio o Torrecuso.

Ma lasciamo andare, sono forse solo sogni.

Ho poi ultimamente una certa uggia a scrivere di vino: vorrei entrare nel dettaglio di uno studio meticoloso, quello che può, o potrebbe, svolgere un professionista del racconto enologico – libero poi di velarlo con periodi ben scelti, lievi e divertenti, beninteso. Io, che sono un dilettante, mi accorgo che troppo spesso tempo ed energie mal si accordano con la mia ambizione, da ciò la rinuncia.

Oppure, la diversione verso annotazioni sul filo della memoria, men che bozzetti su un quadernaccio, che nulla hanno a spartire con una degustazione tecnica: alzo, per il momento, bandiera bianca. In effetti, di questi quattro vini, uno solo è nel bicchiere e da lato la penna è alla mano; gli altri evaporati senza altro appunto che un immagine mentale, nel corso degli ultimi due mesi.

Tuttavia quattro fili si annodano intorno ad un’idea di Aglianico, quattro ipotesi dettate dal territorio, dall’uomo, da tempo e dall’occasione, in un singolare e casuale parallelismo, appunto, tra Taburno e Vulture.

In ordine di apparizione, primo il Caudium 2015, IGP Aglianico Beneventano di Masseria Frattasi, da 13 gradi d’alcol. Via il tappo, è un immediato tripudio gioioso e succoso di frutta rossa e nera, con una morbidezza allegramente danzante che declina la prestanza dell’Aglianico in una suadenza sorridente, sensuale e quasi sfrontata, non fosse per una naturalezza di modi cui tutto si perdona.

Peraltro Masseria Frattasi dichiara in etichetta che i: “metodi di coltivagione (sic) sono rigorosamente naturali”, e però non si trova un difetto, uno, in questo vino.

L’Aglianico del Taburno 2011 dell’Azienda Cav. M. Falluto (non sulla bocca dei più, ne convenite?) è di contro grifagno e austero; anzi: inaccessibile di primo acchito, appena aperto, da quanto è ridotto, richiede almeno 24 dalla stappatura per intentare un dialogo, che sarà, sulle prime per lo più a gesti e segnali di fumo, perché lui sta lì mezzo sfinge e mezzo Toro Seduto. Nè, quando si scioglierà al dialogo, perderà una certa vena penitenziale, monacale. Non mi stupirei se emergesse un’appartenenza antica delle vigne ad abbazia benedettina. La condizione parla di una vita potenzialmente eterna, nulla dei suoi undici anni racconta scalfitura, nel tannino o nel profumo: c’è solo una minuzia, un bisbiglio di discorso distinto ed elevato che chiede attenzione.

M’avessero detto: “Senti un Taurasi”, forse non avrei fatto una piega, se non per il dubbio di una più ossuta corporatura.

Il Synthesi, Aglianico del Vulture 2007 di Paternoster, 13,5 gradi, è piuttosto antitesi dopo il vino di Falluto, col quale condivide il grado alcolico: l’ampiezza, la morbidezza vellutata, il carattere amoroso, la vaporosità eterea dei profumi dalle tinte mediterranee e levantine, tra balsami, spezie, frutta, goudron, subito traducono in un’altra dimensione, quasi un tappeto volante sul quale accomodarsi e sognare. Quanto si vuole caldo, estivo, persino evoluto ma memore della primigenia tensione, colto forse appena prima dell’ineluttabile sfiorire; o forse no, semplicemente giunto alla vetta e ben determinato a restarci. Se il precedente era vino monacale, qui siamo a corte: una corte meridionale e provinciale forse, ma colta e ricca di segreti.

Infine, eccolo stasera nel bicchiere, il Maschitano, Aglianico del Vulture 2014 di Musto Carmelitano, 13,5 gradi.

Dei quattro forse il più geniale, stante l’annata bislacca, flagellata da piogge in buona parte della Penisola – a Maschito non saprei dire. Molti vini italiani del millesimo hanno sfoggiato profumi originali, ammalianti, salvo poi dopo qualche anno svaporare su sorsi scomposti, con acidità fuori registro e corpi magri.

Sarà per la proverbiale inscalfibilità dell’Aglianico, ma questo Maschitano stasera non è solo originale, ma godibilissimo e perfetto, geniale. Presenza e slancio, corpo e sveltezza -viceversa anzi, chè prima lo si sente scivolare su un’acidita succosa e come su biglie di sale, poi giunge l’eco tannica, possente come la fila di contrabbassi di un’orchestra sinfonica. A ritroso, una sensazione verde, primaverile, di clorofilla, refoli fumé (non saprei dire se figli del vulcano o dell’annata) ed una distintissima, nitidissima, nota di miele di lavanda provenzale (giacché di lì lo comperavo, “millanta” anni fa), contrappuntata di aldeidi in guisa così rifinita da far salivare, su una lunga scia finale di liquirizia e chinotto e alloro.

Che cosa significano le diversità tra questi vini di uva Aglianico, da due diversi territori, quattro annate, ed un intervallo di quasi due lustri? Cambiamenti climatici? Mutazioni di stile?

Lascio a voi – o a d altri – la risposta. A me interessava berne ed il giocarne nel racconto.

Vermentino Colli di Luni Sarticola 2007, Ottaviano Lambruschi, 14 gradi.

Per quanti anni ho percorso l’autostrada che, traversando gli Appennini da Parma, si affaccia verso la Toscana, aprendosi improvvisa dalle montagne verso il mare. Per me era l’incanto della montagna dai tetti di pietra, prima, poi di una luce riverberata, diversa da quella padana, già mediterranea, che baciava i boschi profumati e intatti, le vette appuntite delle Apuane, i sassi sul greto del Magra, le rovine di castelli e rocche corrose dalla vegetazione rigogliosa e selvaggia.

Poi si giungeva – e si giunge tutt’ora – al raccordo con la Genova – Livorno, i paesi liguri a dritta orgogliosi come sentinelle, a meridione la piana costiera; appena più in alto, Sarzana; ma lì, un tempo, lo spartitraffico si copriva di oleandri profumati, che sventolavano festosi alle auto in corsa: lì era già mare. Era già vacanza.

Viti, vigneti non ne vidi mai, ignorando persino che fosse una regione vinicola, peraltro di antica tradizione: si vedano le pagine nel Vino al vino di Mario Soldati a proposito di quel Linero che vinificava il Generale Tognoni a Castelnuovo Magra: “…secchissimo…bianco ma di corpo, profumato e sostanzioso”.

E i vigneti non li ho mai visti, nemmeno dopo aver scoperto ed amato il Vermentino dei Colli di Luni: nomi come Sarticola, Costa Marina, Fosso di Corsano, che sono Cru di tradizione antica o comunque consolidata, per me sono rimasti, appunto, nomi.

Posso solo immaginare i pampini esposti alle brezze montane e marine; la grana dei suoli, convoluta di sabbie, argille, arenarie; le pendenze dei filari, le loro esposizioni.

Difficile persino trovarne immagini: non sono vigne tra le più fotografate. Si intuiscono rilievi morbidi, tralci protetti dal bosco, quasi nascosti tra mare e montagna, partecipi quindi di una doppia natura.

E’ stato quindi un amore coltivato da lontano il mio per il Vermentino dei Colli di Luni, ancorché precoce: furono tra i primissimi vini ad affascinarmi all’epoca della mia presa di coscienza: bianchi così dritti e minerali che pareva di bere il candido marmo apuano.

Ed un legame col marmo in qualche modo esiste, perché in zona molti alternavano il lavoro nelle cave a quello di vignaioli, quando in Italia chiunque avesse avuto un fazzoletto di terra, vinificava per autoconsumo.

Così era per Ottaviano Lambruschi, decano della denominazione e vignaiolo storico. Suoi i vini che all’epoca – e son passati ormai alcuni lustri – mi rapirono.

Eppure, mai una visita, mai mi sono dato l’occasione di andare, di vedere, di conversare, di capire passeggiando le vigne, per citare ancora una volta Veronelli: la conoscenza rimandata sempre e vissuta come col binocolo, attraverso il calice; quasi un inconscio pudore temesse disperdere una magia fatata e delicata.

Come delicato si dice sia il locale Vermentino: decenni addietro, negli anni dello sfuso e di vinificazioni per forza artigianalissime, gli intenditori sostenevano che non reggesse il viaggio.

C’è del vero: è una gioia di freschezza il Vermentino di Luni, una primavera di fiore e di sasso; se perde quelle caratteristiche, se si ossida malamente, perde la sua anima.

Allora, ho qualche dubbio aprendo questo Vermentino dei Colli di Luni, del Cru Sarticola, annata 2007; bottiglia che arriva direttamente dall’azienda Ottaviano Lambruschi tramite le mani di un amico evidentemente più assennato e meno pudico di chi scrive; conservata stesa, al buio, in una cantina discreta, non ottima.

Sì sa che, con gli anni, più che i grandi vini esistono le grandi bottiglie. In questo caso il tappo leggermente rialzato rispetto al bordo – cattivo presagio. Cavandolo, appariva in buone condizioni, ma con poca presa sul vetro, come se avesse gioco.

Invece, versandolo, son rimasto a bocca aperta, non credendo ai miei occhi.

Era lui, come lo ricordavo, bellissimo, di un color limone luminoso, avvolto in uno splendore ancora più dorato magari, come gli occhi quando brillano d’amore, molto più giovanile dei suoi 13 anni.

Non aveva gocciole, spesso evidenti nei vini invecchiati, ma un velo che subito si dissolve: un tulle leggero da sposa.

Il suo profumo, molto intenso, nitido, era un paesaggio che trascolorava di luci e di ombre, di soli e foschie mattutine, fino ai rosati splendori autunnali. Era verde di bosco, bianco di roccia, giallo rosso ed arancio di fiori e di frutti, lucenti nel sole.

Camomilla, menta alloro rosmarino, muschio, pompelmo, lime, mela verde, note d’orzo e -lievi- di pepe bianco e verde. Su tutto, evidenti ma in equilibrio, infiltranti e saldi come il fondo di un bassorilievo, gli idrocarburi; così vividi da ricordare il fiato del carburatore di un’auto d’epoca, magari un affusolato coupé.

Il tempo aveva aggiunto alle note fresche una patina antica, calda, senza stravolgerle, ma trasfigurandole: una sensazione insieme solare, come di sabbia d’agosto, e misteriosa, ombrosa, resinata, come il meriggiare sotto una pineta costiera, languido, assorto.

Succoso, molto secco, di corpo notevole e compatto: l’avvolgenza vaporosa dell’attacco sulla bocca era un istante, subito soggetta ad una spinta dritta ed energica: l’acidità, mimetizzata dagli anni in una trama tattile morbida, era una lama sottile, indomita, sorretta da una grinta salina come maglia d’acciaio; mentre il gusto, intensissimo, esplodeva al centro bocca, incendiandolo di piacere e subito placandolo in una morsa glaciale e salda. Era marmo, fuoco, acqua tumultuosa, filo d’erba, acciaio, lana, limone al sole: un insieme inestricabile di forza, proporzione, grazia.

Chiudeva poi lunghissimo, equilibrato, regalando un retrogusto di nocciola fresca, di croccante, che era esaltante e domestico come l’ultimo ricordo di una sagra di paese quando s’era bambini.

Era giustamente in bottiglia renana: il confronto coi grandi bianchi tedeschi non del tutto peregrino, seppur qui era diffusa nel vino una luce latina, un gusto melodico – per così dire – che addolciva le strutture armoniche ed il contrappunto. Al punto che, in effetti, l’immagine dei morbidi rilievi dei Colli di Luni contrasta con la sua fierezza, sì che si vorrebbe dipingerne i filari abbarbicati su pendenze estreme e rocce nude, come se i fianchi delle Alpi Apuane potessero gemellarsi con le coste del Reno e della Mosella.

Un grandissimo vino.

Una gioia eccezionale, nel mio pranzo domenicale, su un branzino pescato, semplicemente cotto al forno, con poco aglio modenese, origano siciliano, pepe nero.

Rosso di Montalcino 2007,  Terre Nere Campigli Vallone, 13,5 gradi.

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Montalcino ha molte facce e, con essa, il suo vino. Guardala sulle pagine di un atlante, amica o amico che mi leggi: quel colle posto a sud della Toscana, circa equidistante tra Appennino e Tirreno, ha una base quasi quadrata, sì che potresti immaginarlo come la Piramide di Cheope del Sangiovese. Piramidale la forma, prismatica la sostanza: ogni pendio, ogni vallecola, origina vini differenti, espressione autonoma ed identitaria di un Sangiovese che pure mantiene tratti comuni: c’è in tutti una stessa radice di energia e di sostanziale, intrinseca, estrema eleganza. Persistono pertanto sottozone nelle quali i vini si disegnano con caratteristiche che all’assaggio balzano evidenti come un’insegna del luogo: è non è suggestione, ma suolo, vento e sole.
Personalmente, per ragioni paesaggistiche e sentimentali, amo molto l’areale di Castelnuovo dell’Abate, che occupa il quadrante sud-sudorientale del comune: lì, in valle ampia e verde, contornata da olivi, stanno le pietre millenarie dell’Abbazia di Sant’Antimo: nude, mute, cantano lodi ininterrotte verso il cielo; lì, il Castello di Velona, maestoso e grifagno seppur tramutato In resort di lusso, erto su un poggio ripido come rupe, scosceso da balze infernali che precipitano verso l’Orcia; lì, dirimpetto, la sagoma imponente del Monte Amiata, gigante verde di fiaba e magia, Olimpo toscano e silvestre, rifugio di sognatori e eremiti, che per anni è stato mia base estiva di passeggiate e porto sereno dal quale, in auto, risalire appunto il colle di Montalcino dal lato di Castelnuovo. Mi fermavo a Poggio di Sotto, quando ancora c’era la cara Chiara Antoni: vini, quelli, di bontà leggendaria. Tuttavia negli anni altri assaggi mi hanno convinto che tutti i vini di Castelnuovo, se la voce del territorio è rispettata, abbiano una timbrica particolare, un equilibrio mirabile tra una sensazione tattile larga e setosa, un bouquet ampio, complesso, lievemente etereo, ed un’acidità salvifica, che assicura sveltezza al palato ed eleganza nel quadro di un sorso di bellezza distesa più che di verticale tensione. E, non ultima, la dote della longevità. Ne ebbi la prova qualche mese fa, quando il 16 settembre 2017 aprii un Rosso di Montalcino  che aveva dieci anni esatti: il 2007 di Terre Nere, che avevo comprato tanti anni prima solo per averne sentito dire tanto bene: l’azienda non solo non la conoscevo, ma neppure sapevo che si trovasse sotto il Castello di Velona, a Castelnuovo (solo parecchio tempo dopo ebbi modo di assaggiare più volte i vini della famiglia Vallone, apprezzandone il valore). Poi, i casi della vita, rimase a lungo nella mia piccola cantina Toscana, ben protetto e al buio. Ora, che i Rosso di Montalcino possano essere vini di lunga gittata, specie in certe annate, lo sapevo, ma di trovare questo 2007 in condizioni tanto splendide ed integre non me lo aspettavo davvero: versato nei calici, si presentò ai nostri occhi in forma mirabile, trasparente e di color granato, luminoso, lasciando sul calice gocciole fitte, lente, consistenti, persistenti. Aveva un profumo molto intenso, complesso, in evoluzione: prima un acquerello floreale di rosa e di viola, poi – più nettamente materiche- ciliegia e amarena, lampone e melograno, chinotto candito e carrube. C’era poi una speziatura di pepe bianco e nero, e un accenno piacevolmente vegetale, come una buccia di melanzane e di zucchine, che con le ore viravano sui toni delle erbe officinali. Infine, un fondale morbido, silvestre, di foglie bagnate e fungo porcino, con accordi boschivi di pineta e faggeta, con un tocco pungente di alloro ammorbidito e arricchito da una spolverata di cacao. Soprattutto, un profumo lirico nella fusione, nella coesione, nella successione slanciata. Un sorso, ed in bocca si rivelava un Sangiovese rotondo, ampio , quasi solenne, eppure ficcante, filante, longilineo, fresco, con altissima acidità accoppiata a un tannino di gran classe: abbondante, fitto, rifinito. Un gran corpo, questo vino, quasi sontuoso nell’ incedere: setoso, compatto, luminoso, ma con ombreggiature. Deciso nell’attacco, energico e determinato nello sviluppo, col finale espresso in vibrante souplesse: magari un po’ marcato dall’alcol quest’ultimo, ma in maniera in fondo accattivante e piacevole. Fu per noi, nell’intimità domestica della tavola domenicale, eccellente su una pasta al sugo di carne.

Majolo 2007, Umbria IGT, Azienda Agricola Zanchi, 13 gradi.

Rivedendo vecchie note d’assaggio, è come riprendere un discorso lasciato in sospeso; quasi come quando la sera ci si corica a letto e stentando a dormire, i fantasmi del passato si accostano, si siedono vicino a noi in un dialogo non muto, ma che noi soli possiamo sentire: ci raccontano storie che son state e, talvolta, anche quelle che saranno.
Questi vino umbro di Amelia l’assaggiai il 19 marzo del 2015, che stavo ancora in Inghilterra. L’avevo preso in cantina durante l’ultima trasferta prima di lasciare l’Italia, tornando in auto da Roma: la mia amatissima Alfa Romeo.
Ed era giunto il suo momento: dopo 3 anni e mezzo nell’appartamento inglese ed otto dalla vendemmia, esprimeva un bel colore dorato tenue con riflessi ancora giovanili. Era ancora in gran forma. Lo osservavo nel calice: formava lacrime fitte, frastagliate, non persistenti. Il suo era un profumo intenso, con tanta tostatura , tanta vaniglia e toni dolci, ma non mollava nemmeno a distanza di giorni. Però, cambiava, sia al naso che alla bocca, assumendo quasi le sembianze di un Jeres fino: tocchi di nocciola ed arachide, ma soprattutto ricordi salmastri, marini, iodati, originalissimi, su un impianto sottilmente agrumato e floreale, di ginestra. Anche sul palato era un po’ straniante: delicato ma intenso, sorretto da un’intensità acida e salina che lo salvavano dagli eccessi dolci del legno, anzi: era scattante e tutt’altro che molle ed il finale di buona lunghezza, senza pesantezze.  Insomma, un vino in equilibrio imperfetto, ma senz’altro assai longevo e che andava facendosi, integrandosi in un profilo via via più affascinante. Mi chiedevo come sarebbe stato dopo qualche altro anno di cantina. Mi chiedo come sarebbe ora. Allora, era non convincente, ma intrigante; come certe donne delle quali non ti fidi, ma che fanno sangue…

Ageno 2007 Emilia IGT, La Stoppa, 13,5 gradi.

Se nominassi i Colli Piacentini ad uno straniero, o anche ad un italiano che vive fuori zona, diciamo al sud, credo che evocherei ben poco. Non che la zona brilli per visibilità, né dal punto di vista enologico, né da quello strettamente paesaggistico o artistico, ed è un peccato, perché in realtà si tratta di una gemma a pochi chilometri da Milano: un polmone verde che è rimasto per tanti versi autentico e incontaminato, a dispetto dell’industrializzazione che si spande disordinata dai lati dell’autostrada A1.
Per me, i Colli Piacentini erano quelli delle gite domenicali con la mia famiglia: mio padre li privilegiava perché erano ad un’oretta d’auto, non si trovava mai traffico e con poco si mangiava bene. Mi ricordo tante volte in autunno, in inverno, si usciva dall’autostrada a Piacenza e in pochi minuti si era tra i campi dalle zolle brune che esalavano nebbia verso un cielo uniformemente grigio, verso il quale filari di alberi levavano i rami spogli come un monito nero, ed i corvi pigri a terra punteggiavano il paesaggio dell’unica apparenza di vita; eppure l’insieme era di una dolcezza nuda, desolata e struggente, quasi segreta nei ruderi di chiese e ville barocche, e abbazie, e fattorie e castelli che si intuivano in lontananza; profondamente triste e consolatoria come l’Andante con moto quasi Allegretto, che del terzo dei Quartetti Razumowski di Beethoven è il secondo tempo. Poi, si saliva verso le colline, così morbidamente da non avvertire alcuna soluzione di continuità. Allineate lungo i fiumi, che le solcano da sud ovest a nord est, si traversavano la Val Tidone, la Val di Nure, la Valchero, la Val Luretta, la Val Trebbia, scabre l’inverno e talvolta imbiancate, su su fino a Bettola o a Bobbio, dove si pranzava e ci si scaldava col locale Gutturnio, che se anche a volte era un po’ rustico, a noi piaceva, così pieno e corposo. La primavera, invece, che era un tripudio di verde virgineo, uno scorrere d’acque, un luccicare di sabbie gialle, dinargille azzurre, di candidi calcari , di arenarie grigie  (le matrici sono marine e spesso affiorano fossili), di fiori e di api, era anche il tempo dell’Ortrugo: bianco, fresco, vivace e sottile; allora, anch’esso un po’ rustico, o comunque senza troppe pretese. Se li nominavi fuori zona, Ortrugo e Gutturnio, ben pochi ne avevano sentito parlare. Eppure la tradizione vinicola dei Colli Piacentini è antica e la vocazione riconosciuta, quantomeno  da alcuni pionieri: pare infatti plausibile che il celebre Louis Oudart, che a metà ‘800 per primo vinificò il Nebbiolo secco a Neive (e perciò lo si ritiene il “papà” dei moderni Barbaresco e Barolo), si rifornisse già nel 1833 di uve dalle parti di Bobbio, le vinificasse alla maniera dello Champagne e come Champagne le vendesse: non c’erano le DOC e AOC allora. Tra i pionieri, probabilmente, andrebbe nominato l’avvocato Giancarlo Ageno, che fondò La Stoppa ai primi del ‘900, impiantando vitigni francesi per saggiare il territorio.  

Io pure, pur amando profondamente quelle colline, non mi ero reso conto del potenziale dei vini del  piacentino, finché, qualche anno addietro, non assaggiai vini de La Stoppa a una manifestazione chiamata Sorgente del Vino, che si teneva la allora appunto su quei colli, nel suggestivo castello di Agazzano; e rimasi letteralmente a bocca aperta.

La Stoppa appartiene dal 1973 alla famiglia Pantaleoni, che a Rivergaro, su quei terreni di terre rosse antiche, ricchi di ossidi minerali, poco lontano dal fiume Trebbia,  ha deciso di ripiantare in buona parte uve autoctone, di coltivare e vinificare secondo principi biodinamici, con interventi in cantina minimi. Tutta la produzione è buonissima, territoriale, personale. Già in quegli assaggi, però, un posto speciale me lo conquistò nel cuore proprio il vino dedicato all’antico fondatore, un bianco da  malvasia di Candia aromatica, ortrugo e trebbiano, vinificato secco e fermo, con la tecnica della macerazione sulle bucce (30 giorni) e affinato a lungo in legno e acciaio: tre anni. E che sorpresa fu trovarlo in offerta su un sito internet  inglese ! Perché questo non è un vino standardizzato e per tutti , mainstream, come dicono lassù, ma una cosa viva, parlante, mutevole, inevitabilmente dialettica. Ti racconto – amica, amico che mi leggi- il mio assaggio domestico, che risale a 7 giugno del 2016. 

Il suo colore…come definirlo? Ambra luminosissimo e trasparente? Ricorda più un vinsanto, o un Madeira, o un whisky scozzese, che un vino da pasto, sia pure anche superiore, come si diceva una volta. Disabituati noi, forse, a certe tinte affascinanti e antiche. Lascia sul calice gocciole estremamente lente, variabili nella velocità e che dunque formano cime frastagliate, ma regolari nella successione. Molte bolle finissime di anidride carbonica lì intrappolata si palesano nel bicchiere, ma subito svaniscono alla vista lasciando il vino limpido e fermo, però rimangono al palato sotto traccia,  stuzzicandolo. L’Ageno esprime un aroma intensissimo e estremamente complesso, continuamente cangiante, notevolissimo per la personalità del suo profilo: acetaldeidi in misura che può che anche disturbare chi è di naso sensibile,  e tanta frutta matura, maturissima, ma tutt’altro che cotta: arance, limoni ( persino canditi), tanto mandarino, susine bianche, pesche ,albicocche, corbezzoli; persino tocchi tropicali. Fiori ed erbe: ginestre, origano , rosmarino, salvia, prezzemolo, timo. Poi sentori di lieviti: biscotti, crosta di brioche; uniti a burro (che in genere stucca e qui invece mi delizia) e funghi, neanche fosse un grandissimo Champagne maturo. Quindi, attendendo ancora, un’altra arcobaleno di sovrappone senza sostituirsi, spiazzante: ora è minerale iodato, sa di sabbia sulla spiaggia; sa di vaniglia e di cocco; di mele, al plurale: cotogne, renette, golden; di nocciole; di pere; di muschio e legna umida; di sandalo; di zafferano. Se lo bevi,  noterai lo stuzzicare dell’anidride carbonica residua sulle prime; sentirai che c’è anche un po’ di tannino, inevitabile, ma maturo e di grana molto fine.
Noterai poi il sapore molto concentrato, con tocchi addirittura di frutta rossa ed ancora di burro; ed il corpo che è pieno e glicerico e che si snoda deciso sul palato; ma soprattuto che il vino è lieve, vivido, danzante, e con un’acidità ancora altissima e ben distribuita, fusa con una estrema salinità, viaggia verso una chiusura lunghissima, perfettamente equilibrata e rotonda  al gusto; forse appena un po’ alcolica, ma non è che un’inezia: spicca di più la sua tessitura carezzevolissima, con un tocco ruvido che la rende vibrante. L’ho provato sui cibi più svariati e si è dimostrato a suo modo garbato nell’ accompagnare ( sta su tutto) e insieme estremamente selettivo (difficile trovargli l’abbinamento eccellente). Allora, se pure è stato bene su bucatini a cacio e pepe, credo che il suo meglio l’avrebbe dato con abbinamenti più marcatamente territoriali: sarà la biodinamica che rafforza il legame con la terra d’origine, ma avessi avuto con me certi soavi e sapidi salumi piacentini,  certe paste ripiene locali così opulente e di sapori e condimento, certi arrosti scioglievoli! Magari non è per tutti questo bianco assaggiato a 9 anni dalla vendemmia, con quella quantità di aldeidi, con quell’equilibrio funambolico tra freschezza- che c’è, eccome- ed ossidazione: chi cerca solo la prima, ne sarà spiazzato. Per me, però, è semplicemente un gran vino, che migliora a distanza di giorni dall’apertura , diventando più delicato e floreale; così grande che invoglia non solo a berne e riberne, ma anche  a conoscere meglio tutti i prodotti di quel territorio: ti par poco, amica o amico che mi leggi?

Brunello di Montalcino Riserva 2007, Fattoria dei Barbi, 14,5 gradi.

Amo tenere le bottiglie che acquisto- almeno, quelle di certe tipologie-  in cantina, spesso anche molto a lungo: scherzavo con un amico produttore se potesse proporre una più profonda verticale dei suoi vini lui o io. Tuttavia quando ne ricevo in dono spesso sento quasi l’obbligo di non indugiare troppo. Quando il gesto dell’offerta è spontaneo, mi pare si debba festeggiarlo al più presto con un brindisi e con un pensiero, a meno che nel ricevere l’omaggio non venga anche specificato o consigliato di serbarlo. Questa Riserva di Brunello di Montalcino è stata appunto un regalo gentile che ho pensato andasse festeggiato bevendone; e così è stato a Pasqua, prima dentro casa e poi nell’orto, fuori al sole di primavera col vento che spira – e mi è venuto tra l’altro di pensare come sia diverso il profumo del vino gustato all’aria aperta e che costringerlo tra quattro mura quando il cielo è sereno e l’aria piacevolmente tiepida sia un torto verso la sua anima libera e selvaggia. Una Riserva di Brunello, veramente, è vino che andrebbe atteso, un passista, seppure pare che l’annata 2007 abbia consegnato vini piuttosto pronti a Montalcino; mi diceva anzi un conoscitore della zona che certi Brunello base di quell’annata mostrano già i segni della stanchezza. Quindi aprendo questo vino di Fattoria dei Barbi la mia curiosità era a corrente alternata, tra il"troppo presto" e l’ “un po’ tardi”. Intanto, per garantirgli una buona ossigenazione preventiva, l’ho aperto per tempo, 12 ore prima e forse più, trovandolo rubìno trasparente e luminosissimo,  tendente appena al mattone, a formare gocciole persistenti,  lente e irregolari sul calice. L’accosto al naso e mi pervade il suo profumo ampio, intenso, profondo e molto complesso, in sviluppo, con la frutta rossa in netta evidenza , ma legata ad un susseguirsi cangiante di note marine, minerali e soprattutto ferrose, ematiche, floreali, di arancia,  poi nobilmente vegetali, di alloro, mirto, corbezzolo, poi ancora rabarbaro; e chiari, estivi profumi cerealicoli come di orzo, che si fondono ad una balsamicità  arborea, forse eucalipto, con tocchi finali di menta, di noce moscata, di chiodo di garofano. C’è, mi pare, un cenno di terziari eleganti: pelle, legno, tabacco.  Al sorso l’attacco è molto dolce, ampiamente elegante, avvolgente e composto,  con un grande corpo ed un’altissima acidità , tanto tannino maturo e un po’ grintoso che lascia nel finale lunghissimo ed equilibrato una sfumatura di chinotto. Una Riserva di Brunello classicissima, paradigmatica dello stile tradizionale più riuscito e del livello che si può ottenere dalle parcelle vitate poste nelle posizioni storiche, persino in annate calde come la 2007, se si sanno rispettare il territorio e le uve. Una Riserva di  Brunello di Montalcino già godibile questa; dolce, se si può dire, di quella dolcezza tipica del 2007: non di zuccheri – bada bene amica o amico che mi leggi – ma di tatto e persino di indole, che è teneramente effusiva.   In verità però, riassaggiato dopo 48 ore l’ho trovato persino più buono: più armonico e fruttato, di una maturità intensa e definita che si declina nella ciliegia e nell’amarena, nella pelle e nel legno, esprimendo la sua classe con una nobile velatura e giocando -in forma retrolfattiva -più sull’ aroma che sul profumo; così vivido da confermarsi un 2007 talmente solido e propenso a una splendente evoluzione da meritare un’ulteriore attesa. L’ho trovato, come mi aspettavo, ottimo  su agnello e piccione arrosto, ma anche su una una pasta al ragù è stato con mia sorpresa un compagno eccellente e aggraziato in virtù del suo raro e delizioso equilibrio: l’ha accompagnata e più ancora sostenuta senza mai coprirla, come un direttore di gran caratura avvolge di suoni le note del solista.

Frascati Superiore Vigneto Santa Teresa 2013 e 2007, Fontana Candida.

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Parlavo anni fa di vini con un collega romano che mi era carissimo. Si era trasferito da tempo al nord ed amava i bianchi trentini e altoatesini. Si divertiva a stuzzicarmi col suo spirito sarcastico, ma curioso:  sapendomi appassionato, mi metteva alla prova.  Lo colsi, a un certo punto, in contropiede: “Ma il Frascati Santa Teresa, che è delle tue parti, l’hai mai assaggiato?”. Rimase quasi incredulo. Capii che persino per un romano di buona cultura era ormai difficile prendere sul serio il Frascati; figuriamoci se in altre parti d’Italia sarebbe stato possibile.
Io sono sempre stato un bevitore curioso: tutti i vini di antico nome e poi caduti in relativa disgrazia  mi hanno sempre attratto, per un ragionamento semplicissimo: se certi territori originavano grandi uve in un tempo antico quando l’agronomia e l’enologia non erano avanzate, perché oggi non dovrebbe più essere possibile? E qui si aprirebbe una serie di riflessioni: ad esempio, sui cambiamenti in vigneto dovuti alla volontà di massimizzare le rese e di meccanizzare gli impianti. Nel caso dei Castelli Romani e quindi di Frascati – mi spiegarono al bellissimo Museo del Vino di Monteporzio Catone-  anche la necessità di ricostruire in tempi brevi i vigneti che erano andati distrutti durante gli eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale, portando quindi all’impianto di varietà e cloni a rapido accrescimento, ma di qualità corrente. E poi, tutti i maneggi in cantina: intendiamoci – amico o amica mia che mi leggi – ben vengano le tecniche moderne, al netto di tanti pasticci perpetrati, ma non sono sempre sicuro che quelle scelte siano sempre le migliori per interpretare e valorizzare i territori, specie quando si trattano le vecchie varietà di uva a bacca bianca del Centro Italia; ma qui seguo una mia idea e non ti voglio aduggiare.
Se tu invece andassi ai Castelli Romani, ne passeggiassi la terra, le strade, i borghi e le vigne, capiresti: su quelle terre vulcaniche, tra quei laghi che dormono tranquilli nei coni degli antichi mostri sputafuoco, dove la zolla a tratti sa essere nera  come le scorie della fucina di Efesto e la vegetazione di un verde quasi iridescente, con quel clima dolce, per forza debbono venire uve buone e buoni vini, a non sciuparle. Non è solo suggestione io credo, nata magari sulla scorta di certe immagini letterarie ottocentesche o più antiche ancora, oppure dalla fascinazione della presenza antica di ville del patriziato della Roma papalina e,prima ancora, di quella imperiale e repubblicana. Il Frascati Superiore Vigneto Santa Teresa, da uve Malvasia puntinata e di Candia, Trebbiano, Greco, fu il mio vademecum: la sua bontà sorprendente e ricca di carattere a mi spinse a interessarmi e a visitare i Castelli Romani. Viene da un unico corpo vitato di 13 ettari, un vero Cru. Se ne produce una quantità importante (credo sulle 110.000 bottiglie in media), con una qualità molto buona in ogni millesimo: quando ero solito frequentare  parecchio Roma per lavoro non mancavo mai di procurarmene una bottiglia, che acquistavo all’aeroporto di Fiumicino e ho finito per accantonarne alcune annate. L’ultima fu una 2013, che aprii ed assaggiai il 29 febbraio 2016: me l’ero portata in Inghilterra e volevo ritrovare nel bicchiere le sensazioni e i ricordi di quel viaggio bellissimo ai Castelli. Magari non si dimostrò il migliore Vigneto Santa Teresa che avessi assaggiato, ma mi regalò il piacere di ritrovare il suo gusto identitario. All’inizio lo trovai chiuso all’olfatto e un po’ scomposto in bocca: solo dopo ore trovava il suo equilibrio, ma per me era segno di longevità. Il colore – che del Vigneto Santa Teresa mi era sempre parso bellissimo –  un paglierino dai riflessi dorati, di media profondità. Niente gocciole sul cristallo del calice, solo un velo che si ritirava lesto. L’aroma era intenso, ma non prorompente -(né sarebbe stato giusto aspettarselo da un vino di questa tipologia), ma molto complesso: toccava tutti i registri, tra aromi di matrice minerale, fruttata, floreale, in quest’ordine. Emergeva per prima infatti la pietra focaia, insieme al gesso; poi la mela cotogna, il cedro candito, l’ananas e il pompelmo; quindi ginestre e mimose ed infine tanto buon fieno e paglia su uno sfondo ammandorlato. E poi in bocca così voluminoso, largo, alcolico, ma con nerbo e scatto, grazie a un’acidità medio-alta. Il finale sulle prime era particolare, un po’ medicinale, su note di ruta, ma dopo alcuni giorni dall’apertura queste note si perdevano, e diventava più gentile e nitido. Tutto il vino in realtà cambiava, manifestandosi più ricco e avvolgente, con l’acidità e l’alcol (13,5 gradi) più a fuoco e integrati. Malgrado qualche nervosismo e tensione di gioventù un ottimo compagno della tavola, flessibile e indomito, se stava bene persino con un buristo di Monteroni d’Arbia, un sanguinaccio dal gusto divino e violento.
Mi rimaneva per la testa, però, quell’ipotesi di longevità del Frascati Vigneto Santa Teresa, che non volevo lasciare ad una mera speculazione intellettuale, ma provare sul campo. Avevo in realtà anche gioco facile: gli appassionati di questo vino sanno della sua tenuta nel tempo; ma l’occasione di pescare nelle mia cantina ed aprirne l’annata 2007 a distanza di qualche settimana mi apparve troppo ghiotta. Si direbbe su una rivista di auto: “una bella prova su strada”, perché il vino è stato comperato in aeroporto (dove ci sono luci abbaglianti e temperature piuttosto alte), poi invecchiato in una cantina certo discreta, ma non perfetta; e assaggiato con quasi nove anni sulle spalle.
Certo, il tappo (un bel sughero intero e lungo) aiuta la tenuta di questo Frascati Vigneto Santa Teresa 2007, che è meno alcolico dell’altro: 13 gradi. Versatolo, il colore appariva dorato, maturo. Ancora la caratteristica di non creare lacrime sul calice, ma quel velo che si ritira irregolare, questa volta con calma tuttavia. Al naso, se così si può dire, lo stesso impianto, ma più ricco, con aromi che si susseguivano in ordine sparso e non per famiglie: idrocarburo, violetta, chinotto, mandorle, pepe bianco. Anche in bocca mi sembrava più rotondo, con un’acidità vivida ma qui immediatamente ben integrata; anzi, tutto il sorso era più rotondo e più lungo, sia in termini tattili, che di persistenza gustativa, che era piena ed aggiungeva ulteriori colori a questo piccolo arcobaleno: vaniglia naturale, iodio, fiori di sambuco, birra trappista.
Vallo a raccontare in giro che un Frascati di 9 anni è così buono e poi dinne anche il prezzo, che credo sia sui tredici euro a scaffale per l’ultima annata: ti prenderanno per matto. Pensa che i giornalisti americani ancora credono che i bianchi italiani campino  uno o due anni. Eppure non tenerlo il segreto. Questa volta non devi. Fai come feci io, vai ai Castelli Romani, che ti invada la loro bellezza, ti inzuppi da capo a piedi; poi scontrati coi cancelli chiusi, con le catacombe inaccessibili, le ville in rovina o in triste semiabbandono, come la meravigliosa, enorme villa Aldobrandini che domina l’ingresso di Frascati. Allora capisci che il mondo deve sapere che vino si può fare a Frascati, che quelle vigne a un passo da Roma non le deve invadere la boscaglia o peggio il cemento. Scorra ancora quel vino nelle fontane dei giardini barocchi, le inondi; spalanchi  porte e finestre delle case, lavi le vie e le facciate dei palazzi; sia rugiada nei boschi e balsamo sulle mani callose di chi ancora coltiva la terra.

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Chianti Colli Senesi 2007, Casa alle Vacche, 13,5 gradi.

   
Lo posso dire? Certe volte preferisco un semplice Chianti (o uno delle sottozone di questa denominazione) a un Chianti Classico. Ecco, l’ho detto. E’ che il Classico spesso e volentieri mi sembra una dama in abiti da sera e talvolta, data l’occasione, si sta meglio con un paio di jeans e una maglietta. Poi, per indossare determinati vestiti, bisogna avere il fisico: non tutte sono modelle -e meno male- ma guai a fingersi tali.
Apro stasera e dopo tanto tempo questo Chianti Colli Senesi che viene da San Gimignano. Perché un’attesa così lunga per un vino che si considera spesso di pronto consumo? Perché preso in cantina giovanissimo, appena nato, l’avevo trovato immediatamente talmente buono che mi dispiaceva privarmene. Stasera però è una momento speciale: torno a casa e dei profumi e sapori di casa ho desiderio. A San Gimignano si va per la città turrita, per il pozzo di Piazza della Cisterna, per gli affreschi meravigliosi della Collegiata (le storie del Vecchio e del Nuovo Testamento) e per la Vernaccia, forse il re dei bianchi di Toscana. San Gimignano però è a tutto tondo un luogo vocato per il vino e tale primato andrebbe meglio riconosciuto. Ecco questo Chianti dei Colli Senesi, difatti, a dimostrarlo. Ricordo vagamente la via per Casa alle Vacche, la strada che saliva dalle parti di Pancole, zona privilegiata per la vite, fino alla sala di degustazione recente ma calda e tradizionale. Li’ assaggiai questo rosso e me ne stupii: un Chianti all’antica se vogliamo, col suo tradizionale assemblaggio di sangiovese, canaiolo e colorino, ma che svettava per tono vitale su altri più raffinati e ricercati assaggi di quei giorni. Scatto, energia, beva: per piacere non gli mancava  nulla ed il prezzo al pubblico , diciamolo, era convenientissimo: pochi euro, da contarsi su una mano. Una meraviglia.
Lo ritrovo ora vecchio di nove anni, mi arrovello ancora se lo debbo aprire, ma poi sì, me lo sono meritato. Lui, a svinare la bottiglia del tappo privata, mi risponde subito, generoso, amico, sorridente, senza indugi. Mi stupisce: malgrado la lunga clausura, nemmeno un filo di riduzione.  Piuttosto un gorgoglio nel calice che prelude a nuova vita, ad un’esplosione di aromi e sapori che mi coinvolge nel profondo perché mi va a braccetto col latte materno. Ancora rubino di media fittezza, con l’unghia che vira al granato, lascia sul bordo lacrime fitte, regolari, veloci , persistenti, consistenti come taffetà, decise come un bacio: un piacere per gli occhi.
Poi gli aromi, molto intensi e particolarissimi. Ti spiego: se pensi ai noti ed abituali descrittori, ti spiazzano; se quelli li dimentichi un attimo, trovi profumi di casa noti e domestici. Certo, odorando vi sentirai la frutta rossa ( susine , arance amare e, persino fragole e lampone), e perché no , i fiori: la viola, tipicamente. Poi però c’è il resto: la legna, la pelle , la carne, le spezie, il fungo;  ecco, all’olfatto  sembra di affettare una spalla di maiale toscana, un prosciutto, un capocollo e così via, perché ci senti forte anche il pepe, il cumino, la noce, la salvia, il rosmarino, il timo, e persino la ruta.
All’assaggio, è secco ma rotondo, un po’ dolce di frutto, con una fittezza in bocca rimarchevole e che non è mai statica: tutto muove il contrasto che riesce a crearsi tra acidità, spinta salina, anidride carbonica e alcool. Il tannino è ben presente, ma regolare, grintoso e abbondante, è maturo e non disturba.
L’acidità è superiore alla media, vicina ai punti alti della scala, è ficcante ma per così dire, liscia e c’è tantissima salinità che un poco la dissimula: giù, diciamolo, è salatissimo. Un dispiacere finirlo: ampio di corpo, carnoso e polposo, ma senza strafare; rugoso come una lingua di gatto, squillante come sorgente, profondo il giusto, felicemente caldo di alcol, ma sempre fresco e agile come un Chianti essenzialmente essere. Nel suo gusto c’è tantissima concentrazione, spintonando riempie la bocca di sensazioni magari indisciplinate, ma vivide, come una quota di carbonica che sulla lingua frizza e solletica; e poi il vino allunga sul palato con decisione, un ragazzo ardito con la bicicletta fra le fosse, non un campione in calzamaglia. Questo rosso è un archetipo della fanciullezza cresciuta a pane e vino: il mio Chianti. Goduto su coniglio e pasta e fagioli, è rimasto  ottimo con entrambi.

Gattinara 2007, Mauro Franchino, 13,5 gradi.

 
Che bella che è Gattinara. Ci arrivi magari come me da Milano, traversando quella Pianura Padana che è  lì piatta e monotona, interrotta solo da strade e capannoni ahimè, ma se sei fortunato e la giornata è soleggiata e propizia, vedrai avanti a te tutto l’arco alpino innevato. Poi però arrivi a Gattinara e ti tuffi in un piccolo mondo antico di portici accoglienti, di insegne démodé, di lampioni di ferro battuto, di cascine ruvide che si accostano alla dolcezza elegante e raffinata di palazzi nobiliari, settecenteschi e Belle Epoque , con le loro modanature ricercate e talvolta un po’ leziose. Poi però ci sono le colline – quelle colline -e sono un colpo al cuore di bellezza: vedile al tramonto, col sole che ne bacia le coste e i pampini, quando l’autunno le infiora d’infinite sfumature dal verde al marrone, calde e terrose; e respirane l’aria. Vai su, sali a piedi nel blu, passeggia attorno alla torre, anzi passeggiane le vigne, con quei suoli petrosi di porfido e granito; guarda i Cru di lontano: Molsino, Valferana, San Grato, Castella…Quella stessa torre sta da decenni sull’etichetta semplice e bellissima del Gattinara di un piccolo produttore all’antica, Mauro Franchino: uno schizzo nero a china su un fondo giallino come le vecchie carte dei salumieri. Il vino: che vino! Ho qui un 2007, riposato e forse anche energicamente domato da due, magari tre anni trascorsi steso in un appartamento. Ho sul fuoco un risotto giallo al salto (la vetusta ricetta di recupero lombarda), apro la bottiglia per subitanea ispirazione, e…meraviglia! Perché nel suo colore sorprendentemente rubino, che si vena appena sul brodo di granato ( e parliamo di un vino che ha 9 anni), trasparente, luminosissimo, con lacrime fitte, veloci, frastagliate, persistenti, non ha bisogno di attese per dispiegare la sua bellezza e illuminare irradiando la mensa. Irradia perché non conosce stanchezza, non conosce vecchiaia: al massimo, l’equilibrio relativo di una certa maturità: tutto in lui è ancora scatto e vita. Sentine l’aroma, sbalzato, dinamico, intensissimo, che varia di continuo: di petali di rose, di mirto e uva spina, di mora e mirtillo ( ma con una riservatissima delicatezza ), di susina, di fragolina di bosco; di pepe bianco, il chiodo di garofano spiccato, la liquerizia dolce; di pietra bagnata,  di limatura di ferro; con un fondo di arancia sanguinella e corbezzolo e un tocco lontanissimo – più che altro evocato – di cannella, terra e sottobosco; aromi tutti riuniti in modo armonioso e continuo. Poi però lo devi bere: e l’amore allora è completo, la concentrazione sulla fredda degustazione impossibile.  Nella tua bocca netto, deciso, forte e essenziale, ben secco, compatto, giusto: in qualche modo lo diresti disciplinato, per come su una linea retta dispone il suo sapore e la sua essenza con ordine, senza sbavature, con uno spirito d’altri tempi, disegnando un arco teso e reattivo. La sua felice contraddizione:
lo troverai sinuoso, poco estrattivo e materico, eppure ancora concentratissimo al gusto, energico e di corpo; ma è fatto della stessa sostanza dei sogni: scorrevole, flessibile, passante, con un tannino così sottile che è cipria, però tenace, risultando poi -piacevolmente- quasi masticabile. La sua acidità è altissima ma non pungente, perché non conosce asprezze: solo un sicuro senso di direzione che scorre snello e punta deciso alla meta.  Ne godo l’intensità sul palato, il tripudio di rose e di frutta rossa, ed una scia di mineralità che guida come un sentiero nel bosco: il centro bocca non lo diresti semplicemente salino, ma decisamente salato! È appena amaricante; ma in una maniera che piace, con quel giusto alcool che dà un po’ di calore e non disturba. Persistentissimo: il finale forte e insieme delicato sfuma in una dissolvenza lenta e continua, senza cadute. L’attendo: la danza delle ore rafforza nel suo aroma la rosa, vi compaiono la menta e l’asfalto; nel suo gusto, ancor più ferro e liquerizia. La serbevolezza, una sua dote. Difficilmente capita di bere da soli quasi una bottiglia di un vino rosso che sviluppa 13,5 gradi e che offra una tale ricchezza di sensazioni e profondità strutturale: ma con questo Gattinara mi è successo, lo ammetto con una certa vergogna. Secondo Woody Allen, nel film Manhattan,  le cose per le quali vale la pena vivere sono:    Groucho Marx, Joe Di Maggio, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, l’incisione di Louis Armstrong di “Potato Head Bluess”, i film svedesi, “L’Educazione Sentimentale” di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, le mele e pere di Cezanne, i granchi di Sam Woo’s, il viso di Tracy.   Avesse conosciuto questo Gattinara di Franchino, sono sicuro lo avrebbe aggiunto alla lista.

Monthelie 1er Cru Le Duresses 2007, Coche-Bizuard, 13,5 gradi.

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Di sicuro peccherò sia di ignoranza che di arroganza, però quando vedo gli appassionati e taluni professionisti andare in visibilio per il Pinot Nero e per la Borgogna storco un po’ il naso, perché anche l’affidabilità e la costanza sono un valore. Mi spiego. Certamente il Pinot Nero dà vita in certe mani e più ancora in certe vigne a vini sublimi, ma si sa quanto questa varietà sia esigente e bizzosa e la realtà è che origina anche molti prodotti piuttosto scialbi; né il clima della regione francese aiuta in tutte le annate. Dunque a bere rossi borgognoni la delusione secondo me è sempre dietro l’angolo, soprattutto quando ci si orienti su prodotti di prezzo abbordabile, come questo Monthelie 1er Cru Le Duresses 2007 di Coche-Bizuard; ma il negozio dove l’ho reperito difficilmente tiene vini men che buoni e mi sono fidato.
Un po’ di anagrafica: Monthelie è un villaggio della Cote de Beaune, Le Duresses è forse il suo vigneto più prestigioso: poco più di sei ettari e mezzo, esposto ad est ed estremamente ripido.
Per fortuna si può andare oltre ai freddi dati e, mano alla bottiglia, cavarne il tappo. È maggiore il piacere puramente sensoriale o quello tutto intellettuale della scoperta? Di color granato assai trasparente, con riflessi rubini, forma gocciole rade e lente, un po’ evanescenti. Nasce vicino a Vougeot e ricorda un po’ i vini di Vougeot: all’olfatto risulta in divenire, è complesso ed intensità superiore alla media, piacevolissimo: di frutti di bosco selvatici rossi e neri, non però in quantità; e poi sopratutto sta un tappeto a fitta trama di spezie fini, tritate,dolci e piccanti: pepe bianco e nero, noce moscata, chiodi di garofano, cannella, zenzero e rafano. Ha una balsamicita’ segnata da glicine  e incenso, con un fondo appena mentolato; ed, ancora più lontano, tabacco giovane. Ciò che più intriga però è il richiamo alla polvere da sparo , ad una mineralità ferrosa ed ematica. Sul palato è fresco, apparentemente sottile, ma in realtà strutturato, con aciditá notevole (non saettante), un tannino ben presente e tuttavia proporzionato: di grana piuttosto fine inoltre, ma rustico e forse un po’ verde, più che setoso. Molto secco: e mi piace. Il sapore piacevolmente intenso, non prevaricante ma assai definito, quasi tutto giocato sulle note minerale ed estremamente salino. Acidità e profumo: sembra uno di quei vecchi vinelli di pianura che usavano una volta, che quando il contadino era coscienzioso e sapeva il suo mestiere arrivavano sulla tavola imbandita così invitanti, come una corona di fiori sul capo delle bimbe alla prima comunione. È un vino dalla vocina sottile che però arriva dappertutto, tipo quella di  Licia Albanese, per chi ha ricordi da melomane. Ed infatti è lungamente persistente: parecchie decine di secondi, e soprattutto si dissolve in equilibrio. Il suo alcol è giusto quel tanto che basta a scaldare un po’ un vino altrimenti quasi austero al sorso. Soprattutto l’ho trovato eccellente in tavola, accostandosi bene persino col mallegato con uvetta del salumificio Lenzi di Ponte Buggianese: abbinamento sempre ostico per la complessità e la consistenza di questo antico insaccato. Rispolverando un po’ i miei ricordi del liceo – amico o amica che mi leggi- direi che sta come Ettore ad Achille, perché gli manca quella sontuosità setosa e carezzevole dei grandi Pinot Nero, quel fascino ricercato e stordente che distingue una femme fatale da una bella contadina, chi è baciato dagli dei da un comune mortale; ma io spesso a scuola parteggiavo per Ettore.