La più buffa e diffusa credenza sugli italiani che riscontrai durante il mio quinquennio inglese era che bevessimo instancabilmente Pinot Grigio (che i nativi pronunciavano circa come “Topo Gigio”), ad ogni ora ed occasione: l’equivalente alcolico del britannico tea.
Donde venisse tale idea non saprei – la moda dilagante del Prosecco era agli albori appena – forse riportata da qualche comitiva turistica reduce dal nostro Nord-Est, che il Pinot Grigio se l’era sorbito magari in albioniche quantità ai tavoli dell’osteria di un campiello veneziano o sulle sabbie programmaticamente dorate di Lignano.
Tant’è che ogni esercizio lontanamente legato alla ristorazione che servisse alcolici, avesse o meno una remota ispirazione italica, teneva in lista un Pinot Grigio italiano, di qualità per lo più tra il pessimo ed il discutibile.
Però trovandolo ubiquo finii per incuriosirmi a questo vino che in patria avevo sempre snobbato; e tra la massa, qualche buon bicchiere ogni tanto emergeva.
Il punto è che fino ad allora ero stato anch’io molto snob: interessavano di più i vitigni autoctoni, la viticoltura eroica, i vini faticati, storici e rari che avviavano ad un profondo filosofeggiare.
Che poi, a ben vedere, il Pinot Grigio si coltiva in Italia dall’Ottocento, se non da prima, e che circa la rarità, trovarne di veramente interessante non è impresa così facile: ci sono quantità enormi di Pinot Grigio prodotte nelle piane del Nord-Est con approccio agroindustriale, anodine tanto all’apparenza che al gusto.
E l’apparenza conta, in questo caso: la buccia dell’uva pinot grigio, come i più sanno, tende al rosa più che al giallo; anzi, secondo un vecchio testo la varietà presenta: “acino piccolo, leggermente ellittico, con buccia pruinosa di colore grigio-violetto, e polpa molle, succosa e dolce”: ecco, in questa descrizione ritrovo le migliori caratteristiche del vino Pinot Grigio, che si esaltano appunto quando vinificato con una breve permanenza sulle bucce, così da ottenere una tinta ramata; se vinificato invece per ottenere il tranquillizzante colore “bianco carta”, mi pare che qualche cosa del suo carattere vada perduto.
Un carattere che è primariamente gioviale e gentile, con la stessa cantilena morbida degli accenti tra Veneto, Friuli e Venezia Giulia. E’ un vino che si offre suadente e solare, che accarezza e consola, che sorride rilassato, che avvolge e accompagna per mano piuttosto che scartare di lato, che conquista con la radiosità più che con la complessità.
Sono pregi, non colpe, sebbene chi vuole apparire alla moda e mostrare l’etichetta prediliga magari il vino duro, affilato, verticale, concettuale. Il nostro Pinot Grigio, accanto a certi bicchieri accigliati, si stringerà nelle spalle, sorriderà e farà suo il detto di un grande direttore d’orchestra veneziano, Antonio Guarneri: “La me ciami mona”.
Venedo finalmente al punto, cioè al vino che mi ha ispirato queste righe, il Pinot Grigio di Flaibani – “Ramato”, ovviamente – è buonissimo e sorprendentemente longevo: a sei anni è un perfetta armonia di profumi e sostanza: ancora giovanile, ma riposato, terso al palato come uno specchio d’acqua trasparente ove non soffi un alito di vento, solo il riflesso del sole.
Albicocche, pesche (fresche e sciroppate), cedri, mentuccia, spezie delicatissime; e soprattutto quell’avvolgenza, quella morbidezza appena sapida, che col palato fa all’amore – sulla mia tavola, oggi perfetto con linguine con vongole e gamberi, in bianco.
Per il resto, in una scheda di degustazione tecnica segneremmo tutto medio: intensità media, corpo medio (o medio più), persistenza media…ma in medio stat virtus, perché è ancora l’equilibrio la sua dote, e più ancora il tono vitale: sarà la conduzione biodinamica dei vigneti, sarà la magia del terroir di Cividale del Friuli, ma ciò che resta nella memoria, velocemente evaporato il bicchiere, è una tranquilla energia.
Poco più di 1800 bottiglie.