Friuli Colli Orientali Pinot Grigio Ramato 2016, Flaibani, 13,5 gradi.

La più buffa e diffusa credenza sugli italiani che riscontrai durante il mio quinquennio inglese era che bevessimo instancabilmente Pinot Grigio (che i nativi pronunciavano circa come “Topo Gigio”), ad ogni ora ed occasione: l’equivalente alcolico del britannico tea.

Donde venisse tale idea non saprei – la moda dilagante del Prosecco era agli albori appena – forse riportata da qualche comitiva turistica reduce dal nostro Nord-Est, che il Pinot Grigio se l’era sorbito magari in albioniche quantità ai tavoli dell’osteria di un campiello veneziano o sulle sabbie programmaticamente dorate di Lignano.

Tant’è che ogni esercizio lontanamente legato alla ristorazione che servisse alcolici, avesse o meno una remota ispirazione italica, teneva in lista un Pinot Grigio italiano, di qualità per lo più tra il pessimo ed il discutibile.

Però trovandolo ubiquo finii per incuriosirmi a questo vino che in patria avevo sempre snobbato; e tra la massa, qualche buon bicchiere ogni tanto emergeva.

Il punto è che fino ad allora ero stato anch’io molto snob: interessavano di più i vitigni autoctoni, la viticoltura eroica, i vini faticati, storici e rari che avviavano ad un profondo filosofeggiare.

Che poi, a ben vedere, il Pinot Grigio si coltiva in Italia dall’Ottocento, se non da prima, e che circa la rarità, trovarne di veramente interessante non è impresa così facile: ci sono quantità enormi di Pinot Grigio prodotte nelle piane del Nord-Est con approccio agroindustriale, anodine tanto all’apparenza che al gusto.

E l’apparenza conta, in questo caso: la buccia dell’uva pinot grigio, come i più sanno, tende al rosa più che al giallo; anzi, secondo un vecchio testo la varietà presenta: “acino piccolo, leggermente ellittico, con buccia pruinosa di colore grigio-violetto, e polpa molle, succosa e dolce”: ecco, in questa descrizione ritrovo le migliori caratteristiche del vino Pinot Grigio, che si esaltano appunto quando vinificato con una breve permanenza sulle bucce, così da ottenere una tinta ramata; se vinificato invece per ottenere il tranquillizzante colore “bianco carta”, mi pare che qualche cosa del suo carattere vada perduto.

Un carattere che è primariamente gioviale e gentile, con la stessa cantilena morbida degli accenti tra Veneto, Friuli e Venezia Giulia. E’ un vino che si offre suadente e solare, che accarezza e consola, che sorride rilassato, che avvolge e accompagna per mano piuttosto che scartare di lato, che conquista con la radiosità più che con la complessità.

Sono pregi, non colpe, sebbene chi vuole apparire alla moda e mostrare l’etichetta prediliga magari il vino duro, affilato, verticale, concettuale. Il nostro Pinot Grigio, accanto a certi bicchieri accigliati, si stringerà nelle spalle, sorriderà e farà suo il detto di un grande direttore d’orchestra veneziano, Antonio Guarneri: “La me ciami mona”.

Venedo finalmente al punto, cioè al vino che mi ha ispirato queste righe, il Pinot Grigio di Flaibani – “Ramato”, ovviamente – è buonissimo e sorprendentemente longevo: a sei anni è un perfetta armonia di profumi e sostanza: ancora giovanile, ma riposato, terso al palato come uno specchio d’acqua trasparente ove non soffi un alito di vento, solo il riflesso del sole.

Albicocche, pesche (fresche e sciroppate), cedri, mentuccia, spezie delicatissime; e soprattutto quell’avvolgenza, quella morbidezza appena sapida, che col palato fa all’amore – sulla mia tavola, oggi perfetto con linguine con vongole e gamberi, in bianco.

Per il resto, in una scheda di degustazione tecnica segneremmo tutto medio: intensità media, corpo medio (o medio più), persistenza media…ma in medio stat virtus, perché è ancora l’equilibrio la sua dote, e più ancora il tono vitale: sarà la conduzione biodinamica dei vigneti, sarà la magia del terroir di Cividale del Friuli, ma ciò che resta nella memoria, velocemente evaporato il bicchiere, è una tranquilla energia.

Poco più di 1800 bottiglie.

Gavi del Comune di Gavi “Minaia” 2013, Nicola Bergaglio, 12,5 gradi.

Il vino non lo vedete, ma – sulla parola credetemi – era di un bel color limone appena scarico, con riflessi verdolini. Se non lo vedete fotografato, un motivo c’è.

Il vino in questione, Gavi del cru Minaia, ha nove anni: vendemmia 2013; e 12,5 gradi d’alcol.

Dunque: profumo primaverile, con la freschezza del basilico evidente ed una traccia, anzi, una larga via minerale, gessosa e ferritica, in certo qual modo. Sì, la frutta a polpa bianca, gialla, l’uva spina, il sambuco…ma mi resta in memoria specialmente quell’acidità quasi viperina stemperata da un’avvolgenza cortese, gentile, che non fosse il sale che l’innerva direi mielata.

Lungo, pulito, perfetto, su una spigola al cartoccio, ma mi invogliava la prova su una pancetta artigianale arrotolata, di qualità.

9 anni eh, e sembrerebbero, forse forse, la metà, col pensiero rivolto al Chablis non fosse il confronto, intrinsecamente, sminuente l’identità del Gavi.

Posso solo aggiungere che Nicola Bargaglio da stasera sta tra le cantine che vorrei visitare.

Bozzetti vinosi, tra ottobre e novembre 2021.

Ottobre e novembre sono trascorsi, senza nemmeno lasciare il tempo per un appunto al vino.

Queste bottiglie che si sono allineate sulla mia tavola, però, spiace passarle sotto silenzio. Ognuna una personalità decisa, con la quale nemmeno andare d’accordo, magari, ma che merita il racconto: saranno solo bozzetti al limite della sprezzatura, istantanee còlte frugando nella memoria di emozioni vivide.

Il Chianti Classico 2016 della famiglia Losi viene da Querciavalle, e lì appresso l’ho gustato, un giorno bigio e piovoso di fine ottobre, ma dolcissimo nei colori dell’autunno del Chianti, che dagli occhi discendono all’anima. Dei vini di Castelnuovo Berardenga ha la voce profonda e baritonale, il chiaroscuro, ma rifugge lo stereotipo che li vuole caldi, distesi. Qui c’è una trama rifinita e polifonica, di ispirazione autentica ed artigiana. Un incontro atteso da tempo e nuovo approdo nel mio personale tragitto al bere bene chiantigiano.

Il Chianti Classico 2009 di Castellinuzza e Piuca, da Lamole, pescato dalla una mia cantina, vola dritto al cuore. Sangiovese e canaiolo vinificati e affinati in cemento, essenziale semplicità. I fiori dei vini di Lamole sono tuttì lì, a dispetto dei tredici anni dalla vendemmia, in una composizione dove ai freschi si affiancani gli essicati, i frutti rossi subordinati, ed un ventaglio di profumi di bosco, di terra, di pietra: un’insieme di eleganza struggente. Ha il corpo e il tannino robusti di un vino da climi caldi, ma profumi e tensione interna di tale energia – il vibrato stretto, iridescente, di uno strumento ad arco che suoni forte – da gran vino di montagna. Resta in bocca una sensazione d’uva matura, quasi la buccia tra i denti schiacciata. Indimenticabile.

Il Chianti Classico Gran Selezione 2015 di La Castellina viene da un’altra annata ottima in zona. Un colore limpido, trasparente, luminoso, per una materia materia nitida, bellissima per tensione, freschezza, profondità, tannino raffinato, allungo, con la luminosità dei vini di Castellina – perfetto equilibrio tra fiore e frutto – un po’ offuscata dal legno dell’affinamento. E’ uno stile che a taluni piacerà, ma è un peccato: sarebbe bello potesse librarsi, perché riuscirebbe irresistibile.

Il Rosso di Montalcino 2006 di Lambardi potremmo definirlo didascalico della tipologia, ma non gli renderemmo giustizia. Con lui si sta a proprio agio: pacatamente racconta il Sangiovese di Montalcino, la sua forza, la rilazzatezza, i sussurri, le trasparenze, i dettagli, il ritmo cadenzato, il senso della misura, la tenuta. E’ un racconto semplice, si badi, senza accensioni, né impennate, ma con quell’onestà affidabile che talvolta sfugge ai grandi oratori.

Col Donnas 2005 della Caves Cooperatives de Donnas basta chiudere gli occhi e si entra nella cucina fumosa di una baita o di un castello alpino. Non è pura retorica: con gli anni, il caratteristico profumo del Nebbiolo, l’accoppiata classica di rosa e liquerizia, si è arricchita di una tinta silvestre e più ancora speziata ed ematica: ginepro, chiodo di garofano e sangue, che sembrano evocare istantaneamente fumanti portate di cervo in salmì. Un vino severo, dal passo antico, con qualche ruga e un grande fascino.

Herzu 2006 è un Riesling Renano dell’Alta Langa, forse il primo ad accendere le luci sulla zona qualche anno addietro, per felice intuizione di Sergio Germano, grande barolista dalla mano felice anche coi bianchi. Dopo quindici anni è splendido: del Riesling ha il nerbo, la stretta esaltante, il nitore dorato e deciso, l’ariosa compattezza: “erto”, come il suo nome suggerisce. In piena maturità, si libra tra le note più delicate della gioventù (l’uva spina, il biancospino, il sambuco) e quelle più evolute (la pietra focaia, l’idrocarburo). Peso medio, Riesling secco “di razza purissima”, come si sarebbe detto un tempo, nella perfetta individuazione varietale non rinuncia ad una identità territoriale netta, sì che in un ideale atlante dei Riesling del mondo quest’area piemontese troverebbe di diritto spazio.

Bevo, a più di due anni dalla messa in commercio, l’Asolo Prosecco Superiore Extra Brut di Tenuta Amadio – pericolosamente l’ultima di una dozzina di bottiglie condivise con amici in varie occasioni – e abbagliante, improvviso comprendo il motivo del successo universale del Prosecco. In lui, finezza, purezza, grazia, leggerezza, freschezza, delicatezza, raffinatezza, unite ad una vibrante intensità: ritrovarle in altri spumanti di qualsivoglia tipologia o area, tutte riunite nella medesima armonica proporzione, impossibile! Inoltre, con la sua trina di profumi e la setosità tattile, è così docile nell’accompagnare la tavola, spaziando dal più disimpegnato aperitivo con le chips fino alle fritture di mare, attraverso le preparazioni più leggere e vegetariane, accordate al vivere contemporaneo. Accompagna, appunto, in senso squisitamente musicale: sa restare sullo sfondo con arte sottile, valorizzando le vivande e la compagnia, in modo che esse, non lui, risaltino. Vero: questo Asolo è l’esempio eccezionale di un areale estremamente vocato, mentre i tanti Prosecco corrivi che esistono in commercio sono solo pallide ombre a confronto; perciò, a maggior ragione lascia un segno.

Pheasant’s Tears Rkatziteli 2013, 12,25 gradi.

È un vino georgiano vinificato e lungamente macerato in anfore interrate, dalla locale varietà di uva bianca Rkatsiteli, vecchio di otto anni.

Ci si limitare qui, lasciandosi fascinare dall’esoticità e dalla tradizione millenaria o derubricandolo a mera curiosità, perché tanto: “i bianchi macerativi si assomigliano un po’ tutti”.

Soffermiamoci, invece.
Io, che non lo assaggiavo da anni, ne conservavo un ricordo simpatico. Ed ora che lo ribevo, rammento il motivo.

Vero, colore e registro dei profumi sono quelli della tipologia: ambra deciso allo sguardo, un’esplosione di frutta candita -albicocca soprattutto- terriccio, farina di castagne e folate levantine di spezie, incensi, cera d’api all’olfazione, così precise e intense da materializzare il sogno dorato di una corte orientale.

È il sorso che spiazza, perché conseguentemente lo si immagina decadente e laborioso, come spesso capita in molti bianchi macerativi, anche di gran fama.
Invece, no: questo è fresco, sapido, contrastato, di notevole acidità, dissetante: insomma, si beve proprio bene.

Marca un segno tra la naturale immedesimazione in una tradizione e la concettosa acquisizione di una tecnica.

Difatti, sta meglio a tavola che in degustazione: chiama a gran voce la selvaggina da piuma (si può dubitarne, con quel nome?), ma si adatta bene alla carne bianca.

Le Fief du Breil, Muscadet Sèvre et Maine 2013, Jo Landron, 12 gradi.

“Mentre mangiavo le ostriche col loro forte sapore di mare e il loro leggero sapore metallico che il vino ghiacciato cancellava lasciando solo il sapore di mare e il tessuto succulento, e mentre bevevo da ogni valva il liquido freddo e lo annaffiavo col frizzante sapore del vino, perdevo quel senso di vuoto e cominciavo a essere felice, e a fare progetti.”

Ernest Hemingway, Festa Mobile, 1964

Tra i vini bianchi francesi, il Muscadet Sèvre et Maine mi ha sempre ispirato una particolare simpatia. Sarà forse perché è meno stimato di altri, che vivono di una gloria propria; mentre il Muscadet trova la sua ragion d’essere, primariamente, nell’abbinamento gastronomico: è noto come sia ideale su frutti di mare crudi e, particolarmente, sulle ostriche.

È quindi un vino che si beve per godere e non per farsi vedere: finalità nobilissima.

Eppure limitarsi a considerarlo ed apprezzarlo, utilitaristicamente, solo per la sua funzione sulla tavola, non gli rende giustizia: perché questo vino che viene dal nord, da una regione che immaginiamo piovosa, umida, fredda, a 50 chilometri dalla foce della Loira e dalla costa atlantica, ma in realtà relativamente mite, ha un’originalità pressoché unica, evidente almeno nelle produzioni migliori, emergenti da una massa più informe.

Per l’acidità viperina l’accosteremmo volentieri all’Asprinio d’Aversa nostrano o al Vinho Verde portoghese, ma differisce da essi.

Il suo è un racconto di ampi spazi, nel quale si legge il gioco dei venti e l’azzuffarsi delle onde oceaniche con la corrente del lungo fiume, trascolorati in immagini nette e insieme trasognate, liquide e sospese come certa musica di Debussy; quasi fosse una di quelle conchiglie alle quali si può accostare l’orecchio e sentire di lontano un’eco del suono del mare.

Tra quanti ne ho assaggiati, quello che più nitidamente evoca tali sensazioni è Le fief de Breil di Jo Landron, un Muscadet Sèvre et Maine di straordinaria complessità e, con questo 2013, dall’evoluzione sorprendente: normalmente il Muscadet si consuma giovane, al più dopo un biennio dalla vendemmia, perché la perdita di freschezza e tensione non è compensata da una maggiore complessità.

Questa bottiglia, invece, pur conservata a lungo in un ripostiglio domestico, asciutto, con temperature costantemente alte e altissime in estate, a otto anni dalla vendemmia libera un vino di candido splendore, dove leggerezza, intensità e ricchezza dialogano incessantemente in dinamismo interno.

Il suo colore è limone carico, luminosissimo, con gocciole rade che si dissolvono in fretta.

Il profumo è molto intenso, puro, arioso, ma non aromatico, come si conviene ad un Melon de Bourgogne in purezza, che vitigno aromatico non è. La sua lingua è mare e pietra: sferza iodio come spuma di onde, iodio e sale sollevati in una sventagliata di aldeidi, sì che la salivazione comincia già all’olfatto; poi una grazia di fiori bianchi e gialli, dalla ginestra a una nettissima mimosa, con un senso piacevole di selvatico, che ricorda le erbe aromatiche: la garrigue, la ruta…Prima che un ultimo bagliore citrino rischiari il palato come una luce tenue, acquarellata, di limone, cedro, pompelmo, già evoca la distesa atlantica immensa, i venti, il cielo bigio sopra le dune di sabbia, le erbe, i canneti, appena sfumati da un accenno più dolce, quasi di farina di castagne, dovuto senz’altro all’età.

Vino di nerbo e di stoffa: all’assaggio, il corpo è poco meno che mediano, subitaneo nella sferzata acida, con un retrogusto immediatamente percettibile, solenne di incensi, ceralacca, ferro. In mezzo, lentamente, quasi sbocciando sul palato, delicate senzazioni saline, ed un allungo ritmatissimo, deciso: una piacevolissima, lievissima lama.

Per un purista, forse, è un po’ troppo in là con gli anni, ma per me è buonissimo: pazienza se l’abbinamento con le ostriche risulta poco meno che perfetto, giacché la sua ricchezza e la sua energia contrastano ora, magnificamente, sublimi spaghetti marca Afeltra con le vongole veraci, fresche, di Goro.

Vien voglia di capire come si arrivi a un risultato tanto eccellente, che spicca dalla maggioranza un po’informe dei Muscadet e, per una volta, di guardare alla scheda tecnica del vino, che racconta di una di un’attesa lenta e amorosa, rispettosa dei tempi della natura: di viti vecchie dai 30 ai 40 anni, allevate a Guyot su suoli argillo-silicei, con quarzi su rocce metamorfiche di origine magmatica; di densità fitte a 6800 ceppi per ettaro, con rese contenute a 42 ettolitri per ettaro; di fermentazioni con leviti indigeni e maturazioni in cemento vetrificato, sulle fecce fini, per 30 mesi, e stabilizzazioni a freddo, senza coadiuvanti.

Jo Landron ha eliminato i pesticidi dagli Anni Novanta, certificandosi biologico nel 2002 e lavorando secondo i principi della biodinamica dal 2005. Non so affermare se un metodo sia migliore di un altro in viticoltura o in enologia, ma questa sembra una storia d’amore per il proprio lavoro e per la propria terra: tanto basta.

Fiano di Avellino Vigna della Congregazione 2006, Villa Diamante, 13 gradi.

“La vigna è la mediazione tra il suolo e la bottiglia. La capacità di un buon viticoltore deve essere quella di trasferire il terreno nel bicchiere, perché quello nessuno ce lo può rubare” – Antoine Gaita.

Non ricordo esattamente quando assaggiai per la prima volta il Fiano di Avellino Vigna della Congregazione di Villa Diamante; da allora, però, la mia percezione del Fiano di Avellino e di quale espressività potesse conseguire un grande bianco è cambiata.

Il Vigna della Congregazione è stato uno spartiacque nella mia coscienza di amante di vini; forse, nella storia stessa dal Fiano di Avellino: il primo concepito, fin dalla vigna, per un lungo invecchiamento e, più ancora, con l’ambizione di dialogare da pari a pari con i grandi bianchi borgognoni.

Mi è impossibile assaggiare il Vigna della Congregazione senza rammentare Antoine Gaita, il vignaiolo artigiano che fondò l’Azienda nel 1996 con la moglie Diamante Renna, scomparso nel 2015, sessantenne.

Seppure l’incontrassi una volta sola, ad un lontano Vinitaly, mi rimase indimenticabile, non solo per la sua imponente, caratteristica corporatura: aveva carisma, condivideva la straripante passione per il suo lavoro ed i suoi vini con genuina trasparenza, amichevolmente.

Antoine Gaita aveva idee particolari e controcorrente.

Se allungare l’affinamento in bottiglia del Fiano di Avellino era pioneristico all’epoca, ma non una novità assoluta, altri aspetti erano rivoluzionari per la zona: la lunga permanenza sui lieviti, le vendemmie tardive, la vinificazione per Cru (il Vigna della Congregazione fu affiancato dal Clos D’Haut), la scelta dei suoli: il terreno di Vigna della Congregazione è molto argilloso, umido, all’epoca ritenuto poco adatto per il fiano. Il tempo ha dato ragione ad Antoine, che in verità non si stancava mai di sperimentare.

La vigna, sita a Montefredane in località Toppole, a circa 400 metri sul livello del mare, ha peraltro diverse particolarità: circondata dal bosco, parzialmente esposta a nord, ha un impianto sorprendentemente poco fitto, tuttavia la resa è sempre stata naturalmente piuttosto limitata: dai suoi due ettari si ricavano, in media, 6000 bottiglie. D’istinto, credo che il sito favorisca maturazioni lente e armoniose.

Avevo conservato questa bottiglia in una buona cantina da tempo immemorabile: l’aveva acquistata un mio fraterno amico direttamente in Azienda ed era stata oggetto di uno scambio qualche giorno dopo, credo con certi Riserva di Chianti Classico. E l’avevo tenuta cara: conoscendone le qualità ed essendo l’ultima, avevo sempre aspettato l’occasione o l’abbinamento meritevole.

Non c’è però momento migliore di quello dettato dal desiderio – favorito, in questo caso, dalla disponibilità di pesce fresco.

Vecchia di quindici anni ormai, l’apro con una certa trepidazione: altri Fiano, dopo un lustro, accennano stanchezza. Il tappo, che estraggo col cavatappi a lame, però è perfetto, e appena inizio a versare il vino nel bicchiere, sorrido.

Basta un istante per subirne la fascinazione: vista, olfatto, gusto, sono immediatamente rapiti nel godimento di un’ideale, trasognata bellezza.

Lo guardo ed il colore è bellissimo: un limone carico, trasparente e luminosissimo, con riflessi dorati. Si direbbe un vino con la metà dei suoi anni, o anche meno. Sul vetro non forma gocciole: solo un velo.

Il profumo è molto intenso, di straordinaria complessità, ariosissimo: aria pura pare di respirare, che racconta ampi spazi, sole, montagne verdi, un balugine lontano di riflesso marino nella luce del cielo, quasi radunando la gloria intera della natura mediterranea.

Un’iride fiori bianchi e gialli, che punteggiano i prati e orlano i campi al limitar del bosco: sambuca, giglio, camomilla, mimosa, persino la violetta.

Poi, quasi prendesse per mano in un’ideale passeggiata fra gli orti, uva spina, ribes bianco, pesca, fichi bianchi, limone, cedro, lime, finocchio, salvia, sedano, insalata, persino un tocco esotico, lievissimo, di mango e banana.

Gli aromi antichi, che morbidi parlano al cuore: i cereali, la farina di castagne. Tripudiano le spezie, dolci e piccanti.

E ancora c’è muschio, pietra, terriccio; la freschezza dello iodio si fonde con ombrosi toni empireumatici.

Delicatissimo il tratto dolce del caramello, del dattero, del fico secco: solo un soffio.

Una sinfonia di evocazioni che tocca ogni rifrazione dello spettro aromatico, nelle più intime pieghe, segnando l’evoluzione di un vino che pure tende ancora al giovane, come vieppiù disvela l’assaggio.

Ha corpo grande, ma estremamente reattivo, ritmato, in emozionante crescendo armonico, che vibra ed irradia, spinto da un’acidità piuttosto spiccata, più della norma per i Fiano. “Nerbo” e “stoffa”, si diceva un tempo. La trama salda, giustamente salina, trasmette un lieve, ma piacevolissimo, senso di buccia d’uva.

E’ un sorso regale, di equilibrio perfetto, con lunghissimo riverbero e amplissima risonanza, per il quale si vorrebbe scomodare un termine mitico, romantico, abusato: ambrosia.

Puro, maestoso, intimo, col dettaglio struggente che unisce idealmente il respiro del Mar Tirreno all’aria delle alture irpine, in una sintesi originale, identitaria, indimenticabile.

Non ho tema di definirlo uno tra i più grandi bianchi da me assaggiati in oltre quindici anni di passione consapevole: gli si possono accostare, rispettosamente, solo i migliori, di qualunque provenienza internazionale.

Ed è bello sapere che l’Azienda, di 3,5 ettari, continui oggi la conduzione familiare con la figlia Serena, forte di studi enologici.

Gustato su spaghetti alle vongole veraci ed ombrina arrosto, buonissimi in abbinamento; ma è lui a regnare sulla tavola, lui l’imperatore, svettando con grazia nella memoria.

I vini di Val di Buri


Certo, il progresso ha le sue ragioni.


Quando guardo, però, le pianure interne della Toscana settentrionale, mi domando se davvero fosse necessario tanto stravolgimento, se non si potesse negoziare un equilibrio con la natura ed il paesaggio storico.


La situazione è particolarmente dolorosa nel Pistoiese, laddove la piana si restringe, da Quarrata in direzione di Serravalle, o dov’è cinta stretta di colline, sul versante valdinievolino: lì cemento, elettrodotti, serre e abbandono agricolo aggrediscono scorci di paesaggio altrimenti incantati, che paiono presi tal quali dalle pitture dei Maestri del Rinascimento.


Non solo: le tradizioni agricole e sociali sembrano essersi disgregate in pochi decenni, disumanizzando il territorio e chi lo abita: le dinamiche negative del boom economico qui concentrate in un tempo dimezzato e assai più recente, apparendo pertanto ancora più assurde.


Che cosa c’entra questo col vino?


C’entra che, siccome il vino accompagna l’uomo da millenni, è un indicatore importante della società e delle sue evoluzioni, a saperlo leggere.


In larghe zone del Pistoiese non esistevano le grandi proprietà, il latifondo. L’origine di questa situazione è complessa e antica, risalendo in nuce all’epoca romana e all’assegnazione di particelle ai veterani dell’esercito. In tempi più recenti – dai primi del Novecento, circa – qui esistevano perlopiù piccoli proprietari e piccoli mezzadri, questi ruoli spesso confondendosi: chi coltivava il suo campetto spesso badava anche a quelli del padrone, pure non gran cosa. Mio nonno, che appunto aveva vissuto quella condizione, diceva che i poderi della zona erano degli “scansa-pigione”: buoni giusto per l’autoconsumo e per un poco di vendita diretta che aiutava a quadrare i conti del bilancio familiare.


Con le dovute eccezioni, anche il vino è stato così prodotto in zona per lunghissimo tempo in maniera artigianale e venduto in damigiana, tramite rapporti diretti, spesso fiduciari. Non c’è stata la molla dell’etichetta, dell’orgogliosa competizione, dell’esigenza imprenditoriale di individuare le migliori tecniche e i migliori vigneti, identificando nomeranze.


Questo, almeno, negli ultimi decenni, restando realtà imprenditoriali solo episodiche e troppo lontane nel tempo per aver lasciato memoria.


Quindi il vero potenziale enologico di queste colline non è mai stato indagato a fondo e, per l’invecchiamento dei vignaioli e della loro clientela, passata al consumo in bottiglia col cambio generazionale, anche la produzione ha subito un calo col conseguente abbandono di vigneti spesso bellissimi e ricchi di un’interessante varietà ampeleografica residuale: vigne museo accidentali, vecchie di decenni, tanto nel patrimonio botanico che negli impianti e tecniche di allevamento. Si aggiungano le pendenze spesso proibitive e i profili tortuosi: condizioni inadatte alla meccanizzazione.


Qui, finalmente, si inserisce il percorso di Val di Buri, una realtà nata quasi per il passatempo di una coppia già impegnata professionalmente nel mondo del vino, per avere un po’ di Trebbiano per sé e per gli amici: Marina Ciancaglini e Giacomo Lippi; non li conosco di persona, ma la loro avventura e la loro determinazione, così come mi sono state raccontate, mi hanno affascinato, perché vi rinvengo una spinta etica che si traduce in un cortocircuito rinfrescante.


Eccoli dunque ricercare con dedizione quelle vigne che i vecchi abbandonano per mancanza di forze e che figli e nipoti disertano per disinteresse. Eccoli ripulire e riparare i vecchi filari, spesso strappati al bosco, allevando con cura le varietà antiche, i trebbiano, i canaiolo e i tanti altri che affiancano il sangiovese.

Ne ricavano vini felicemente disadorni e schietti, tuttavia curati e nitidi: nascono dalla fatica, ma hanno la bellezza della semplicità. Richiamano lo stile dei vini toscani di qualche decennio addietro: se ne sentiva il bisogno, vieppiù sulla tavola.
Qui di seguito, amica o amico che mi leggi, veloci note d’assaggio delle loro tre etichette- le annate più recenti in commercio – assaggiate tra l’estate e l’autunno di quest’anno.

Eco della valle 2019, Val di Buri, 12 gradi.


Da uve rosse e bianche insieme, non è rosato, non è cerasuolo, ma un rosso all’antica maniera contadina di Toscana.
Semplice come un acquerello, ma profumato e screziato, dissetante (asprigno, dicevano i vecchi).


Giovane giovane, odora di viole, rose, mele rosse, visciole, fragoline, susine, chiodo di garofano, senape, pepe nero.
Appena tannico, snello, salino, lungo, da poterselo godere ben fresco anche in un afoso Ferragosto.


Matrimonio d’amore sul coniglio arrosto e stringhe in umido, classica pietanza delle campagne pistoiesi, ma buonissimo anche su olive cotte in padella (olive magre, da olio).
Il mio vino del cuore tra quelli di Val di Buri.

Bure Chiara, vino da tavola, L. bc19, 12,5 gradi.


Rosso da uve rosse: sangiovese ed altri autoctoni, più o meno noti.


La veste è rubino, assai trasparente, luminosa, con screziature granata. Lascia sul vetro gocciole fitte veloci, regolari, evanescenti.


Dopo un’iniziale riduzione, il profumo è molto intenso, puro, arioso, primariamente floreale: festoni di viole, violette, lavanda, punteggiati di rose rosse; cesti di fragoline di bosco, fragole, ciliegie appena mature, mandarini; poi cola, foglia d’ulivo, resina, terriccio; infine spunti eterei misti ad aliti di alloro, di mirto.


Medio il corpo ed il tannino, che è fine, perfettamente maturo. Succosissima stoffa, felice tensione innervata di salinità abbondante ed un’acidità notevolissima, d’altri tempi.
Dopo decenni di sperimentazioni sulle varietà bordolesi e le barrique, è questa forse la nuova frontiera della ricerca enologica Toscana: in sottrazione e in damigiana.


È dichiarato a tutto pasto: sulla nostra tavola ottimo accompagnamento per un arrosto di faraona e di gallo, ma ancor meglio sul castagnaccio. Chissà come starebbe insieme ai necci con la ricotta ed un tagliere di salumi.


Forabuja , L. fb19, Val di Buri, 12,5 gradi.

Trebbiano toscano, vinificato sulle bucce.
Veste limone carico tendente al dorato, con una lieve torbidità e deposito sul fondo della bottiglia. Sul vetro, ghirlanda di gocciole lente, irregolari, in ampie volute.

Ha profumo molto intenso e nitido: fiori gialli e più ancora frutta gialla. Sono pesche e albicocche, mature e disidratate, con striature di pompelmo, di limone d’Amalfi, ananas, buccia di melone e un sfondo nitido e caratteriale di olive, di olio appena franto, di resina. Infine, accennati, un’iride aldeidica e mieli d’acacia e castagno.


Corposo e disteso, vellutato e succoso, è sorprendentemente rilassato: una lieve tannicità (fine e matura) e l’evidente trama salina suppliscono un’acidità piuttosto attenuata, ma elegantemente distribuita su un sorso di buona lunghezza e persistenza, che termina pulito, in equilibrio, con un lieve sbuffo d’alcol.


Concepito forse più per valorizzare l’immediata maturità della materia che per cercare col tempo complessi equilibri nei registri ossidativi, traduce il Trebbiano Toscano in una piacevolezza avvolgente e dinamica: un abbraccio, una carezza, una coccola.


Un bianco da tutto pasto, che immagino eccellente su un gran fritto di terra toscano.

I Lacryma Christi del Vesuvio di Cantine Matrone.

Sarò magari suggestionato dalla bellezza abbagliante dei luoghi – quell’insieme di cobalto marino, giada lussureggiante di vegetazione, ametista della terra, ocra delle monumentali rovine – mi pare tuttavia che dai Campi Flegrei al Vesuvio ci sia una concentrazione straordinaria di piccole cantine eccellenti e di deliziose perle enologiche.

Ciascuna con un carattere assai peculiare: la capacità dei vignaioli e, credo, le caratteristiche stesse delle varietà locali, valorizzano la notevole parcellizzazione di un territorio dal fascino naturale e storico unico.

Vini dei vulcani, tutti; ma, a grandi linee, aggiungerei che quelli dei Campi Flegrei, salatissimi e sciolti, declinano al mare; i Lacryma Christi, più acidi e strutturati, declinano alla montagna.

Il Lacryma Christi è un vino di antica tradizione (gli affreschi pompeiani mostrano il Vesuvio coperto di viti) e di notevoli citazioni letterarie: ne ricordo una poco nota, ma che è stata il mio primo memorabile incontro con la tipologia, nelle pagine che Pratolini dedica al personaggio de “la Signora”, in Cronache di poveri amanti.

Ha subito purtroppo un periodo d’oblio, durante il quale, almeno fuori zona, si trovavano solo esemplari commerciali di scarsa personalità ed interesse.

Da qualche anno la situazione è decisamente migliorata.

Cantine Matrone produce questi Lacryma Christi del Vesuvio, rosso e bianco, dallo spirito felicemente artigianale.

Mi paiono tra i conseguimenti più felici della tipologia.

Lacryma Christi del Vesuvio Rosso 2015, Cantine Matrone, 13,5 gradi.

Un taglio tradizionale di Piedorosso maggioritario, che dona scioltezza e profumi caratteristici, con una decima parte tra Aglianico, che garantisce nerbo e struttura, e Sciascinoso, che aggiunge note fruttate.

Tinta rubino, di media profondità, molto luminosa: bella. Lascia sul bicchiere gocciole regolari, fitte, lente.

Profumatissimo: immediato, tuttavia molto complesso, terroso e insieme puro. Di primo acchito, è come entrare in certe annose cantine, che portano sui muri il ricordo di tante vendemmie passate. Poi, ordinando le sensazioni, di distinguono l’uva sultanina o, meglio, arrostita; il gelso nero, la mora selvatica, l’amarena, la pesca, il chinotto; poi – qui sta il carattere – origano, timo, melanzana, pomodorino del piennolo essicato, cappero, acciuga, tantissimo pepe e le nette sensazioni minerali e affumicate, firma del vulcano.

Sorso agile, secco, continuo e compatto, ma accessibile, comunicativo, di slancio felice.

Ha tannino importante e pastoso; salinità impressionante; acidità appena sopra la media; ottima lunghezza: chiude con quel tannino pastoso a riempire la bocca e note piacevolmente dolci-amare, dal retrogusto balsamico ed ematico.

Un vino di alto artigianato, originalissimo, buonissimo anche fresco, pieno di gioia. Mi ricorda certi Cotes du Rhone settentrionale, certi St. Joseph, ma in una veste mediterranea.

Gustato con grande piacere su pollo ai peperoni e melanzane, con contorno di patate arrosto.

Lacryma Christi del Vesuvio Bianco 2015, Cantine Matrone, 12,5 gradi.

Tinta giallo limone intenso. Forma lacrime accennate, fitte, veloci, evanescenti.

Il profumo è molto intenso e puro. Un’esplosione di agrumi: freschi, disidratati, caramellati; poi, fiori gialli, olio d’oliva, macchia mediterranea con la salsedine nell’aria: iodio. Vibranti: gli idrocarburi, i toni empireumatici, lo zolfo e la pietra.

Il corpo è medio. Il sorso molto salino, delicato e carezzevole; saldo, però, con un’acidità naturalmente integrata, di media intensità. Anche la concentrazione del gusto è mediana, ma trova notevole allungo e persistenti risonanze.

Un ottimo bianco da pesce, che ragiona di mare e d’altura.

Giovane, è buonissimo, ma una bottiglia vecchia di un lustro, in condizioni perfette come questa, dona piena felicità. Se lo stato non fosse ideale, ma discreto, se ne apprezzeranno comunque la florealità intensa, selvatica, mediterranea; la distinta vena agrumata; l’odore di vulcano: zolfo, pietra, idrocarburo.

Ser Piero, Chardonnay Toscana IGT 2011, Cantine Leonardo Da Vinci, 13,5 gradi

Talvolta bisognerebbe davvero assaggiarli alla cieca i vini, tanto forte è il pregiudizio; e, nei casi virtuosi, bisognerebbe tenere in più seria considerazione il lavoro delle cantine sociali.

Visitai anni addietro le Cantine Leonardo Da Vinci: una realtà cooperativa solidissima, senz’altro di grandi numeri e con un occhio al mercato internazionale; sicuramente ambiziosa e condotta da persone preparate. I vini: curati, gradevoli, lineari, misurati, molto affidabili; manca l’emozione dei vini artigianali.

In quella occasione occasione comperai tra gli altri questo Chardonnay in purezza. Ne avevo già assaggiato anni prima un esemplare di altra annata, trovandolo più che discreto ed il prezzo era appetibile.

Veramente: non sono amante dello Chardonnay in terra italica, specie al centro e al sud: con i dovuti distinguo so che esistono alcuni vini di valore, ma preferisco bere altro. Neppure intendevo invecchiarlo così tanto questo Ser Piero 2011: semplicemente, non lo trovavo più nella mia cantina e mi ero ormai convinto di averlo già bevuto senza spuntarlo per errore dall’elenco.

Mi sono perciò accostato a questa bottiglia di nove anni con la sola aspettativa di trovare un vino corretto in condizioni passabili.

Ed invece sono rimasto stupefatto: uno tra gli assaggi più belli di questa mia estate.

Ha color limone carico, trasparente, luminoso. Rotando, lascia in velo sul calice.

Il profumo è intenso, concentrato. C’è un agrume caldo e sensuale, in evidenza: bergamotto, chinotto, cedro; un bouquet floreale bianco e giallo: come un campo di camomilla, col fieno appena tagliato e ridotto in balle che asciugano al sole; la frutta a polpa gialla: pesche e albicocche, mature, un’idea di banana; screziature di menta, di ruta, di olio d’oliva; una spaziatura tra il dolce e il saporito, con la cannella, la vaniglia, lo zafferano molto netto; c’è burro di cacao, e persino un ricordo nitido di botrite ed un tocco fumé. Si direbbe affinato in carati e con maestria, non fosse che la scheda del vino menziona solo l’acciaio.

Bella stoffa: di buon corpo, è polposo, ma agile, con un’acidità notevole; è salatissimo, minerale, dinamico, lungo, con finale di spalla larga su note di confettura, di frutta disidratata e fumé. Un bianco sferico, appena un po’ marcato dalla confezione.

In sostanza, questo Ser Piero è l’affresco deciso di uno Chardonnay mediterraneo, maturo, di rara misura, che ben figura accanto vini più celebrati: penso ai non tanti Chardonnay toscani, ma soprattutto ad esempi del Nuovo Mondo, Californiani, Sudafricani, Australiani.

Allora, per capire, bisogna scavare un po’ più a fondo; non solo oltre l’etichetta, ma proprio nel terreno: il Montalbano, formazione che separa l’areale valdinievolino e fucecchiese dalla piana di Pistoia e Prato, ha numerosi suoli di matrice calcarea, più che le altre zone toscane. È noto: dalla Champagne allo Chablis, citando classiche zone d’elezione del vitigno, lo Chardonnay ama il calcare. E poi, alle pendici del Montalbano, metti le mani nude nella terra, vi trovi quantità di conchiglie fossili, come già aveva notato Leonardo Da Vinci, che le aveva ritratte nei suoi taccuini: c’era il mare qui, lui lo aveva inteso. Conchiglie: ancora calcare.

Poi, ovviamente, sul Montalbano ci sono quote, esposizioni, venti: microclimi felici in un territorio ancora naturale, affascinante, che meriterebbe più alta considerazione dal turista e da chi, a vario titolo, si occupa di vini.

Tornando al Ser Piero, ci sono senz’altro vini più fini e identitari, ma questo, pur con i suoi esotismi, si è lasciato scolpire virtuosamente dal tempo nei suoi nove anni di vetro e si beve con molto piacere; ad esempio, sulla nostra tavola, con spaghetti col sugo d’orata.

Modus Bibendi bianco 2018, Terre Siciliane IGP, Elios, 12,5 gradi.

Lo scorso anno, di maggio, eravamo in Sicilia con mia moglie in viaggio di nozze.

Meta fortemente desiderata ed altrettanto amata.

Mancavo da anni. Era trascorsa una decade, ormai, dagli ultimi viaggi di lavoro. Ancor più remoti quelli da turista, risalendo addirittura al 1997: due indimenticabili settimane con gli amici storici, tra Palermo e la provincia di Trapani, con base a San Vito Lo Capo.

Ricordo di quel tempo una sera ad Erice, così avvolta nelle nubi che, tra i vicoli, perdevamo contatto visivo in pochi metri. C’era un sentimento sospeso: per la nostra età, per la bellezza dei luoghi e per le ombre arcane che quelle nubi materializzavano attorno.

Cenammo in una trattoria della quale non ricordo nome, né esatta ubicazione; ma fu indimenticabile la pasta squisita con pesce spada, pomodorini, pinoli, menta, e quel Grillo che tanto bene l’annaffiava: un vino con profumi così particolari come non ne avevo mai sentiti, trasognate suggestioni mediterranee e orientali.

Dunque più volte durante il viaggio di nozze fui attratto dall’assaggio del Grillo, che mancavo da qualche anno, ma ne restai deluso, preferendogli sovente il Catarratto. I Grillo incontrati in viaggio avevano profumi fruttati e floreali innaturalmente marcati e slegati: più che suggestioni, erano luci abbaglianti, presumo dovute a vinificazioni in riduzione spinta, ovvero in assenza di ossigeno.

Finii col pensare che il mio gusto fosse cambiato e che il Grillo non fosse più nelle mie corde.

A Sciacca assaggiai un vino artigianale buonissimo della azienda Elios di Alcamo, che non conoscevo: un taglio di uve bianche autoctone vinificate con macerazione; me lo propose il competente e appassionato giovane gestore di Baccanale, un ottimo bistrot di vini naturali, presso il porto turistico.

Quasi un anno dopo, trovando in rete il Grillo di Elios, la curiosità mi vinse e colsi l’occasione di acquistarlo.

Scopro dalla scheda aziendale che questo Grillo in purezza proviene da terreni argillosi calcarei, in contrada Valdibella di Camporeale, a venti chilometri dal mare. La zona è relativamente fresca, permettendo vendemmie a inizio di settembre. Viene vinificato in bianco, con fermentazioni spontanee e con una certa naturale esposizione all’ossigeno. Affina 7 mesi in acciaio inossidabile.

Ne risulta un bianco poco lavorato, più simile a quel Grillo dei miei ricordi, sfumato, vago e solare, che mi fa battere il cuore fin dall’aspetto: ha un color limone carico con riflessi giada e appare piuttosto viscoso mentre danza sensualmente nel bicchiere, ma sul vetro lascia solo un velo che lentamente si dissolve, non lacrime.

Il profumo è l’evocazione di un paesaggio mediterraneo ideale: un quadro da Gran Tour di inizio Ottocento, dalle tinte solari, rese con vivida intensità, grande concentrazione, naturale ariosità. Scorrendo l’immagine, fiori gialli: ciuffi di ginestre e mimose; alberi carichi di agrumi rari (pompelmo, bergamotto) e di pesche profumate; macchie verdi di rosmarino; forse, disposti sul tavolo di un dehor, sotto una pergola di uva spina, fette di melone bianco, piccoli calici colmi di sambuca. In lontananza – minutissime stelle – il tenue candore dei fiori di vaniglia.

Questa l’evocazione olfattiva, incompleta: perché nella realtà c’è un lieve tocco di aldeidi che dona al vino freschezza e profondità.

Il sorso è ampio e di gran corpo, con estrema avvolgenza, per una sensazione tattile viscosa che ne maschera la secchezza, propiziando una sensazione pseudo dolce. Questa massa glicerica nattenua la discreta salinità. L’acidità è viceversa notevole, considerata la provenienza geografica: ne risulta un vino reattivo, col finale molto lungo, equilibrato, piacevolmente alcolico, dall’accenno amaro, forse terpenico.

Ecco che nella sua schietta fattura questo vino mi riporta in Sicilia: ne sento gli odori, ne godo i paesaggi, ne respiro la magia; e mi riconcilia, finalmente, con l’uva grillo, riportandola alla terra.

È stato eccellente, sulla nostra tavola, con spaghetti zucchine e bottarga di muggine.