Il mio Benvenuto Brunello 2018, ossia l’elogio della lentezza.

Il mio quint’anno a Benvenuto Brunello; e ci son voluti quasi 5 mesi per metterlo nero su bianco: il tempo di una lentezza per decantare idee, sensazioni, emozioni vecchie e nuove, profonde e molto intime; un sentimento rarefatto che ha pervaso anche quelle mie giornate montalcinesi: non solo, ormai, dedicate  all’assaggio di vini -sia detto- buonissimi, ma  al godere calmo e adagio delle relazioni umane dei silenzi notturni, dell’aria pura, delle passeggiate mattutine odorando i profumi della campagna e rifacendomi lo sguardo su quel paesaggio benedetto dal Signore. Beata solitudo, sola beatitudo. Tuttavia mi rimase l’esigenza quest’anno di tornare di lì ad una dozzina di giorni, per vivere Montalcino e respirarla, approfondendone territori e  aziende che avevo da tempo nel cuore,  vedendo visi e stringendo mani, passeggiando le vigne e gli uliveti. Vino, olio e pane: elementi sacri della vita e, guarda caso, del cristianesimo, che qui trovano consacrazione eccelsa (ho in mente ancora il profumo intensissimo e quasi floreale dell’olio giovane di Fattoi, sul pane fresco e soffice del forno Lambardi). Perciò ritorno a Montalcino fu soprattutto un’occasione privatissima, voluta e cercata, di condivisione; e una messa mattutina a Sant’Antimo, seppure orfana dei canti gregoriani che un tempo ne risuonavano le arcate, assunse un carattere di profondità particolare. Gioia e dolore, sole e nuvole, colle e piano: l’armonia della vita è una ricomposizione di dualismi.

Quindi, se la mia presenza a Benvenuto Brunello 2018 si è ridotta, in realtà, a una giornata di assaggi ai Chiostri del Museo Civico e Diocesano, in realtà si è estesa idealmente per una ventina di giorni; e si riverbera nella memoria ad ogni sorso del Sangiovese di quelle zone fino al prossimo anno.

Finalmente, ora che inizio a scrivere guardando l’immensità marina del Tirreno, ho la serenità per chiudere gli occhi e ricordare.

“ È sera, ma sembra già quasi notte per il buio di quest’inverno che sembra quasi non finire mai. Giungo a Montalcino per il mio quinto Benvenuto Brunello. La città giace sotto il cielo nero, nel quale nubi gravi si intuiscono minacciose; eppure essa è sospesa, magicamente silenziosa e deserta, malgrado simultaneamente si tenga la cena di gala della manifestazione; specie lassù dove ho preso stanza, intorno al solitario Duomo ottocentesco, col suo protiro di colonne di ordine tuscanico, possenti e slanciate, che ripara i colombi; dove i pochi lecci maestosi fan da sipario ai tetti di cotto delle case, digradanti a cascata verso la Val d’Orcia. Là in alto, isolato, mi beo dove il vento gioca sul crinale del colle.

Il quint’anno: quando andavo alle scuole elementari, quello preludeva all’esamino che doveva introdurci alle classi delle medie: chiudeva un ciclo, ci insegnava a dire la signora maestra.
Similmente alle superiori: cinque anni in totale, col bienno del ginnasio seguito dal liceo propriamente detto, il glorioso classico; poi c’era la maturità. Me ne accorgo forse all’ultimo, ma per tanti motivi  il mio Benvenuto Brunello 2018, rientra in questa regola.
Ripenso – mentre percorro nel freddo della sera, verso l’Albergo il Giglio,  le rughe familiari-  al mio stato dello scorso anno e lo paragono all’attuale: quanto cammino e quanta salita!

Ho studiato a lungo quest’anno, ho letto e ascoltato su Montalcino e sul sangiovese, tanto ho assaggiato:  oggi posseggo  miglior cognizione delle terre, dei versanti, dei microclimi; e dell’uva conosco meglio le bizze e il capriccio e l’espressione, secondo la mano di chi lo coltivi e lo vinifichi, e secondo il territorio; perché, a Montalcino il Sangiovese venga diverso rispetto alle terre del Morellino, ed ancora  differente nel Chianti, alla Rufina, in Romagna e, naturalmente, a  Montepulciano dirimpettaia. C’è insomma in me una maturità nuova nel mio modo di rapportarmi alla manifestazione, ed una mia, nuova, personale disposizione di spirito.
Anche la formula di Benvenuto Brunello è cambiata, aprendosi al pubblico appassionato, ferme restando le necessarie sale separate per la critica:  così si promuovono il territorio e il vino, sottolineando come siano intrinsecamente legati.

Parla da sé quel territorio; però, perché lo capisca e fino in fondo l’apprezzi, il pubblico bisogna portarlo fin qui: basta affacciarsi da uno dei numerosi balconi panoramici della città, dal lato della chiesa della Madonna del Soccorso, ad esempio, oppure dagli spalti della Fortezza, per restare senza fiato. Risalga il colle e i suoi tortuosi tornanti, il viaggiatore, traversi i boschi, veda e tocchi con mano le vigne, respiri l’aria delle nuvole che corrono sopra la torre del comune;  scenda nei fondi, scorra i menù, scega una fiorentina di chianina perfettamente frollata che abbondi l’etto, o una terrina di fagiano, o una selezione di caci locali, assaggi un Brunello di almeno una quindicina d’anni; solo allora potrà intimamente capire.

Come s’è fatto il mio amico Stefano ed io, al Giglio. Due bottiglie di Brunello in due. Prima il 2003 di Fuligni, poi il 2003 di Conti Costanti: ampio, avvolgente e maestoso il primo, composto splendente e solenne il secondo; entrambi finissimi, elegantissimi, superbi, caratterizzati da un frutto sì molto maturo, ma anche da una freschezza ed un’equilibrio sorprendente, sin nelle più minute trame della tessitura: ecco la tenuta del Sangiovese di Montalcino, anche in un’annata caldissima (tanti scommisero che l’annata 2003 avrebbe dato dato vini stanchi, cotti, non longevi).

E tuttavia, per stupire l’ipotetico viaggiatore che passasse di qui nei giorni di Benvenuto Brunello,  basterebbe la qualità espressa dal buffet della manifestazione, allietato dai prodotti locali e da tradizionalissime preparazioni, acconciato vieppiù da una dozzina di oli e grappe montalcinesi,  (ecco, magari un po’ più di riflettori li avrebbero meritati i mieli, per i qual Montalcino va famosa).
Peraltro, malgrado la notevole affluenza di visitatori, ci sono  aria e spazio per tutti, anche ai banchi d’assaggio: ottima organizzazione.

Poi  c’è la passeggiata sentimentale e suggestiva che snoda attraverso il meraviglioso museo cittadino, con la scenografica  disposizione di statue lignee, terrecotte robbiane, tele e pale d’altare, Madonne, santi, angeli, Cristi, a formare un’unica danza spiraliforme di pose e colori, come se le opere d’arte prendessero vita, gesto, favella. Solo dopo un colloquio muto con esse si può  iniziare a discorrere col vino e sul vino.

 E sul  Brunello e sul Rosso di Montalcino, ce ne sarebbero discorsi: “territorialità” e “maturità” i termini che ricorrono nella mia mente, intrinsecamente legati: maturità dei vigneti, che più in profondità affondano le radici nella terra; maturità dei produttori.  Ecco, pur col caveat di assaggiare in piedi ai banchetti, in chiacchiera rilassata come mai prima, mi formo a poco a poco  l’idea che  una larga parte dei produttori abbia raggiunta la consapevolezza stilistica, perché nel calice parlano soprattutto territorio e sangiovese, tra trasparenze visive e profondità aromatiche e strutturali. Persino certi produttori che per semplificare chiamerò “modernisti” e “internazionali” , mostrano nelle ultimissime annate un benvenuto ripensamento di rotta verso una tipicità più autentica, evidente – per motivi anagrafici e fors’anche per una più misurata ambizione- soprattutto nel più giovane Rosso, 2015 o 2016 che sia.

Quest’anno si presentano annate favorevolissime: il 2013 ha propiziato Brunello di compostezza e proporzione classica, spesso da attendere perché si raggiunga il picco di equilibrio e complessità,  come è giusto per la tipologia; i Rosso 2015 (in uscita ritardata) sono vini di forza, polpa, spalle larghe: giustificano ambizioni da piccoli Brunello; i Rosso 2016, sono golosissimi: potenti anch’essi, snob più eleganti, profumati, freschi e beverini; i Brunello di Montalcino Riserva 2012, spesso, giustificano appieno la denominazione: perché l’annata calda, ma relativamente equilibrata, ha generato nei casi migliori vini ricchi, di  carattere deciso, avvolgenti e signorili.

Procedendo con gli assaggi penso che l’equilibrio dell’annata 2013 -insieme magari all’accresciuta consapevolezza produttiva- abbia in qualche modo ridotto la diversità tra i Brunello di un produttore o dell’altro: piuttosto si può discriminare i vini raggruppandoli  per area di provenienza: quelli del nord della denominazione, ad esempio (con molte ottime riuscite),  rispetto a quelli del quadrante sud, o quelli di Tavernelle e de “La villa”. Perciò gli assaggi richiedono un ascolto assai attento, giacché il gioco è tutto nel cogliere le sfumature; gioco difficile, se svolto in piedi tra i banchetti. Mi scuserai pertanto, amica o amico che mi leggi, se sarò qui e là un po’ generico nelle mie descrizioni.

Vorrei cominciare a raccontarti i miei assaggi (l’ordine dei quali segue pedissequamente quello proposto dal quadernuccio di appunti offerto dal Consorzio) proprio da un vino che trae la sua bellezza dalle sfumature: il Brunello di Montalcino 2013 di Fuligni, sicuramente tra i miei preferiti. Un vino di gran classe, ispirato: netto il profumo tra fiori, ciliegie e richiami boschivi; pieno al sorso, caldo, ampio, potente, ma soprattutto setoso, soffice addirittura, dai tannini finissimi, con una lunghezza gustosa e intensa. L’azienda, che come molte altre realtà storiche si trova poco fuori le mura di Montalcino, in questo caso sul lato orientale, ha prodotto 23.000 bottiglie di questo vino: anno dopo anno, per la mia esperienza, una rara costanza nell’eccellenza.

Un filo rosso unisce i tutti i vini presentati oggi da Gianni Brunelli – Le Chiuse di Sotto; qualcosa che definirei “stile aziendale”, propiziato forse dal possesso di appezzamenti in zone diametralmente opposte della denominazione: l’uno nel più fresco quadrante di nord-est, l’altro nel più caldo sud-ovest, dai quali consegue una possibilità piuttosto ampia di bilanciare i vini con tagli opportuni, secondo l’annata.
Sia il Rosso di Montalcino 2016 che il Brunello di Montalcino 2013 si porgono con precisione, sulla frutta e su una struttura importante, quasi nervosa in questa fase. Nelle mie note segno “scheletro”, ad significare un’ossatura tannico-acida forte e in evidenza. In realtà rimango quasi sorpreso, perché in precedenza i vini di questa firma mi erano sembrati più risolti, più riposati e in equilibrio, al debutto;  magari è solo una mia sensazione o, semplicemente, debbono affidarsi ancora un po’ in bottiglia.
Viene presentato anche il Brunello di Montalcino Riserva 2012, dove rintraccio il filo rosso aziendale. Mi piace perché più fresco di altri di pari tipologia, anche se mi sembra di sentirvi qualche nota un po’ amara sul finale.

Si vola alto, coi vini de Il Marroneto.
Il Rosso di Montalcino 2015 ha un colore che tende all’aranciato e il suo profumo, se non particolarmente intenso, è tuttavia raffinato; al pari del sorso, che potenza ne ha, eccome, con un tannino superiore alla media ed un’alta acidità.
Il Brunello di Montalcino 2013 è bellissimo; ha una grande personalità: nel suo profumo, erbe e spezie fini, mineralità, note sottilmente evolute ed eleganti, quali arancia e corbezzolo, senza rinunciare alla fragranza; gode al sorso del sostegno di una decisa acidità.
La selezione, il celebre Brunello di Montalcino “Madonna delle Grazie”, anche  nell’annata 2013 è all’altezza della sua fama: esemplare per raffinata concentrazione, aromi terziari, sensazione tattile, in bocca, nobilmente soffice. Fosse un quadro, sarebbe un primitivo su fondo oro, richiamare così una vecchia e celebre descrizione che il Principe Boncompagni Ludovisi inviò a Tancredi Biondi Santi a proposito di un Brunello Riserva di quest’ultimo.

La mia affinità verso i vini de Il Paradiso di Manfredi è stata nel tempo altalenante, perché li ho trovati spesso scontrosi (mentre  la famiglia Guerrini, a cominciare dal Signor Florio, sono persone deliziose, garbate e gentili); quest’anno, però, mi conquistano: mi avvisa il produttore che andranno in commercio qualche anno dopo la presentazione, secondo la filosofia della firma, ma  io li trovo già buonissimi . Il Rosso di Montalcino 2016 è succosissimo: tutto fiori, fragole, ciliegie; pieno ed estremamente fresco; con un gran tannino, un’acidità verticale ed un’anima minerale che lo rende elegantissimo.
Il Brunello di Montalcino 2013, che andrà in commercio tra due anni, mi sorprende: pieno, concentrato, fresco, futuribile per la sua forza pervasiva, già oggi si distende in una notevole eleganza; con un gran carattere, così marcato dal sale sulla bocca, che ne contrappunta il gusto; infine la speziatura, il tannino importante. A mio vedere, il miglior Brunello de Il Paradiso di Manfredi che ho assaggiato in questi 5 anni di Benvenuto Brunello.

Coi vini di Fattoria il Pino, invece, la mia immedesimazione  è stata immediata ai primi assaggi di qualche anno addietro ed è anzi cresciuta anno dopo anno. Credo questa sia oggi tra le più belle realtà artigiane di Montalcino ed i vini presentati ne mostrano continuità qualitativa. Rossi passionali, dalla timbrica scura, dall’espressività  profonda e calda;  figli del nord del comune, mantengono però un profilo slanciato .
Il Rosso di Montalcino 2015 è
squillante: profumi centratissimi di ciliegia e amarena, circonfusi di spezie; con corpo medio, tannino finissimo, acidità a sufficienza, sul palato è setoso, addirittura soffice.
Il Brunello di Montalcino 2013 possiede, oltre alle caratteristiche timbriche ed espressive tipiche della firma, un equilibrio declinato in finezza, nitore, misura, rotondità, ed una personalità quasi viscerale.

L’assaggio dei vini de La Fiorita è sintomatico di un certo cambiamento in atto in azienda e in tutto il comprensorio,  che io reputo benvenuto. I vini, coprendo lo spazio di 5 annate, lo testimoniano bene: inizialmente paradigmatici di un certo stile internazionale, modernista e interventista, disegnati per svolgere una certa tesi, piuttosto che per esprimere in trasparenza il territorio, evolvono verso uno stile più sciolto, misurato, puro.
Difatti il Brunello di Montalcino Riserva 2012 è molto marcato dai toni del legno di invecchiamento e da una certa ricerca di concentrazione.
Il Brunello di Montalcino 2013 sembra già ispirato da un cambiamento di rotta: permangono i toni boisè, ma è ben evidente la bellezza della materia di base, che riesce quasi a sovrastarli.
Il Rosso di Montalcino 2016, invece, ha già tutto un altro passo: caratterizzato da un certo elegante profumo agrumato, è più caldo di altri Rosso dell’annata, ma più liberamente espressivo dei precedenti: sapido, rotondo, fitto più che sussurrato, ma spaziato, riesce un vino equilibrato e piacevole. Bene: spero che si continui su questa linea.

Le Chiuse si è distinta negli anni per il rispetto di una certa ortodossia tradizionale: rossi severi, talvolta severissimi quelli della firma, che ha – com’è noto – vigne che erano utilizzate da Biondi Santi nel taglio per le Riserve: ogni anno un bel bere, accettandone la maestosa introversione.
Il Rosso di Montalcino 2016, in realtà, balza subito incontro con profumi aperti, netti di ciliegia e floreali; e poi conquista con una succosità che mimetizza appena una struttura ed una potenza notevoli: sorprendente e davvero buono.
D’altra parte il Brunello di Montalcino 2013, benché abbia anch’esso similmente note di frutta, principalmente è composto, rigoroso, austero, verticale, di saldissima struttura. Molto completo nelle sensazioni olfattive e gustative, dispiega un carattere da Sangiovese senza compromessi. Buonissimo.

C’è sempre la fila davanti al banchetto de Le Ragnaie; a ragione: secondo me, qui si trovano alcuni tra gli assaggi più personali e identitari della manifestazione, che individuano perfettamente la peculiarità delle annate e del genius loci, articolato su corpi vitati molto alti e freschi, ed altri più bassi e caldi, di età assai differenti. Si spazia dalla zona elevata del Passo del Lume Spento, a quella intermedia e boschiva di Petroso, fino a quella meridionale di Castelnuovo dell’Abate. Ne risultano vini diversissimi, tutti però di gran classe, eleganza, rifinitura.
Il Rosso di Montalcino 2015 – uscita ritardata- ha un gran profumo: sfaccettato, speziato; mentre al sorso si giova di un bellissimo e vivido  contrasto acido-tannico.
Il Brunello di Montalcino 2013 è simile, ma ha dalla sua una maggior concentrazione, che vieppiù risalta la speziatura aromatica e gustativa, la finezza tannica, l’acidità  notevolissima.
Il Brunello di Montalcino “Vecchie Vigne” 2013 non deflette dai capisaldi di eleganza espressi dagli altri vini, ma ha un frutto assai più scuro, un tannino di diversa e maggiore imponenza, un fiato più più profondo, a costo di essere, ancora un po’ contratto e di richiedere presumibilmente  tempo per dispiegare davvero le ali.
Gioca, per così dire, un altro campionato:  lo stesso del Brunello di Montalcino “Fornace” 2013, che ha un frutto ancora più scuro, se possibile quasi nero, e si impone anch’esso per presenza tannica.

Per limiti di tempo e di resistenza dei miei organi sensoriali, assaggio di Mastrojanni soltanto il Brunello di Montalcino “Vigna Loreto” 2013. Sarà stata appunto la mia stanchezza, ma lo trovo al di sotto delle mie aspettative: il suo frutto scuro, il suo tannino importante e in evidenza, mi sembrano frenati da una confezione enologica assai pensata. Vista anche la sua fama, meriterebbe un riassaggio a palato riposato, ma purtroppo non ne ho modo.

Assaggio per la prima volta –  con grande curiosità- i vini di Padelletti, un produttore storico, perché tra quella manciata di nomi che incominciarono a produrre ed imbottigliare Brunello tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento. La firma negli anni si è mantenuta ipertradizionale, al punto che è l’unica (per quel che so) ad avere ancora la cantina di vinificazione all’interno delle mura del borgo in un edificio storico, con tutte le difficoltà produttive immaginabili. C’è fermento, però, perché si sta predisponendo una nuova cantina e si nota un certo nuovo corso anche nella comunicazione. Bisognerà tenerla d’occhio, quest’azienda.
Intanto, il Rosso di Montalcino 2015  presentato quest’anno (un’uscita ritardata), è classicissimo, trasparente alla vista, molto profumato, tra fiori, frutta e vernice. Un po’ scomposto ancora all’assaggio, scisso tra  un tannino ed un’acidità piacevolmente decisi, che si ricompongono in un finale lungo e di bell’equilibrio. Piacevole, a mio gusto.
Il Brunello di Montalcino 2013 del mio assaggio, invece, si offre ancora poco decifrabile: non nitidissimo, un po’ chiuso, marca il ricordo per una mineralità spiccata, per forza salina e per una certa decisione acido-tannica.
Il Brunello di Montalcino Riserva 2012 si pone con un profilo d’antan, non per tutti forse, ma assai affascinante: etereo, con profumi classici di frutta rossa e spezie, insieme e paralleli a quelli più evoluti di solvente, di pellami, di bosco, di castagne; con un sorso molto asciutto e sorretto da un tannino potente.

Pietroso produce vini ch’io trovo sempre affascinanti ed affidabili, nel senso che colgono in qualunque annata il segno di uno stile tipico, tradizionale, accurato, con un’identificazione netta del loro territorio di provenienza, consistente in alcune parcelle alte subito ad ovest del borgo, contornate di boschi.
Sarà anche suggestione, ma quei sentori boschivi a me pare di ritrovarli nei loro vini, come nel Rosso di Montalcino 2016, che dispiega un profumo di media intensità dove la frutta rossa di sposa a sentori nettamente balsamici, di sempreverdi, e di terra umida. Un vino fresco, succoso, contrastato, con un bel tannino ed un’acidità notevole. Qualche sbuffo d’alcol sul finale disegna forse una piccola ruga nella sua bella armonia.
Il Brunello di Montalcino 2013 è molto elegante, con profumi profondi, ancora centrati su frutta rossa e bosco, ma vi si sovrappongono note di solvente e minerali, come di pietra focaia. La mineralità ritorna al sorso sotto forma di sale, che è assai presente e contribuisce a renderlo un vino fresco ed equilibratissimo nelle sue componenti, più morbide e più dure.

Ritorno ad assaggiare i vini di un mio vecchio amore: Poggio di Sotto. Sono cambiate tante cose in questa azienda, ma si continuano a produrre vini eccellenti. Ecco, manca loro quella antica magia, direi; la vita però va avanti,  bisogna farsene una ragione.
Apprezzo perciò il Rosso di Montalcino 2015, un’uscita ritardata: un vino eccezionale, della statura di un Brunello, com’è tradizione per questa firma: complessità e struttura ottime, e possiede quella caratteristica tattile impalpabile che io trovo tipica di tanti vini di Castelnuovo dell’Abate.
Il Brunello di Montalcino 2013 è molto bello fin dal colore, con un profilo aromatico elegante, assai agrumato, speziato e ricco di umori della terra. Al sorso l’acidità è vivida ed il tannino eccezionale per quantità e qualità.

Salvioni: anno dopo anno, sempre eccellenza. Il Brunello di Montalcino 2013: sulle prime il suo profumo mi pare un po’ ritroso, ma è come se ribollisse sottile sotto la superficie, toccando tutti i registri, compreso quello ematico e speziato, da norcineria. Il vino al sorso è classico: proporzionato, strutturato, composto, con un’acidità notevolissima.

San Giacomo non è magari tra le firme più note, ma la seguo da qualche anno e credo che abbia raggiunto una certa maturità interpretativa, con una bella progressione: i vini presentati quest’anno parlano da soli. È un nome, credo, da segnarsi per gli anni a venire.
Il Rosso di Montalcino 2015 (un’uscita ritardata, a dimostrare che ci sono certe ambizioni, qui) ha un profumo puro, con una bella ciliegiona in evidenza, e spezie: a gran voce canta: “Sangiovese”! Al sorso è polposo più che teso, ma ha nerbo a sufficienza ed un finale piacevole dove scorgo note di terra e e cenni di ruta.
Il Brunello di Montlacino 2013 mi pare un bel vino elegante che al naso  già prelude alla sapidità del sorso, con fiori, frutti e sentori ematici. Al palato è gustoso, originale rispondente ai profumi: mi ricorda il mallegato con l’uvetta. Non è equilibratissimo, però: credo che sia in cerca di una definizione che verrà col tempo e mi sento di scommettere su di lui.
Il Brunello di Montalcino Riserva 2012 è anch’esso molto buono: profumi puliti di frutta e di vernice, un sorso setoso, pieno, sentito, capace di un intimo melodiare malgrado forza e corpo.

L’assaggio dei vini di Sanlorenzo, ossia del mio caro amico Luciano Ciolfi, è sempre un bell’esercizio, perché; sono quelli che conosco meglio, avendoli incontrati relativamente spesso ed in tempi diversi, dalla botte alla bottiglia al…bicchiere; anche dopo diversi anni dall’uscita in commercio. Ho imparato qualche cosa del loro percorso nel tempo e di come abbiano fotografato l’annata.
Il suo Rosso di Montalcino 2015 è un miracolo di equilibrio: ha un profumo intenso, accattivante, caloroso, con frutta rossa e fiori in evidenza; ma già baluginano, discretamente, i terziari figli dell’evoluzione. Guarda, amica o amico che mi leggi, il grado alcolico in etichetta: 15,5 gradi; il sorso però è fresco e con un’acidità vivida e ben integrata. È un vino di sferica proporzione; chissà che cosa sarà il Brunello di quell’annata!
Il Brunello di Montalcino 2013 di Luciano è un vino essenzialmente verticale: un po’ chiuso forse in questa fase, è  raffinato, con profumi di fiori che si alternano all’eleganza dell’arancia, del melograno, del corbezzolo. La medesima classe si trova al sorso: amalgamato, setoso, col tannino potente ed un’acidità importante, ben mascherata nella fittezza del suo corpo.

Santa Giulia è un’azienda che non conoscevo, situata a  Torrenieri, all’estremo nord-ovest della denominazione. Nella zona i terreni sono, per quel che ne so, tendenzialmente argillosi, tuttavia alcuni vini ultimamente stanno riuscendo interessanti.
Il Rosso di Montalcino 2016 è molto profumato (anche se – ma posso sbagliarmi- sento forse un po’ di tannino enologico in evidenza), sorprendentemente maturo all’olfatto, con tanta frutta rossa e cenni di fieno. Il sorso è largo e morbido, con un’acidità discreta.
Il Brunello di Montalcino 2013 mi pare abbia un profumo con striature verdi, di erbe officinali, ed al sorso lo direi pieno, tannico, tendenzialmente morbido, ma con un’acidità più che buona.
Mi sembrano vini riusciti, forse più da bersi nell’immediato che per una lunga vita di virtuosa evoluzione.

Non conoscevo nemmeno Sassodisole, anch’essa è di Torrenieri. Mi pare che lo stile della casa si orienti sulla rotondità o, magari, è caratteristica dei loro vigneti.
Il Rosso di Montalcino 2016 profuma con intensità armoniosa, di incenso e spezie. Al sorso è cremoso, con un alcool un po’ aggressivo ed un’acidità di intensità media, che me ne suggerisce un consumo piuttosto immediato.
Il Brunello di Montalcino 2013 mi pare più riuscito, perché  arioso e più contrastato, coniugando la morbidezza con un’acidità notevole.
Il Brunello di Montalcino Riserva 2012 ha un profumo più maturo, evoluto e sfaccettato, su note di solvente, di arancia e di menta; al sorso, non rinuncia ad una certa rotondità.

Si cambia scenario con i vini di Sesti, perché da Torrenieri, superando idealmente a volo d’aquila il colle cittadino e le sue torri, ci si spinge quasi all’estremo opposto della denominazione, verso  zone più classiche, un’area mediana tra quelle più calde, meridionali, e quelle più fresche a settentrione della città.
Il Rosso di Montalcino 2016 porge subito una notevole apertura di profumi, che arriva già a toccare  tutti i registri, compresi i terziari, indugiando sulle spezie. In bocca sembra più giovanile che al naso: è intenso, croccante, con un bel contrasto tannico-acido.
Il Brunello di Montalcino 2013 mi sembra un conseguimento raro: un vino splendente, dai profumi finissimi e completissimi, intensissimo al sorso, radioso, in un contrasto caldo-fresco estremamente appagante. Richiama certi esempi borgognoni per finezza, ma declinati secondo le forme della struttura forte del Sangiovese. Inoltre, benché si offra già oggi piacevolissimo alla beva, credo che abbia ottime prospettive di invecchiamento.
Il Brunello di Montalcino Riserva “ Phenomena ” 2012, invece, mi delude un poco: sarà il mio palato, ma in questa fase lo trovo assai frenato dal legno di affinamento, però ha tantissima materia e molto probabilmente sarà in grado di riassorbirlo in un disegno coerente.

Con i vini di Tenuta Le Potazzine siamo nel solco dei vini classici, che preferiscono il sussurro, l’agilità e la sveltezza alla pura forza, che tuttavia non manca. Vini donatelliani, se pensiamo al tipo di energia espressa dal David bronzeo del Maestro fiorentino.
Il Rosso di Montalcino 2016 è fresco, con profumi di arancia, lampone, spezie fini, toni ematici e minerali. Al palato è succoso, saldo di struttura, ma delicato nelle sue movenze, come danzante.
Il Brunello di Montalcino 2013 è semplicemente buonissimo. I suoi profumi ariosi, molto intensi, con fiori, frutta, spezie in evidenza, trascolorano l’uno nell’altro con naturalezza estrema. Pur strutturato, al sorso è comunicativo, invitante. La riprova concentrandosi sul calice vuoto: quel che rimane è un profumo pulitissimo, floreale, l’ultimo bacio di questo vino seducente.

Terre Nere di Campigli Vallone è un’azienda che meriterebbe più rinomanza: rientra nel gruppo di quelle locate a Castelnuovo dell’Abate, giovandosi della particolare tessitura che, a mio avviso, la zona regala ai vini; inoltre, la coscienza produttiva è notevole: si lascia parlare il territorio, originando vini precisi ed equilibrati.
Il Rosso di Montalcino 2016 è complessissimo: tocca tutti i registri, ma in primo piano pone l’evocazione degli spazi aperti di un campo d’estate, ed i fiori macerati. Al sorso, è salato, fresco, lungo, con un tannino rotondo.
Il Brunello di Montalcino 2013 è in qualche misura simile: fresco e complesso, è più strutturato e, pur con la frutta rossa in evidenza, si declina su sfumature maggiormente minerali, al limite di un tocco austero.
Nel Brunello di Montalcino Riserva 2012 c’è più polpa ed una struttura ancora più imponente, mentre gli spunti di frutta rossa si fanno imperiosi. Indubbiamente c’è qui tanta materia, ma modellata elegantemente.

Di fronte Enzo e Monica Tiezzi, mi tolgo sempre il cappello: padre e figlia, anime di un’azienda che lavora secondo un’artigianalità vera e con tecniche di minimo intervento, ottenendo vini rigorosi e senza rete: significa che certe bottiglie vanno  attese diversi minuti dall’apertura nel calice, mentre altre risultano subito perfette e smaglianti: sono vini vivi, imprevedibili, ma sanno ripagare chi ha la pazienza di capirli.
Ciò detto, il Rosso di Montalcino “Poggio Cerrino” 2016 mi pare ancora offuscato da note fermentative, ma se ne distingue già il disegno asciutto, lieve, essenziale, sospinto da una certa bella acidità (lo riassaggerò in verità qualche mese dopo al Vinitaly, è già sarà trasfigurato e più compiuto).
Il Brunello di Montacino “Poggio Cerrino” 2013 ha già al naso un profumo stupendo, puro, dove convivono ciliegie, amarene, spezie dolci, i segreti del bosco e le aldeidi. Al sorso è accogliente e essenziale insieme: ha la stessa grazia minuta ed elegante di certi schizzi leonardeschi ed è, si può dire, già pronto per essere gustato con piacere.
Il Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” 2013 è senz’altro meno pronto, ma è radioso, luminoso, con una notevolissima qualità tannica, quasi mozzafiato al sorso.
Il Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” Riserva 2012, richiede un po’ di ossigenazione per dispiegare il suo straordinario potenziale: ha una bocca soffice e potente e un allungo straordinario verso un finale a coda di pavone, dove balugina, come lumeggiatura, persino il cioccolato.

Lo scorso anno avevo assaggiato per la prima volta i vini di Ventolaio, rimanendone favorevolissimamente impressionato. La medesima impressione nell’autunno passato a Sangiovese Purosangue, a Siena; tuttavia con l’assaggio delle annate in presentazione a Benvenuto Brunello sono completamente conquistato.
Il Rosso di Montalcino 2016 è piccola gemma. Molto aromatico e puro, sfaccettato: ciliegia, erbe aromatiche da cucina, persino fieno; ed è assai fresco al sorso, soffice, setoso, glicerico, con un’acidità alta e ottimamente integrata.
Il Brunello di Montalcino 2013 ha un bellissimo colore, quasi corallo: forse la veste più bella di tutta la manifestazione. Ha tanto aroma, e variegato: in ordine sparso, spezie dolci, fiori appassiti, più sfumata sta la frutta rossa. Vista ed olfatto invogliano decisamente al sorso, bellissimo anch’esso: puro, fresco, lungo, equilibrato, risolto e quintessenziale: una giusta misura lo regola sovrano.
Il Brunello di Montalcino Riserva 2012 ha un colore più nettamente rubino. Meno definito olfattivamente, gioca maggiormente sui toni della frutta matura, più scuri e carnali. Più potente, più alcolico del Brunello 2013, al momento è contratto e rivendica l’attesa.

Fattoria dei Barbi presenta ancora una volta una batteria di vini classici e di alto livello, nei quali la cura artigianale si sposa con numeriche produttive importanti. Che  riesca ogni anno nell’impresa basterebbe a far notizia, tuttavia ogni anno c’è  qualche acuto ragguardevolissimo del quale compiacersi.
Il Rosso di Montalcino 2016 è estremamente profumato e ammiccante, perché già suggerisce di essere saporitissimo: in effetti, tocca tutti i registri aromatici, a ventaglio. Al sorso mantiene quasi tutte le promesse; è rotondo, con un’acidità e forza tannica discrete.
Il Brunello di Montalcino 2013 (quello con la mitica etichetta blu) incarna una certa idea di classicità, sul filo di un’evoluzione controllata e col passo sicuro al palato che esprime la calma dei forti.
Il Brunello di Montalcino  "Vigna del Fiore” 2013, al confronto, ha più polpa, più struttura, più tannino ed una maggiore integrità, nel senso che è meno evoluto.
Il vero asso della batteria, però, è il Brunello di Montalcino Riserva 2012: campione di uno stile antico, è un vino estremamente signorile, possente ma più ancora posato, di grande sostanza: vigorosamente chiaroscurato all’olfatto, dove lascia emergere note di frutta, vincontrappone un sorso setoso, lungo e profondo, con un’alta acidità a sostenerlo.

L’unica azienda che a mio parere possa accostarsi a Fattoria dei Barbi in termini di stile tradizionale, cura e costanza qualitativa nell’ambito delle numerosissime bottiglie prodotte è Col d’Orcia. Io, per risparmiare un po’ i miei sensi, che ad un certo punto della giornata di assaggi risentono della fatica, assaggio solo il celebre Brunello di Montalcino Riserva Poggio al Vento 2010: ancora una volta lascia me (e l’amico Stefano) senza parole. Profumo di eccezionale forza e concentrazione; prestanza statuaria: tannini, acidità, corpo, alcol “eroici”; eppure riesce infiltrante, godibile, quasi – mi verrebbe da dire – leggero. A trovargli un difetto, forse ancora un po’ in fieri rispetto ad altre annate che ho precedentemente assaggiate.

Per la prima volta ho occasione di assaggiare la proposta completa dei vini di Corte dei Venti, un produttore del quale si è fatto un certo parlare recentemente.
Il Rosso di Montalcino 2016 mi è sembrato buonissimo: da un altopiano posto a circa 300 metri sul livello del mare, all’estremità più meridionale della denominazione, ma rinfrescato da venti continui, si ottiene questo Sangiovese paradigmatico, che sa di sale persino al naso, e dispiega profumi campestri, di paglia e di fieno. Lo assaggio, ed al sorso è lieve e salino, saporito e pulitissimo.
Il Brunello di Montalcino 2013 ha eleganti profumi di arancia, ma trovo l’espressione un po’ frenata dal legno di affinamento, almeno in questa fase; un peccato, perché al sorso è bello, gustoso, carezzevole, equilibrato.
Mi pare più riuscito il Brunello di Montalcino Riserva “Donna Elena”  2012: racconta la larghezza dell’annata calda, ma riesce comunque fresco, dinamico e molto succoso.
A margine, l’assaggio del Sant’Antimo “Poggio ai Lecci”, un taglio di Syrah, Cabernet Sauvignon e Merlot. Viene da una vigna affacciata sulla Val d’Orcia, soggetta al l’influsso del Monte Amiata. L’apprezzo, pur non amando particolarmente il genere: con profumi giocati tra frutta nera e rossa e nitidi spunti minerali, in bocca è ben teso tra una più che discreta acidità ed un tannino di buon livello.

Che meraviglia, anche quest’anno, gli assaggi di Fattoi: nella mia piccola esperienza sempre tra i migliori, se si apprezzano vini appassionati e di spirito artigiano. Quello, difatti, sono.
A partire dal Rosso di Montalcino 2016: “divino”, segno per l’entusiasmo e la foga della sintesi nelle mie note. È profumato, con note nitidissime ed evocative di ciliegia. Al sorso è succoso, caldo-fresco, vivido, dal tannino fine ed acidità decisa. Un vino di bellezza viscerale.
Nel Brunello di Montalcino 2013 ritrovo quei toni gravi e baritonali che tanto amo in questa firma. I profumi di frutta, in lui, già trascolorano evolvendo nelle spezie e negli incensi. Un vino di struttura potente, apparentemente morbido, ma con le giuste durezze nascoste: quelle che rendono il sorso narrativo e rilevante.
Di fronte al Brunello di Montalcino Riserva 2012 per un attimo taccio. Il profumo è molto intenso, dipinge composizioni di frutta matura; ma la bocca è potentissima, carnosissima, quasi una bestia selvaggia che aspetta ancora di essere domata. Stefano, l’amico che assaggia con me, commenta: “È una pornostar”; ridiamo, ma credo che colga nel segno. 

Non avevo mai assaggiato prima i vini di Ferrero ed è forse un peccato che io li accosti solo quest’anno, viste le recenti e tristi vicissitudini familiari. Però è l’occasione di rendere merito a chi questi vini pensava e faceva.
Il Rosso di Montalcino 2016 è molto integro, anche al colore, rubino e luminoso. Ha un profumo definitissimo di amarena matura e scura, che ritorna anche all’assaggio: elegante, con un’acidità viva ed un tannino raffinato.
Il Brunello di Montalcino 2013 ha un profilo diverso: un po’aranciato alla vista, più viscerale, con note terrose di farmyard (come dicono gli inglesi) al naso. L’assaggio ed è equilibrato, rinfrescato da una buona acidità, con un tannino importante ma fine, maturo, e lungo su un retrogusto ematico e terroso.

Qui finiscono gli assaggi: sono le 5 e mezzo, la mia bocca e il mio naso satolli di bellezza non rispondono più. Eppure chissà  quanti altri vini meravigliosi potrei assaggiare oggi, in questo Benvenuto Brunello dal livello medio altissimo, vetrina di annate assai diverse, ma tutte fortunate. Stasera ci sarà la cena con gli amici produttori, debbo recuperare lucidità per i miei sensi. Pausa. Posso ripensare ai calici  e ai volti di oggi. Già la mente però va lontana, vola al prossimo anno: immagina e sogna i futuri regali della terra di Montalcino".

La cena ci fu: andammo da “Il Pozzo”, celebre trattoria di Sant’Angelo in Colle. Amici e conoscenti: Luciano, Stefano, Jessica, Alessia, Raffaella. Buon cibo rustico di tradizione Toscana e tanti buoni vini, che ciascun commensale aveva portato: vini locali e vini foresti, annate vecchie e recenti. Molti, splendidi. La mia bottiglia fu il  Nebbiolo d’Alba Valmaggiore di Marengo, rifinito e gustoso. Però la sorpresa venne con le vecchie annate di Rosso di Montalcino, ancora scattanti eppure tanto complessi. Il 2006 di Luciano, che vino! Resta di allora  nella memoria soprattutto il clima rilassato, allegro, conviviale, umano; il rientro a Montalcino nella notte fonda, arrampicando l’auto sui fianchi bruni del colle, con la pioggia e la nebbia ad avvolgerci in una dimensione conclusa, intima.

Rientrai a Milano con il nome di Montalcino già segnato sul l’agenda e la prenotazione in tasca, per tornarvi di lì a due settimane e rivedere gli amici e stringerne di nuovi; per camminare ancora quella terra  e meglio conoscerla . Ne visitai  il nord,  fresco e cristallino nelle sue geometrie, a Montosoli, da Baricci; là trovai vini che hanno la grazia essenziale e composta della primavera fiorita di un maestro del Quattrocento o della prosa lirica di Idilio dell’Era, quando racconta dei Santi eremiti e fanciulli, come fossero novelle popolari. Là trovai giovinezza e sapienza insieme unite, un’anello orgoglioso tra le generazioni. Di lì si vede il Montalcino ergersi imperiosa sul suo colle -visto di sotto, drammatico e ripido come una balza – visione grifagna e quasi dantesca.
Poi andai a sud-ovest, percorrendo i fianchi del colle come quelli di una grande madre, godendomi l’apertura assolata delle colline che stanno dove il bosco cede il passo alle colture e guarda – come dovesse tuffarsi in mare, la fronte battuta dal vento – la calma distesa ondeggiante, gialla e verde di spighe e di fieno, che sta tra l’Orcia e l’Ombrone. Finalmente passeggiai le vigne di Fattoi, toccai la terra, respirai l’aria, vidi la cantina: ecco la culla di quei vini viscerali, terrestri e splendenti. Là trovai l’orgoglio contadino in una dimensione distesa, schietta, confidenziale. Poi restai dipresso le mura antiche della città, da Tiezzi: là trovai l’antico che guarda al futuro, i vecchi attrezzi e la nuovissima cantina, i vecchi Cru con le viti giovani, e l’equilibrio sovrano dei vini. Poi andai a sud, sotto un cielo grigio e nero ed aria di tempesta, vento forte che scuoteva le nubi, gli alberi, le erbe; salendo sempre più in alto una lunga sterrata, traversando un paesaggio di pascoli verdi e colli deserti, solitari, tenebrosi nel loro silenzio; fino a giungere tra le vigne di Ventolaio, che pare scivolino a precipizio verso Sant’Antimo, piccola di lassù come un giocattolo e candida come una pietra preziosa. Là trovai vini profumati come quelli di montagna ed un’ospitalità calda, familiare: la sensazione immediata di sentirsi a casa.

Queste, però, sono altre storie, che un loro tempo e un loro spazio vogliono per essere narrate: l’avranno.
Intanto, mentre scrivo queste ultime righe, già la nostalgia di Montalcino mi chiama: poche ore, e vi ritornerò.

Chianti Classico Vigna Istine 2012, 12,5 gradi.

image

Il primo ricordo gustativo che ho di un vino di Istine risale ad un momento piacevolissimo di novembre del 2011 o del 2012. Mi ero all’epoca già trasferito in Inghilterra, non da molto, ma abbastanza da aver avuto già esperienza dell’inclemenza del clima d’oltremanica: freddo, piovoso, umido e soprattutto buio.
Ero rientrato in Italia per qualche giorno, nella mia amata Toscana, e mi ero preso una giornata tutta e solo per me, per girare il Chianti, a zonzo e senza mete particolari, se non la visita a qualche cantina: l’obiettivo era quello di riempirmi gli occhi delle colline, del cielo, dei boschi, delle vigne, della pace che sempre mi ispirano quei luoghi. Io e la mia Alfa Romeo rossa.
Ricordo che era una giornata di sole meravigliosa. Mi trovai a passare per Radda all’ora di pranzo e decisi di fermarmi lì. In quella stagione il borgo è semideserto e più autentico, a dispetto dell’aria sonnacchiosa e di alcune serrande abbassate. C’era – e credo ci sia ancora- un bar trattoria all’ingresso del paese arrivando da est, dalla parte di Castellina: lo trovai aperto. Mi accomodai  a un tavolino davanti l’ingresso e ordinai un piatto di ribollita e un calice del Chianti Classico di Istine: sotto quel sole tiepido, mi parve il pasto più buono che si potesse desiderare e quel Chianti così tipico, luminoso e trasparente, che fosse delizioso e indimenticabile.
Era, appunto, il mio primo assaggio di quel vino, ma come tutti gli appassionati di una certa idea di Sangiovese  e di Chianti Classico (tipica, tradizionale, territoriale e significante), di Istine avevo già sentito parlare in precedenza e ne ebbi perciò allora una splendida conferma.
Sapevo anche che a Istine esisteva il progetto di valorizzare le singole vigne, vinificandole separatamente come selezione, cominciando appunto dalla Vigna Istine, la più vecchia. Erano bottiglie , all’epoca, non facili da trovare fuori dalla Toscana e men che meno in Inghilterra.
Quando me lo propose qualche anno dopo il bravo Simone dell’enoteca Vanni di Lucca, non resistetti davvero alla curiosità, anche perché in programma, per quella sera stessa, c’era una succulenta fiorentina cotta sulla brace viva del camino. Ed allora dimenticai ogni mia buona norma: che il vino dopo il trasporto andrebbe lasciato un po’ riposare e soprattutto che andrebbe aperto con abbondante anticipo; nulla, arrivati a casa, cavatappi alla mano e pronti via, per assaggiare questo Sangiovese in  purezza da vigne vecchie. Era il 3 gennaio del 2015 ed il suo colore era così  bello, rubino pieno, ma trasparente; e possedeva un profumo molto intenso e ampio che parlava con chiarezza luminosa la lingua del Sangiovese di Radda: floreale e molto fruttato, in un gioco di rimbalzi tra violette e iris e ciliegie e fragole, come bimbi in cerchio che si tiran la palla; sotto sotto però, ci sentivo il carattere duro e tenace del suolo e della gente raddese, entrambi così rocciosi: era minerale, ferroso, con suggestioni empireumatiche. C’era,  invero, in lui qualcosa di dolce, una nota di legno che ancora non si era armonizzata,  che ne tratteneva la più completa espressione. Però,  poi, ecco che c’era del ritmo nel sorso, con un tannino che mi sembrava finissimo come una cipria ed un’acidità che era sorprendentemente alta malgrado l’annata calda, grazie forse all’esposizione a nord ovest della vigna. Aveva una grande concentrazione di sapore e chiudeva con un finale lungo, leggermente ammandorlato, persino con un accenno di uva passa e, pazienza, con un po’ ancora di quei toni dolci e fumé del legno di affinamento, che magari sarebbe bastato semplicemente aprire il vino qualche ora prima per dimenticare e che, in tutta onestà, nelle annate più recenti non ho più trovato.
Però quel Chianti Classico della Vigna Istine, pure un po’ in farsi, col suo equilibrio tra potenza e finezza, con la sua disciplina che temprava un’anima sorvegliatamente, ma sinceramente sensuale, mi conquistò senza rimedio. 

Peccato averne avuta una sola bottiglia. Peccato non averlo qui ancora, per aprirlo con calma, col suo dovuto anticipo, e risentire com’è ora.

image

E quattro…Benvenuto Brunello 2017: ma quest’anno è diverso.

image

Parte prima: “Quella verità che ho cercato”.

Pensavo che, rientrato in Italia, per la prima volta mi sarei goduto il viaggio verso Montalcino e Benvenuto Brunello in tranquillità, senza scapicollarmi dall’Inghilterra come era successo i tre anni precedenti. Invece, tutto diverso dai piani originali: vuoi per i cambiamenti nella formula della manifestazione voluti dal Consorzio, vuoi per impegni personali, a Montalcino sono arrivato non il sabato, come al solito, ma il lunedì mattina presto. E da solo.

Però, a maggior ragione, è stato un momento mio di riflessione: niente cene, niente amici coi quali girare per i banchetti ed assaggiare (quelli che c’erano stavano più che altro dietro ai banchetti), nessuno ad aspettarmi in albergo. In compenso, una notte tutta per me tra i silenzi di Montalcino e il martedì una giornata intera a godermi le colline, a respirare l’aria fresca, a percorrere quelle strade sterrate che costeggiano le vigne, dove lo sguardo spazia dalle pecore al pascolo, oltre i lecci, fino all’Amiata, al Monte Labbro, alle alture di Grosseto, oltre le quali immagini il mare, e tra le striature del cielo di febbraio ti par quasi di vederlo, non sapendo se verità o inganno della mente. Quella verità che ho cercato negli occhi delle Madonne e dei Cristi crocifissi al Museo di Montalcino, oltre che nei calici rossi.

Quella dimensione intima, accogliente e domestica di un luogo caro dove ti senti a casa e dove sai ci sono amici che anno dopo anno sono contenti di vederti e tu di veder loro; persino con quel pizzico di chiacchiera e di pettegolezzo sano della provincia, finché non c’è malizia, ma solo studio dei casi e delle fortune umane: le alterne vicende che vivono gli uomini sotto il cielo e per narrare le quali non bastano romanzi.
A preludiare codeste sensazioni, la pioggia che accompagnava la marcia dalla Greve attraverso la Valdelsa e i bordi del Chianti, poi oltre Siena attraverso le Crete a macchia di leopardo, fino a risalire bagnate le curve della Statale del Brunello sù sù per il colle, rivedendo le conosciute case, le insegne, le  vigne. Quanti lecci, quanti ulivi, quanto bosco, quanta bellezza ancora selvaggia che si è fusa armoniosamente con la mano dell’uomo: sono pochi i posti dove un’idea di bellezza si è così caparbiamente sviluppata e preservata attraverso i secoli. Penso alla mia Valdinievole e mi viene da piangere, per come l’hanno ridotta. La bellezza dei luoghi, mi viene da pensare, si riflette anche su quella delle anime: deturpati gli uni , anche le altre sono perdute. Qui no: al netto delle piccolezze e di qualche miseria, gli spiriti sono ancora sani. Perciò torno sempre volentieri a Montalcino e mi pare di non venirci mai abbastanza.

Poi ci sono Brunello e Rosso: ci sono ovviamente differenze dovute alle singole provenienze e più ancora a conti fatti allo stile dei produttori, ma la relativa uniformità ampeleografica permette oggi una bella e istruttiva lettura in trasparenza: meglio, la ricerca di una verità. Perciò ero il primo in coda alla porta per questo Benvenuto Brunello diverso.

image

Parte seconda: “Un bel gruppone di testa e nessuno era in fuga”.

La manifestazione, si diceva, ha avuto una diversa organizzazione, sulla quale non posso esprimermi. Però il lunedì non si stava male: gente ce n’era, ma non troppa, e a mio parere mediamente preparata. Chiacchiere sciocche ne ho sentite poche, fors’anche perché io stesso sono stato assai silenzioso e quanto meno ho evitato di aggiungervi il mio contributo.

Altro motivo di diversità rispetto agli anni passati è stato tutto  dovuto alla qualità dei vini e starei per dire delle annate. E’ vero che, conoscendo ormai qualche azienda e muovendomi da solo tra gli assaggi, ho evitato quelle che so non essere nelle mie corde per privilegiarne altre che magari non conoscevo, ma delle quali avevo sentito dir bene; tuttavia la realtà è che il livello dei vini era davvero molto alto ed mi è tuttora difficile dire quali siano stati i due o tre preferiti. Diciamo che c’era un bel gruppone di testa e nessuno era in fuga. Ecco, in tal senso qualche piccola delusione c’è stata: alcuni nomi “del mio privilegio”, come li avrebbe definiti Veronelli, non mi pare abbiano trovato il solito colpo d’ala pur avendo vini buonissimi. In ogni caso tale livellamento verso l’alto non può che far bene ad un territorio per il quale qualcuno dice non essere tutti i vini all’altezza della loro fama planetaria (ma questo, dov’è possibile? Nè in Cote d’Or,  né in Langa, né a Bordeaux).
Comunque, in dettaglio, per quanti ne ho potuti assaggiare, i Brunello di Montalcino 2012 sono senz’altro figli di un’annata calda, ma in generale il risultato mi è sembrato piuttosto buono, perché molti conservano un riuscito equilibrio sia nei confronti delle componenti strutturali che di quelle aromatiche e gustative, ed una bella freschezza. Ecco, a ben vedere, seppur piacevolissimi, alcuni non hanno forse quella spinta acida che ne possa garantire il lunghissimo invecchiamento; e per taluni una frazione di complessità aromatica in più, magari non sarebbe dispiaciuta. Ho provato a capire se queste impressioni potessero essere correlate con la posizione geografica dei vigneti, ma ho finito col desistere: i miei assaggi non bastano per una seria statistica, e anche se molti buoni calici erano di aziende del versante nord o poste a quote altimetriche importanti (in posizioni più fresche, perciò), non mi sento proprio di trarne una regola generale. Si è voluto paragonare la qualità della 2012 alla 2010, altra annata 5 stelle, ma non ne sono convinto; piuttosto, da quel che ho sentito nei Rosso di Montalcino 2015, azzarderei il confronto di quest’ultima alla 2010. Infatti sono vini potenti, svelti e strutturati insieme, con una carica di frutto che ora è di una piacevolezza lasciva (quasi pacchiana, l’ha definita ridendo un amico) e che col tempo, una volta doma, potrà penso trasformarsi un una raffinata sensualità.
Quanto ai Rosso di Montalcino 2014, si sa che l’annata fu un po’ magra, ma chi ha scelto l’uscita ritardata aveva un buon vino nelle botti e ha lavorato con rigore, ottenendo Sangiovese agili e persino beverini, in certi casi lavorati di bulino: i migliori mi pare attraversino oggi una fase di eccezionale apertura e piacevolezza, con la delicatezza a braccetto di una complessità sfaccettata e commovente. Un discorso simile per i Brunello di Montalcino Riserva 2011: l’annata fu caratterizzata da vampate di caldo improvvise e difficili da gestire, ma chi ha messo mano alla riserva in genere sapeva il fatto suo; eccezioni a parte, che al solito non mancano.
A margine, tanti cambiamenti: persone che vanno e che vengono, cantine in costruzione o in ristrutturazione, vigne nuove e reimpianti, acquisizioni, cessioni e scorpori: un mondo vivo che pulsa.

image

Parte Terza: “…questa é la foglia nella tormenta…sulla quale e della quale, roteando io stesso, scrivo…”.

Gli assaggi, che sono? Solo appunti brevi, vergati al volo su un taccuino girando nelle sale tra i banchetti; parlano di vini che mutano nel calice e che son ancora giovanissimi, aperti ancora, o quasi, a ogni futuro. Parole che il vento porta via; come le azioni e i fatti umani, del resto: “…questa é la foglia nella tormenta…sulla quale e della quale, roteando io stesso, scrivo…”. Perciò, amica o amico che mi leggi, attribuisci loro solo l’effimero valore che hanno, di impressioni bozzettistiche  disegnate con la matita in ordine sparso; e nulla più.

Lisini è azienda storica, un grande classico ilcinese, ed i suoi  vino offrono un ritratto perfetto delle tre annate, con un Brunello di Montalcino 2012 di bella apertura, molto equilibrato, gustoso e polposo: ottimo. Dal canto suo, il Brunello di Montalcino Selezione Ugolaia 2011 percorre una strada diversa: molto intenso, profondo, con un forte sbalzo di amarena e marasca, di grande impatto anche alcolico congiunto però con una benvenuta freschezza ed un tannino potente. Il Rosso di Montalcino 2015 è un’esplosione di frutti, caldo e fresco ad un tempo grazie a note aranciate, di mandarino, ed al sofisticato richiamo di spezie fini e di incensi. Molto pieno al palato, con un gusto molto intenso, ha struttura, equilibrio , potenza e un tannino robusto.

Con Fuligni siamo sempre tra le firme storiche del territorio. Posso assaggiare solo il Brunello di Montalcino 2012 (il Rosso non l’hanno più al banchetto), ma l’incontro è esaltante: il suo colore è relativamente scarico, ma il vino possiede una meravigliosa purezza aromatica, avvolgente, giocata tra toni di frutta matura e nocciole, esprimendo classe e affettuosità. All’assaggio è molto bilanciato, con una trama tannica bellissima per un Brunello così giovane, ed un’acidità mediana o poco più, ma soprattutto assai sfumata e sviluppata sul palato. Mi sembra, malgrado appena uscito, che sia già godibilissimo, al netto di una lievissima impuntatura tannica più giustamente caratteriale che altro.

Si cambia parecchio registro con Il Pino di Jessica Pellegrini: le dimensioni sono assai più contenute rispetto alle aziende precedenti e magari non ha ancora una fama altisonante, ma i vini sono interessantissimi e nel complesso sono stati, per me, una tra le rivelazioni di questo Benvenuto Brunello: riconoscibilissimi come Sangiovese di Montalcino, possiedono tuttavia una timbrica loro personalissima e difficilmente confondibile. Premesso cha già lo scorso anno il Rosso di Montalcino 2013 mi era sembrato ottimo, anche il 2014 è centrato malgrado l’annata difficile: scuro, terragno, baritonale, profondo, con note di caramella mou, ha una bocca gustosa. Il Brunello   di Montalcino 2012 ha anch’esso quel timbro baritonale ed una gran struttura, sebbene ancora in via di sviluppo: richiede un’attesa che gli concederei assai volentieri, visto l’espressione attuale del Brunello di Montalcino 2011: se lo scorso anno alla manifestazione lo avevo trovato un po’ scomposto, ora è perfetto, etereo, con una bocca bellissima, rotonda, ma sostenuta sempre da quella grande struttura, profonda e scura. Qualcuno che era accanto a me l’ha definito “un canto d’amore” e mi sento di prendere a prestito quelle parole.

Una virata netta con i vini di Gianni Brunelli – Le Chiuse di Sotto, tra i più rarefatti ed aerei che mi sia capitato di assaggiare a Benvenuto Brunello. Prendiamo il Rosso di Montalcino 2015: sarei tentato di dire che pinonereggia, se non fosse un concetto limitativo e da circoscrivere comunque più all’olfatto che al palato. Rubino, con profumi intensi, anzi esplosivi di frutta, molto puliti, ha una struttura importante per acidità e tannino. E’ assai fresco, risultando appena un po’ verde. Il Brunello di Montalcino 2012 è più ritroso, scuro, con cenni di uva sultanina e di aromi terziari che si fanno spazio, per un carattere sottilmente sensuale. Il suo impatto al palato è importante, largo, complesso, sostenuto da una buona acidità: non gioca tuttavia il suo fascino sulla forza, ma sulla complessità. C’e qui – a sorpresa- anche un Brunello di Montalcino Riserva 2009 ed è un bel sentire per ricordare come evolva magnificamente – e sorprendentemente – il Brunello: una grandissima profondità, note intense di incenso che gli donano un fascino orientale, poi solvente e petrolio. Al palato ha un gusto un po’ evoluto, con cenni di uva sultanina, quasi un ricordo di Porto. Una Riserva di Brunello scura e sensuale.

Altro Brunello di carattere e di un piccolo produttore è quello di Fornacina, solo 8.880 bottiglie nel 2012, dal quadrante est della denominazione. Un po’ aranciato al colore, con un profumo sfaccettato e un po’ rustico da merenda all’aria aperta: frutta rossa, fiori gialli di campo, note tostate di legno e frutta secca. Vuole tempo nel calice, e coi minuti emerge  al naso perfino la carne. Non è nella qualità del tannino che dà il suo meglio, perché è un po’ asciugante, ma nella salinità decisa che sorregge la bocca e lo sospinge insieme ad una riuscita e rinfrescante acidità.

Restando  in tema di carattere, menziono qui Il Paradiso di Manfredi. Non è detto che chi ha carattere l’abbia facile ed io ammetto che non sempre vado d’accordo con questi vini: ogni volta che li ho assaggiati a Benvenuto Brunello li ho sempre trovati molto interessanti, ma per dir così angolosi e scomposti all’olfatto. Mi sono ripromesso ogni volta di riassaggiarli più avanti e con calma, ma alla fine me n’è sempre mancata l’occasione. Però quest’anno, complici magari le annate favorevoli, il mio dialogo con loro è stato subito più sereno. Il Rosso di Montalcino 2015, dal colore bellissimo, molto rubino, sulle prime ha le solite velature e impuntature aromatiche della firma, ma quando se ne libera (e ci vuole un po’) sfodera profumi molto freschi di frutta e di fiori persino, quasi stupefacenti in un’annata come la 2015, dove il calore non è mancato. Alla bocca è di gran stoffa: piena, già con un’ottima integrazione, anch’essa fresca grazie ad un’alta acidità. Dal canto suo, il Brunello di Montalcino 2012 mi stupisce, perché sebbene per scelta aziendale non sarà in commercio prima di un paio d’anni risulta già molto buono, pulito e centrato negli aromi, potente al palato, con una gran carica tannica. Sono vini particolari, nei quali i suoli particolarmente galestrosi e le esposizioni fresche giocano – mi si dice- un ruolo importante, ma non lo è meno – a mio avviso- la sensibilità di chi li produce: sono figli di un’enologia libera, se così si può dire, che lascia il vino farsi da sé.

Le Chiuse si trova sullo stesso versante de Il Paradiso di Manfredi, la distanza in linea d’aria non è molta. Volendo anche i vini hanno anche qualche punto in comune: quel senso di freschezza, di verticalità, di solidità minerale, che nei vini de Le Chiuse si esprime normalmente in una seria austerità strutturale e aromatica, a volte poco concessiva in gioventù, ma disposta a lunghi affinamenti. Tuttavia a questo Benvenuto Brunello, complici magari le annate, mi sono sembrati vini più aperti del solito al dialogo, più sorridenti, quasi si fossero tolti elmo e corazza per godersi anche loro il sole del 2012 e del 2015. Il Rosso di Montalcino 2015, ad esempio, è esplosivo: ha un color rubino molto netto, luminoso e trasparente; un olfatto dove la componente fruttata domina, ma con una nota decisa di mora che lo sfuma verso la macchia; un sorso ricco, vellutato, estivo, quasi cerealicolo in certi ritorni di aromi, e tuttavia di struttura importante, ben tannico. Il Brunello di Montalcino 2012 è anch’esso aperto, più caldo e complesso, molto profondo, con terziari che virano su toni ferrosi. Ha un tannino potente, quasi severo, ed un’alta acidità: non lascia dubbi sulla sua voglia di sfidare il tempo. In assaggio, quasi per conferma, c’è anche il Brunello di Montalcino Riserva 2006: grande profondità, timbro olfattivo scuro ed ematico, con una intransigenza tutta sua, e tuttavia muta in continuazione nel calice, ora più evoluto, ora più giovanile, facendo presagire mondi che solo il tempo aiuterà pienamente a scoprire. Al sorso è del pari: ha una struttura enorme, ancora contratta: chiede solo una paziente attesa.  

Dopo una serie di piccole aziende, mi vien voglia a mo’ di intermezzo di assaggiare i conseguimenti di qualche cantina di grandi dimensioni: in fondo una buona parte dell’immagine e del nome che il Brunello si farà nei mercati mondiali dipenderà da queste firme che possono garantire una buona distribuzione, se non proprio capillare.

Comincio con Il Poggione, i cui vini non avevo mai assaggiato pur avendoli visti sugli scaffali di una buona fetta del mondo che ho girato. Per intenderci, il loro Brunello di Montalcino 2012 ed il loro Rosso di Montalcino 2015 saranno prodotti in 220.000 bottiglie rispettivamente, che significa un quantitativo 20 volte superiore rispetto a buona parte delle aziende citate in precedenza. Anzitutto noto con piacere che lo stile non deborda da quello classico e questa è forse la qualità più importante di questi vini: sarebbe facile cedere alle sirene di un gusto più internazionale e più semplice da capire per i consumatori esteri, ma qui la barra resta salda. Poi, il Rosso di Montalcino 2015 mi è sembrato davvero molto buono: dal colore felicemente un po’ aranciato ed un bel naso caldo e antico, sottilmente giocato sulla terziarizzazione e su note di humus, terra, carne, sfodera davvero un gran carattere. All’assaggio è morbido, pieno, con un gran tannino, forse un po’ in debito di acidità. Meno convincente, accanto a questo, il Rosso di Montalcino 2014 “Leopoldo Franceschi”, la selezione: mi è sembrato più ampio che dinamico. Quei profumi caratteristici, indentitari e vecchio stile che ho apprezzato nel rosso 2015, li ritrovo nel Brunello di Montalcino 2012 anch’esso giocato sui terziari, sugli odori di humus, di  macchia e di carne, con una vigorosa spaziatura. Però all’assaggio mi è parso un po’ diluito, senza troppo nerbo.

Anche con i numeri di Col d’Orcia non si scherza: credo che sia la più grande azienda vitivinicola biologica in Toscana e se prendiamo il Brunello d’annata come riferimento, nel 2012 la produzione è di 190.000 bottiglie. Il Rosso di Montalcino 2015 (che ha una tiratura solo leggermente inferiore, 180.000 bottiglie) ha una naturalezza aromatica sorprendente e luminosa, anche se all’assaggio non mantiene tutte le attese: mi sembra un po’ vuoto a centro bocca.
Più vigorosa la selezione, Rosso di Montalcino “La Banditella” 2014 , che proviene dai vigneti del Brunello: più nitido, speziato e ficcante, si sente però un po’ il legno e forse questa è la ragione per la quale il tannino mi sembra un po’ asciugante. A mio avviso molto buono il Brunello di Montalcino 2012: pulito, profumato, suggerisce un’apertura solare agostana; non troppo tannico, è morbido ed avvolgente, con una struttura più gentile che imponente, restituisce comunque una visione di Brunello assai affidabile. Il campione di casa, però, è il Brunello di Montalcino Riserva Poggio al Vento 2010, un vino monumentale in tutte le annate, ma che col 2010 ha una quota di polpa e di levità naturalmente unite da stupire. In verità, sa toccare tutte le corde: intenso, segreto, boschivo, ma solare allo stesso tempo; delicato, leggero e impalpabile per come si posa sul palato, ma poi subito imperioso per la sua intensità e la potente struttura, quasi enorme direi per corpo,  tannino ed acidità.

Per concludere il trittico delle aziende dai grandi numeri, torno a un vecchio amore: Fattoria dei Barbi. Comincio assaggiando il Rosso di Montalcino 2015: stranamente mi pare un po’ muto all’olfatto, ma la struttura c’è e credo abbia solo bisogno di farsi un po’. Il Brunello di Montalcino 2012, quello con la leggendaria etichetta blu, è sempre il bel campione dell’ old style, con tutti quei terziari che si spingono fino all’idrocarburo, con quel sorso robusto e gustoso, che procede con  un passo sicuro verso un finale di bella lunghezza. Il Brunello di Montalcino Vigna del Fiore 2012 sarà in commercio da fine marzo, ma è già molto buono. Rispetto al fratello è più fresco, forse più complesso all’olfatto; più strutturato in bocca, ma in questa fase anche un po’ più crudo. Il Brunello di Montalcino Riserva 2011 mi riporta nell’Olimpo dei vini vecchio stile, fin dal colore scarico. Gustoso, morbido, è in realtà strutturatissimo, ma in qualche modo rimane impalpabile, tanta è la sua delicata finezza. In definitiva, mi pare che Fattoria dei Barbi esprima una qualità media eccezionale in relazione al numero di bottiglie prodotte; e lo spirito dei vini è autenticamente territoriale, quasi artigiano : non è poco.

Forse proprio perchè ho respirato di nuovo questo spirito che il mio prossimo assaggio è Fattoi, azienda artigianale e familiare per eccellenza. Anch’essa, amica o amico che mi leggi, un altro mio amore. Vedi la complessità del Rosso di Montalcino 2015: rubino, pieno, tondo e caldo già al naso, con un tocco di aldeidi lì a rinfrescare uno spettro aromatico potentissimo e profondissimo, dai toni gravi, dove i  profumi di frutti rossi, la macchia, il bosco, si esprimono con quella voce di violoncello che secondo me costituisce un po’ la firma di Fattoi e delle loro vigne poste nel quadrante sud-occidentale della denominazione.  Il Brunello di Montalcino 2012 è se possibile ancora più grave, una melodia sulla IV corda del violoncello (pensa, amica o amico mio, alle Suite di Bach), ma suonata in maniera tale da essere artisticamente screziata, con sfumature infinite. Un vino bellissimo, dal profumo ricco, il sorso rotondo e gustoso, la grande struttura. Si riconoscerebbe fra mille: la potenza territoriale interpretata con sensibilità dalle mani dell’uomo risulta naturale, ma anche estremamente individuale. E’ così anche nella musica: il grande interprete che sovrappone la sua personalità alla partitura con semplice umiltà, la porta alla vita soffiando su essa l’alito delle proprie emozioni umane, ma non la distorce al suo capriccio.

Ne ho la conferma spostandomi all’assaggio dei vini di Baricci, una tra le aziende del nucleo storicissimo dei produttori di Montalcino, anch’essa dal carattere fortemente artigiano e familiare, che se conoscevo per chiara fama, non avevo mai avuto prima occasione di incontrare. Le vigne dei Baricci sono in posizione quasi opposta rispetto a quelle di Fattoi: qui siamo al Colombaio di Montosoli, a nord di Montalcino, con esposizioni est e sud-est. Vini molto diversi, ma ugualmente bellissimi, perché – almeno io credo – l’approccio che li ispira è molto simile. Il Rosso di Montalcino 2015: luminoso, di grande impatto; profumatissimo, con uno spettro di aromi completissimo; pieno sul palato, rotondo, solare, con tannini presenti, ma di grana fine. Il Brunello di Montalcino 2012 mi sembra uno tra gli assaggi migliori in assoluto di questo Benvenuto Brunello, un capolavoro di equilibrio, complessità, piacevolezza. Trovo in lui evidenti i profumi balsamici e di macchia, poi spezie, frutta; infine note ematiche e di pellami, ma questi cenni evoluti si sposano con una grande forza marina e solare, che si ritrova anche al palato, dove la salinità è decisa e intesse il dialogo con un sorso delicato, dolce, armonioso, sebbene di spalle larghe, con un tannino tenace ma fine ed un’acidità notevole.

Altro incontro nuovo e da tempo atteso, l’ho con Talenti. Mi si dice – non so se sia vero- che in passato i vini avessero strizzato un po’ l’occhio ad uno stile modernista, ma in realtà quello che sento nel bicchiere mi pare sotto l’insegna del classicismo più puro e rifinito; anzi, più “vago” nel senso leopardiano del termine: quel senso di sfumata lontanza, così elegantemente romantico, che apre le porte all’evocazione di un infinito. Nel Rosso di Montalcino  2015 per esempio, l’esplosione aromatica non è diretta, ma come velata di una seta impalpabile, al limite della trasparenza, come si vede sul capo delle Madonne del ‘300. Anche il sorso: così delicato, lieve, sospinto da una notevole acidità ma non pungente, con un tannino fine come cipria, e lunghi ritorni aromatici nel finale di spezie e di  sigaro. Il Brunello di Montalcino 2012, dalla tinta aranciata, il profumo ricco, etereo, di prospettiva aerea, composto; ed un sorso che bilanciandosi tra una gran finezza tannica ed un’alta acidità, è saporitissimo, gustoso, salino, di un’ampiezza sapientemente modulata.

Ventolaio è un altro nuovo assaggio di quest’anno – e debbo dire – mi sorprende assolutamente, forse perché in qualche modo avevo trascurato in passato questa firma, non considerandola come avrei dovuto. Siamo qui, di nuovo, in una realtà dal carattere artigianale e familiare ed i vini hanno un carattere spiccato, quasi arcaico per quelle tinte già aranciate e gli aromi giocati sul filo dell’evoluzione e delle aldeidi: hanno insomma quel “X factor” che a mio avviso rende i vini non più buoni, ma magici. ll Rosso di Montalcino 2015 è un vino d’impatto, nel cui profumo la frutta rossa è evidente come in tutti i vini ilcinesi del millesimo, mi par di capire; ma  anche le spezie vi giocano un ruolo importantissimo. Sul palato è dolce, ampio, particolare e piacevole con i suoi richiami gustativi che a me ricordano l’anice e il panforte senese. Ha una bella struttura, è salino -ciò che lo mantiene stuzzicante- e gustoso assai . Il Brunello di Montalcino 2012 ha un profilo aromatico più scuro, com’è giusto, ma è ficcante, iodato, con strati olfattivi di pelli conciate, di frutta, di cacao; ed ha un una bella presenza scenica in bocca: largo e leggero a un tempo. Forse appena un po’ asciugante nel finale, che è comunque molto lungo.

Dicevo dell’X-factor, quello che crea la magia nei vini. Con le persone è lo stesso, no? Poggio di Sotto fa vini buonissimi ormai da parecchi anni. Le annate dalla metà degli Anni Duemila in poi le ho assaggiate tutte, quanto basta per restarne abbagliato. E buonissimi sono il Rosso di Montalcino 2014 ed il Brunello di Montalcino 2012, che avrò modo il giorno seguente di riassaggiare con calma. Però, perché non mi prende più quel brivido lungo la schiena, quella pelle d’oca che mi si rizzava coi vini di qualche anno fa? Dov’è finito quel loro colore aranciato, così evocativo? Il Rosso ’14, infatti, è di un luminoso color rubino, benché molto scarico come da tradizione; sempre buono, buonissimo per l’annata, ma un altro stile, in qualche modo normalizzato, più accessibile; ed infatti, altri – non io- preferiscono così. Comunque, che complessità! Forse di corpo anche più evidente che in passato – e con qualche nota d’alcol- ma è un Rosso di Montalcino 2014 eccellente. Quanto al Brunello di Montalcino 2012, molto buono anch’esso, un gradino più in alto per pulizia e complessità. ma anch’esso di stile normalizzato. Poi, in tutta onestà , in questa fase nemmeno il tannino mi pare all’altezza stellare che ci si aspetta da Poggio di Sotto: lo trovo un po’ asciugante. E’ un vino infante però, lo so bene. Tuttavia, quando assaggio il Brunello di Montalcino Riserva 2011 ritrovo il “mio” Poggio di Sotto, quello dello stile antico, del colore aranciato, delle grazia impalpabile, dell’evocazione arcana, della potenza segreta, del tannino finissimo, dell’acidità che devi andare a cercare perché gioca con te a rimpiattino sul palato come una dama un un giardino del Rinascimento la notte di giugno, con le lucciole intorno. Una cosa va detta, con onestà:  i cambiamenti di proprietà e di mano in cantina, gli incrementi del fondo vitato, non sono dettagli che si digeriscono un una notte. La sola domanda è: si tratta di assestamento oppure è un conscio cambio di direzione?

Però, certi semi gettati, restano e germogliano. Non c’è un po’ del “vecchio “ Poggio di Sotto nelle ultime uscite di Podere Le Ripi? La zona, poi, è la stessa, quel versante magico dalla parte di Castelnuovo dell’Abate che guarda negli occhi il Monte Amiata. Quest’azienda, che ha iniziato la sua avventura con scelte controcorrente ed azzardate, come i vigneti a densità altissime (4000 piante per ettaro il Rosso, 11000 il Brunello), sta trovando oggi mi pare una sua strada verso uno stile enologico classico, dove forza e scioltezza trovano un connubio molto naturale. Questo per dire che in fondo il vino è un gioco di equilibri sottili e che in quegli equilibri l’uomo è l’ago della bilancia. Il Rosso di Montalcino Amore e Magia 2013 è un’uscita particolarmente ritardata quando i più presentano i 2015. Sorvolando sul nome di fantasia,questo Sangiovese che affina due anni in legno e 1 in bottiglia, ha profumi ampi, solari e screziati, bocca gustosa, un’alta, benvenuta acidità ed un tannino ancora aggressivo. Il Brunello di Montalcino 2012 “Lupi e sirene”, che proviene dalla stessa vigna della Riserva, ha bellissimi profumi maturi, di frutta rossa e terziari. Il sorso è molto vivido, fruttato, con una bella acidità e tannino ottimamente estratti, che non si notano. Insomma, un vino di gran classe e personalità. Il Brunello di Montalcino Riserva 2011 “Lupi e Sirene”, è un colpo al cuore, per quanto assomiglia ai Poggio di Sotto di qualche anno addietro: quello il colore aranciato e scarico, quello il profumo che tra frutta rossa e solvente disegna un arcobaleno aromatico; quella la gran struttura che si cela sotto un sorso ampio e morbido, dalla beva succosa.

Poggio Antico, invece, credo rappresenti bene il concetto di valore sicuro, di una costanza su vini ad alto livello, sempre eleganti anche in annate più calde. Il Rosso di Montalcino 2015  è puro, dolce, poetico, luminoso, fresco: così già solo a sentirne il profumo.  Al sorso è morbido, carezzevole, conciliante, fresco e longilineo, confermando così le sensazioni avute al naso. Ha una bella struttura ed un’acidità rinfrescante, valori fondanti che gli derivano dalle vigne aziendali che sono a quote elevate, sempre fresche e ventilate. A guardare il capello, manca magari lievemente di intensità gustativa a mio vedere, ma è vino di razza e stoffa. Il Brunello di Montalcino 2012 è fresco, elegante e strutturato, anche se mi pare un po’ indietro ancora nella sua definizione  per una certa giovanile reticenza al naso e qualche traccia di astringenza. Il Brunello di Montalcino “Altero” 2012, invece, si atteggia già da campione: più pronto e più dolce del fratello nei profumi, si impone anche con un pizzico di aggressività dovuta  una struttura monumentale, con grandi tannini. Imperioso, certo, ma senza rinunciare ad una sostanziale finezza di modi e ad un disegno accurato.

Tiezzi è un altro di quelli che mi sento di definire valori certi: sarà per la posizione delle vigne, sarà per l’esperienza di Enzo Tiezzi, ma anno dopo anno tutti i vini sono la  piacevolissima conferma di che cosa può esprimere il Sangiovese se trattato con rispetto ed all’insegna dello stile più classico.  Inoltre la loro caratteristica è una notevole grazia gustativa. La dimostrazione inattesa viene dal Rosso di Montalcino 2014, portato in riassaggio alla manifestazione, un po’ a sorpresa. Si sa che l’annata era così così, ma il vino è buono , fresco, pulito, profumatissimo; ed in bocca la freschezza si conferma, accompagnata da un sorso ampio e gustoso, un’acidità un po’ più che media, il tannino finissimo ed abbondante, una percettibile salinità. Fa un figurone questo Rosso, con le sue note scure di virtuosa evoluzione. Messo accanto al  Rosso di Montalcino 2015 la differenza è comunque evidente: alle penombre autunnali del primo, si contrappone la luce meridiana del più giovane, che esprime un profumo fruttato e finissimo da manuale, con una nota purissima di amarena, poi avvolta di spezie. Ha struttura  ed un tannino eccellente per quantità  e grana. Al momento apprezzo il  Brunello di Montalcino “Poggio Cerrino” 2012  più in bocca che al naso, che credo si  debba ancora fare, ma è molto fresco, succosissimo, comunicativo e strutturato, con una netta salinità. Il Brunello di Montalcino Vigna Soccorso 2012 è ancora più fresco e puro ed ha una grande struttura. Mi lascia con la sensazione che abbia una gran vita davanti e che sia al momento meno pronto del fratello. C’è in assaggio anche il Brunello di Montalcino Riserva Vigna Soccorso 2011 ed è interessantissimo notare le differenze tra un’annata e l’altra: la mano in cantina è la stessa, leggera e sapiente, ma qui il colore del vino è più aranciato, l’olfatto vira su note assai più evolute e scure, il sorso più caldo, per un vino bellissimo che trova la compiutezza in equilibri suoi distintivi.

Questo concetto di equilibrio distintivo lo ritrovo nei vini de Le Ragnaie, tra i più personali ed insieme autentici che abbia assaggiato alla manifestazione. Anche qui, vuoi le caratteristiche peculiari dei vigneti, vuoi la sensibilità interpretativa, sono vini inconfondibili e che non si dimenticano. Il Rosso di Montalcino 2014 è rarefatto:  trasparente, freschissimo, agrumato, particolarmente leggero e soave, con un tannino quasi impalpabile. Il Rosso di Montalcino 2014 “Petroso” viene da un vigneto posto sotto Montalcino: già all’olfatto lo dici più pieno, molto balsamico, quasi tu inoltrassi il piede in una lecciaia, ed ha un tannino  più importante. Il Rosso di Montalcino 2014 “V.V.” , che viene dalla vigne aziendali più vecchie, ha una marcia in più in termini di polpa. Il Brunello di Montalcino 2012 è molto fresco, aereo e screziato al naso, con  tocchi di aldeidi e cenni terziari, per un sorso aggraziato e ricco di struttura. Il Brunello di Montalcino 2012 “Fornace” mi pare tra i tre presentati da Riccardo Campinoti quello attualmente più pronto e piacevole, fitto e rotondo, con un senso raro di personalità olfattiva e tattile, ed un tocco lievemente amaro che mi piace. Il Brunello di Montalcino 2012 “V.V.” mi sembra forse quello col maggior potenziale evolutivo, pieno e polposo, ma di eleganza rarefatta. Sebbene non sia ancora del tutto integrato, credo, ha una struttura imponente, più tannica che acida. Vini ossìmori, quelli de Le Ragnaie, e affascinanti.

E di fascino sono maestri al Il Marroneto. Tutti i vini presentati mi sono sembrati eccellenti, personali, ricchi di carisma. Il Rosso di Montalcino 2014 “Ignaccio”, molto trasparente e dal color aranciato,  è così generoso di freschi profumi (fiori, frutti, spezie e ricordi marini) da farmi pensare sia un una fase di eccezionale apertura. Anche al sorso è fresco e lieve, agrumato, stuzzicante e lieve, con un tannino delicato ed una discreta acidità. Il Brunello di Montalcino 2012 mi sembra ancora un po’ chiuso, ma il suo aroma, sebben sottile, è già molto infiltrante e la bocca è gustosa e potente, persino muscolosa, con una grande tannino ed un’alta acidità che disegnano un sorso ricco di tensione interiore. Il Brunello di Montalcino   “Madonna delle Grazie” 2012 mi sorprende, perché lo trovò più rubino delle altre annate che ho assaggiato, ma i profumi sono indimenticabili, ricchissimi, coprono tutti i registri dello spettro aromatico. Al sorso è potente ma fresco, dinamicissimo, con un gran tannino ed un’alta acidità. A mio vedere, un gran Brunello, buono già oggi e da lungo invecchiamento. Sono vini, in qualche modo, assertivi, “che non debbono chiedere mai”.

I vini di Pietroso mi sembra portino nel nome il loro carattere: strutture imponenti, rocciose, con un senso di naturalezza primigenia ed una vena sottilmente minerale, al limite talvolta con qualche cenno di austerità. Fossero automobili, sarebbero di quelle per veri amanti della guida, pronti a infilarsi i guanti di pelle ed a tener le mani ben salde sul volante per a domare i cavalli imbizzarriti del motore tra una curva e l’altra. Il Rosso di Montalcino 2015 ha una bella tinta rubina, profumi fruttati, una bocca imponente e gustosa, forse un po’ alcolica, ma dove spicca la struttura importantissima. Il Brunello di Montalcino 2012 mi sembra molto buono, ancora assai rubino, con aromi potentissimi, in equilibrio tra giovinezza ed evoluzione, ed un sorso fresco ma di potenza estrema, con un tannino monumentale.

Proprio perché offrono sempre strutture tra le più importanti della denominazione, torno sempre volentieri all’assaggio dei vini di Caprili. Il Rosso di Montalcino 2015 ha un grande impatto aromatico, con note già  evolutive in equilibrio mirabile con quelle più fruttate. Ha una bella potenza, anche se il sorso mi sembra appena un po’ slavato al centro bocca. La mia aspettativa è soddisfatta: conferma un gran tannino ed una notevole acidità. Il Brunello di Montalcino 2012 ha un profilo olfattivo particolare ed affascinante, dalle note scure ed anche tostate, macchia, foglie e frutta secca, mandorle, e sotto la frutta fresca,che pure è presente, fichi secchi. Eppure l’insieme è vispo, fresco, e  il sorso è modulato, rotondo, pieno però di struttura con tantissimo tannino e acidità in abbondanza. Assaggio anche il Moscadello di Montalcino 2016, piacevolissimo! Appena un po’ frizzante, appena un po’ dolce, lo immagino  un vin de soif sulla pancetta.

Canalicchio di Sopra:  anche qui, per quel che ricordo degli assaggi passati, a struttura non si scherza. In degustazione anche il Rosso di Montalcino 2014, che contiene -stante l’annata-  parecchia uva normalmente destinata al Brunello. Mi pare abbia un’intensità di profumi quasi stordente, è tutto frutta e freschezza. Al sorso è relativamente delicato e fresco, eppure ha una gran struttura, notevole per acidità e tannino; forse è appena un po’ amaricante sul finale. Il Rosso di Montalcino 2015 ha una gran potenza olfattiva e gustativa: è reattivo al palato ma ampio, strutturato, forse appena meno compatto e deciso dell’annata precedente. Il Brunello di Montalcino 2012 è più severo, più cupo, giocato sulle note segrete di vello e di macchia. La sua potenza tannica è enorme ed ha una grande acidità, ma in questa fase credo che sia ancora un po’ contratto e non spiega del tutto il suo potenziale.

Dopo certi pesi massimi, per apprezzare adeguatamente i vini de Le Potazzine bisogna essere assaggiatori pronti e bravi a cambiare velocemente registro, perché questi sono tutti sottigliezza e sussurro, quasi evocanti un candido lirismo. Infatti , l’ammetto, lì per lì mi son passati quasi sotto traccia e solo una fortunata occasione di riassaggio una paio di settimane dopo me ne ha svelato meglio il valore. Sono vini freschi, integri, guizzanti, con il Rosso di Montalcino 2015 ancora un po’ da farsi, gustoso, appena un po’ amaro sul finale, ed il Brunello di Montalcino 2012 solo apparentemente leggero, perché in realtà è teso internamente da una gran struttura; anche lui tuttavia, mi pare chieda dell’altro tempo per dare di più e per un Brunello verace, è giusto così.

Il tempo, io credo, sarà amico e alleato anche del Brunello di Montalcino 2012 di Salvioni, che mi è sembrato al momento ripiegato un una sua introversa corazza iodata, marina, complessa, ma più sul metallo e sulla pietra che sul frutto: limatura di ferro, grafite…Decisamente tannico, austero, potente, quasi intransigente. Forse spiazzante sul momento insieme a tanti 2012 più concessivi e ciarlieri, ma nel ricordo affascinante: vorrei riassaggiare ancora e ancora per svelarne i segreti.

Per ultimi i vini del mio amico Luciano Ciolfi, ovvero Sanlorenzo; e c’è un perché. Un po’ li conosco già, li ho assaggiati che erano addirittura in fasce, nelle botti, e sono quindi vecchie conoscenze. Però riassaggiandoli ora li contestualizzo, ne vedo chiaro lo stile e  la traiettoria: anno dopo anno Luciano ne ha affinato  i tratti e quelli che ho nel calice sono rifiniti al bulino, ariosi, pur restando vini importanti e di impatto. L’esperienza maturata in vigna e in cantina ed anche forse l’età delle viti e il loro equilibrio origina oggi vini molto raffinati: quello che Luciano è riuscito a conseguire con il Rosso di Montalcino 2014 è la prova, credo, di un alto livello di consapevolezza: profumi di pulizia e ariosità eccezionali, fiori e frutta rossa, equilibrio ed una gran freschezza. Il Brunello di Montalcino 2012, ha un naso bellissimo, pulito molto complesso, profondo ma aperto e non cupo, ed il sorso è insieme gentile e potente, anche un po’ alcolico ma con gusto; lungo, ampio, un’ottima struttura con un tannino ben presente ma soffice.

image
image

Parte Quarta e Ultima: “La clessidra del mio tempo interno”.

Esco che son le ultime luci e già cedono il passo alle stelle: il crepuscolo è una lama sottile rosso-aranciata che si allunga ampia sull’orizzonte e persiste fino a svanire in un’ombra. Un rapido aperitivo, assaporando le vie di Montalcino gialle dei lampioni ed ancora odorose per la pioggia del mattino, tanti volti noti e qualche saluto. Poi la cena all’Osteria di Porta al Cassero, solo come quando giravo per lavoro l’Italia ed era la norma; non triste, appena con la malinconia del tempo che scorre (quanti anni son già  passati?): una ninfa gentile. In realtà, così un po’ mi piace e lì mi sento quasi a casa. Il mio digestivo: una passeggiata sotto le mura mute  e severe della Rocca, l’aria asciutta e leggera come quella di montagna, fors’anche più odorosa, da respirare a pieni polmoni. E il buio nero dei campi appena oltre le mura e il silenzio profondo e solenne per le vie: tu solo coi passi tuoi. L’immobilità rassicurante e rara.

Quest’anno non son sceso a Sant’Antimo, non avrebbe avuto senso: dopo la visita dello scorso febbraio e quelle degli anni precedenti, così pregne di significato, sentivo di dover lasciare uno stacco, di doverle isolare come un trittico. Il martedì, mie sono state le strade bianche, il cielo e le nubi, l’ara fresca e il sole caldo: i finestrini completamente abbassati per godere l’aria pura e i profumi, amandoli non meno di quelli dei vini. Miei i pampini, i lecci, i fili d’erba, le zolle, le pietre. Ho girato per cantine, ho riannodato i legami con i luoghi e i volti, imprimendoli una volta ancora nella memoria: Sanlorenzo, Barbi, Poggio di Sotto, Podere Soccorso. Un sorriso, uno sguardo. Tanta gentilezza ricevuta: assai più del dovuto. A poco a poco emergeva il senso del viaggio. Passavano i pellegrini in antico per Montalcino, transitando sulla Francigena. Oggi è la mia meta, ma ci vado con ugual spirito pellegrino di anno in anno nei giorni  segreti dell’inverno, quando esso pare sussultare per scrollarsi di dosso il sonno e come crisalide prendere il volo colorato della primavera. È la clessidra del mio tempo interno, che a intervalli regolari inverto perchè la sabbia ricominci a scorrere, misurando ogni volta i cambiamenti fuori e dentro di me. Ecco il senso di venire fin quassù ad assaggiare vini che potrebbero esser portati loro in una più comoda ed asettica struttura fieristica: capire davvero quei  Rosso e Brunello, le loro ragioni, significa aprire un dialogo  con il mondo che li ha generati e trovare uno spazio interiore per conversare con se stessi. “Conosci te stesso” stava scritto sul Partenone, ma non è mai un processo indolore: c’è sotteso un rito di morte e rinascita che bisogna accettare. Oltre i paesaggi vibranti, nei riflessi di quei Rosso e Brunello le persone che si perdono e che si trovano; i dialoghi intimi e segreti che giungono come regali, un po’ balsami e un po’ veleni; su tutto, i volti delle Madonne col Bambino del Museo, sorpresi nei loro fondi oro, immobili in un abbraccio eterno: uno sguardo amoroso ed una tenera carezza che di quella rinascita sono il senso più profondo, l’unico.

image

Thelema Merlot Stellenbosch 2012, Thelema Mountains Vineyard, 14,5 gradi.

Povero Merlot! Così caduto in basso nelle preferenze degli enofili che io ho finito per pigliarlo in simpatia. Pensare che negli anni ‘90 la moda era tutta dalla sua: certe tipologie di Merlot ( mi veniva da dire “modelli”) erano l’equivalente enologico di una costosa ammiraglia tedesca: sofisticata,  tecnologica, perfetta e coi sedili in pelle. Ecco: quei Merlot ricercati e costosi erano un po’ così, sedili in pelle compresi, per quel certo tocco sensualmente morbido e quegli aromi inconfondibili di barrique nuove.
Acqua sotto i ponti ne è passata e credo sia giusto inquadrare il Merlot in una sua identità individuale, senza troppi preconcetti. Allora: il merlot scritto minuscolo e pertanto inteso come uva ha tante doti, non ultima la capacità di adattarsi a terreni umidi e freddi e ad esposizioni ombreggiate: dici nulla. Il vino, il Merlot con la “M” maiuscola, se usato con giudizio si accomoda a comprimario in uvaggi  a smorzare vantaggiosamente altri più bizzosi e nerboruti compagni (tradizionalmente il Cabernet, ma anche con certi Sangiovese il matrimonio è felice), e tuttavia se la cava bene anche da solo. Quando gli si lascia campo libero sa giocare ottime carte, se il territorio e la mano dell’uomo gli sono propizie: robustezza alcolica, struttura soddisfacente, pienezza unita a delicatezza; talvolta rusticità o all’opposto piacioneria, entrambe da dosare con attenzione perché l’eccesso è dietro l’angolo. Nelle migliori espressioni, una grande eleganza. Trasformista? Perché no, magari semplicemente adattabile. Stenta forse in complessità e magia, per le quali bisogna cercare davvero il vino raro ed eccelso, mentre vini di altre varietà, pur con tutti i loro difetti, queste doti mi sembrano averle più a portata di mano. Prendiamo allora, amico o amica che mi leggi, questo Merlot Sudafricano, che è esemplare. Bada: nasce dal territorio felice di Stellenbosh, da 300 a 600 metri sul livello del mare, un panorama di vaga ascendenza dolomitica, non fosse per una luminosità più mediterranea diremmo che marina: e quella luce, io credo, tutta la si sente in questo vino, che è rubino trasparente con i bordi già granati ( vista l’età, un po’ una sorpresa) , e lacrime fittissime e lente, sulle prime una successione regolare e appuntita come una collana d’osso. Profumo intenso, diretto, nitido, senza fronzoli ma nemmeno tante sfumature, di piacevolezza garantita, dove io ritrovo appunto quella luce così tersa: frutta rossa, fragole e marmellata di prugne diremmo; un tocco balsamico di foglie di eucalipto;  il tocco del legno nuovo. Magari, se mi concentro, vi trovo un po’ di chiodo di garofano e di farmyard che ricorda il Pinotage (l’uva rossa autoctona del Sud Africa) che sono note originali lì a smaltire ogni sospetto di armonia scolastica. Sorso pieno , secco ma con centro bocca dolce; tannino di media grana e di incisività giusto appena sopra la media, sapore di concentrato dove la frutta rossa si affianca a ricordi di frutta nera (more, mirtilli) e di erbe aromatiche amaricanti come la ruta; caldo per l’alcol (che da scheda tecnica sfiora i 15 gradi, ed è io credo un altro effetto della straordinaria luminosità di quei luoghi),  ma comunque supportato da un’acidità piuttosto alta e non del tutto integrata a mio vedere; un finale persistente quanto basta a soddisfare appieno, semmai un po’ giocato su note di torrefazione.
E allora? Allora questo è un Merlot del Nuovo Mondo che recita coscenziosamente il suo ruolo, accompagnando la tavola all’insegna della piacevolezza, stupendo con qualche piccolo trucco come fanno certi prestigiatori alle cene aziendali o ai matrimoni ; che si sa sposare bene a molti piatti senza tanta concettosità: sulla pasta al sugo di carne, su una minestra di cicerchie, su una braciola di maiale o sulle costine sono sicuro che non te ne pentirai. A me stasera è stato bene anche sui ceci piccini delle crete senesi: avessi avuto anche uno zampino bollito!
Ecco la dote del Merlot: garantirti un piacere spensierato e senza troppi pensieri, conviviale. Nelle difficoltà della vita, non è poco. Poi taluni, come detto, sanno anche emozionare e ammaliare – ma è una grazia riservata a pochi.

Bonnezaux 2012 Chateau La Variere, J. Beaujeau,11 gradi

image

Si parla talvolta dei vini della Valle della Loira, generalizzando: risulta comodo riferirsi ad un distretto vinicolo caratterizzato dallo svolgersi di un lungo fiume. Il concetto tuttavia rimane un’entità astratta, tanti sono i diversi territori che il fiume incontra e percorre nel suo lungo cammino, quattrocento e passa chilometri da Puilly giù giù scorrendo verso l’occaso fino a Nantes e l’Altantico. Terreni, esposizioni, microclimi, uve: tutti questi aspetti combinati dalla mano dell’uomo secondo la propria tradizione e il sentimento germogliano vini tra loro diversissimi: bianchi, rossi, rosati, fermi e mossi, secchi e dolci. Eppure un filo conduttore tra loro si più trovare e lo chiamerei eleganza: lo descriveresti magari impiegando – amico, amica che mi leggi-  parametri organolettici quali l’acidità o il corpo, ma ne mancheresti l’essenza, che forse è nella trasparenza dei cieli, dove i nembi si raccolgono come riccioli di serafini; forse nel loro dialogo muto con le onde del fiume; forse in un’intima matrice culturale, la stessa che ha dato vita a decine di castelli che paiono più di cristallo che di pietra, con le loro torri snelle, svettanti, appuntite; la stessa che accolse Leonardo da Vinci quasi reietto in patria e qui accolto con onori da sovrano e amore filiale da Francesco I Re di Francia. Chissà quali erano allora i vini sulle mense notabili e se assomigliavano a questo Bonnezeaux? L’antica gloria dei vini dell’Anjou, ed in particolare da quelli della Coteaux du Layon, sta proprio in quelli dolci da uva chenin blanc, secoli addietro ancor più apprezzati di quanto non lo siano oggi. Bonnezeaux è una appellatiòn piccolissima,  solo 90 ettari, praticamente un “cru”: per darti un’idea, amico o amica che mi leggi, una piccola DOC italiana come la lucchese Montecarlo conta circa 300 ettari. Però in quell’angoletto di Francia esistono condizioni speciali: terreni fortemente pendenti e rivolti a sud, con notevoli escursioni termiche e suoli superficiali di arenarie, scisti, quarzi. La Loira è lontana, il suo influsso nullo o marginale; in compenso c’è il fiume Layon che forma un’ampia ansa e l’autunno fa risalire nebbie mattutine. Ne risultano uve capaci di potenti maturazioni in un clima che permette l’appassimento sulla pianta e spesso la formazione della muffa nobile: quella Botrytis Cinerea che dona ai vini aromi tanto ricercati e particolari, alte concentrazioni zuccherine e tessiture oleose, vellutate. Mi chiederai: “è vera gloria quella di quei pochi ettari? ” . Per apprezzare il valore del territorio intorno a Bonnezaux mi c’è voluto l’incontro fortuito con questa bottiglia in un supermercato sulle Alpi Francesi: perché un 2012, ad ascoltare un decano tra gli assaggiatori britannici, Hugh Johnson, sarebbe da evitare a tutti i costi, stante la cattiva annata. Sia pure: se questo esprime Bonnezaux in un millesimo sfortunato, allora ne capisco la fama. Perché è difficile resistergli anche solo sostenedo lo sguardo di fronte a quel color d’ambra con splendidi riflessi, mentre viscoso forma un velo uniforme che si ritira lentamente, accennando lacrime sul calice. Avvicinalo a te, di profumo ti avvolge, intenso, combinando la freschezza dello Chenin Blanc con gli aromi tipici della muffa nobile ed un principio di quelli dell’invecchiamento: avrai allora la marmellata di albicocche, la pesca sciroppata, ma anche il bergamotto e il chinotto, la buccia d’arancia caramellata, la crema ed il caramello stesso. Soprattutto, sorprendente, una quantità incredibile di zafferano, piacevolissimo, ricco e un po’ pungente. In bocca è forse ancora più espressivo: molto dolce, certo, ma insieme è caldo, vellutato e scattante. Poi, sul finire, abbandona la scena con grazia, quasi svanisse con un eco, come quei grandi attori che pur lasciato il palcoscenico sembrano ancora farne vibrare le assi della loro presenza. Potresti forse volerlo più complesso ed intenso, ma lì è la misura, io credo, tra la grande e la piccola annata. Trova il suo posto in tavola, come d’uso e tradizione, con il foie gras, i formaggi erborinati e lo tenterei pure su una crostata d’albicocche, purché ricca e burrosa. Tuttavia per me è stato compagno prezioso di brindisi al sole, nell’aria fresca di verdi prati montani: la sua perfezione è quella. Oppure per una meditazione più intima, le sere d’estate.

Trispol 2012, Mallorca Vin de la terra, Mesquida Mora, 14 gradi.

Di solito, non è che io badi molto allo stile dell’etichetta: se proprio, mi garbano quelle più semplici e vecchio stampo, magari col podere disegnato in bianco e nero, o con qualche scritta in caratteri  grafici fuori moda. Quella del Trispol, però, ha attratto la mia attenzione: geometrica e a suo modo essenziale, ma quasi ipnotica, con la sua ripetizione infinita e regolare di un insieme di elementi di base fissi, quelli che in certi ambiti scientifici  o artistici sono detti pattern. Il risultato è quasi l’immagine di un decoro moresco, che sa di un Mediterraneo esotico e fiabesco, orientaleggiante. Si unisca la curiosità di assaggiare un rosso isolano di Maiorca, con uve coltivate secondo i principi della biodinamica e il gioco è fatto: ecco che l’acquisto. Quando poi cavo il tappo Diam (dice -amico, amica che mi leggi- che questo sughero trattato non abbia i difetti di quello tradizionale: sarà vero?) lo trovo rubino concentratissimo, con riflessi ancora purpurei. È un vino che svela consistenza anche solo alla vista: basta ruotarlo nel calice, basta vedere le gocciole che vi scendono lente e molto fitte. L’aroma che vi ritrovi rispetta le attese: assai intenso e concentrato,  con ricordi floreali ma con frutta nera in evidenza, mirtillo e bacche di ginepro nitidi, solari come tutto l’impianto olfattivo: non conosce i segreti della macchia più fitta e profonda, ma gli spazi ariosi degli arbusti bassi esposti al vento del Mediterraneo, che porta con sè il profumo del timo, dell’origano, dei pistacchi, dei corbezzoli e delle olive dai campi, i ricordi di tabacco e di sangue dalle taverne e dai mercati popolari. Sotto traccia, ma percettibili, grafite e pepe donano eleganza. Vedi? Magari da un vino isolano non te lo aspetti, ma al sorso è flessibile, femmineo, pur se ha ampie rotondità che fan leva sul piacere del senso. Il suo tannino è sì abbondante, però dolce e maturo, e l’acidità inaspettatamente alta, ma entrambi si sposano in un corpo ricco ed armonioso, in una sensazione intensa e vellutata dove spiccano i sapori dell’uva sultanina (ah, ecco i ricordi d’oriente) e di tabacco. Seppur morbido, ha un passo deciso e disteso, che si allunga notevolmente sul palato, con un buon bilanciamento tra freschezza e calore. Questo uvaggio di  cabernet, syrah e della locale  mallet (la quale in purezza origina vini poco alcolici, compagni della tavola, profumati di violetta e minerali), che affina in barrique francesi di primo e secondo passaggio e americane nuove, nella sua originalità sensuale può far pensare a una donna di Maiorca fiera, orgogliosa. Però, amico o amica che mi leggi, te lo dico proprio sotto voce: mi viene da immaginare – tanto è ben confezionato- che quella donna l’abbiano vestita di tutto punto per una serata di gala dove lei si annoi molto e che non vorrebbe altro che levarsi quei panni eleganti per arrampicarsi sugli scogli della sua isola e tuffarsi libera nel mare. Anche il vino, per sedurre davvero, vuole i suoi adorabili difetti.

Cahors 2012, Clos La Coutale, 13,5 gradi.

Cahors fa parte, io credo, di quelle denominazioni francesi un po’ appannate, famose più per il retaggio di una storia lontana che per un’effettiva conoscenza, perlomeno al di fuor dei patri confini. D’altronde questa denominazione, parte di quella amplissima regione vinicola che viene rubricata sbrigativamente il Sud-ovest, ha sempre subito più che la concorrenza, la dittatura di Bordeaux, areale posto poco più a nord e a ridosso di fiumi e di mare: accesso al commercio più facile e perciò prodotti privilegiati dai mercanti e dagli investitori. Non è poco: il vino di Cahors, stimato già nel Medioevo per la longevità derivante da una carica tannica ed antocianica che lo rendeva nero e davvero godibile dopo molti anni, finiva al palato più moderno per risultare rustico: e forse lo era, se i mancati commerci non favorivano gli studi sul campo ed il rinnovamento virtuoso in cantina. Certo che acqua sotto i ponti (e vino nelle botti…) ne è passata: il Malbec localmente ampiamente usato -e chiamato cot- rimane quasi come curiosità a Bordeaux (dove un tempo era più diffuso), mentre è diventato il vino-vitigno simbolo dell’Argentina. A Cahors però non si è rimasti a guardare: se qualcuno insiste con i robusti vini tradizionali e perciò merita un plauso, altri hanno ricercato una certa freschezza, a rischio però di  appiattirsi sui modelli diretti e fruttati che vengono dal Nuovo Mondo – o di generare brutte copie dei vini di Bordeaux, a dispetto di un clima anche più favorevole: più stabile e temperato com’è da influssi che giungono addirittura dal Mediterraneo.
Questo di Clos La Coutale – a dispetto della bella  etichetta d’antan – è un buon compromesso con le tendenze moderniste, anche grazie ad un 20 % di Merlot che ammansisce l’ intransigenza del cot. Rubino al colore, assai e piacevolmente luminoso, di pregevole trasparenza, purpureo sui bordi e con lacrime fitte e regolari, ha un aroma molto intenso di frutta rossa, con una certa preminenza di fragola candita e ciliegia che fa quasi pensare ad una macerazione semi carbonica delle uve, che tuttavia non è esplicitamente dichiarata. Però – e questo è più interessante – la frutta rossa non te la butta sul muso, con l’ovvietà di tanti vini del Nuovo Mondo o anche – perché no- di parecchi Beaujolais, ma è finemente contrappuntata da una trina speziata e minerale che frappone una distanza che sa di riserbo, ritrosia, fascino, seduzione, come uno sguardo che saetta ma repentino sfugge: e dunque alloro, polvere pirica, cannella, noce moscata, chiodo di garofano, eucalipto, rosmarino, ricordi di pelle conciata. Di corpo misurato in bocca, ma saporito, ha un tannino ben presente ma garbato, piacevolmente terroso, forse un po’ verde. La sua acidità si colloca nella fascia media della banda, o poco più, mentre la lunghezza regala una certa compiaciuta soddisfazione, come l’allungarsi di una gatta su un divano. Certamente, ha un carattere nordico: rassomiglia ad una di quelle giornate soleggiate di fine febbraio, quando la campagna già riluce di verde e si profuma, ma l’aria è ancora quella fredda dell’inverno. Un vino buono insomma ( anche grazie ad una resa limitata a 45 quintali per ettaro, meno della metà di quanto previsto dai disciplinari di tante DOC italiane), non banale, di quelli che regalano una piacevole compagnia ed un dialogo garbato sulla tavola,  tutti i giorni se con lui tu stai bene. Ti piacerà anche il prezzo: credo intorno ai 6 euro al privato in cantina. Lancio la mia moneta: vorrei provarlo con un bell’umido: di pollo, di coniglio, di maiale, persino con braciole alla pizzaiola o osando salsicce e fagioli. Però: conoscessi forse bene Cahors e i suoi vini classici e antichi, sapessi quel che può dare la terra, forse non mi saprei accontentare e griderei magari persino allo scandalo. Beata ignoranza: mi sta bene così.

Saint-Estèphe 2012, Chateau Ormes de Pez. 13 gradi

Parlare dei vini di Bordeaux è come entrare nel mondo dell’alta aristocrazia: ci sono gli Chateau fissati dalla classificazione del 1855, praticamente immutabile, i 58 che producevano vini rossi e i 21 che producevano vini bianchi, il circolo chiuso della nobiltà. Bordeaux ha avuto però anche i suoi rivoluzionari: quegli Chateau che nel 1932, dopo 77 anni di immobilismo, si dichiararono Crus Bourgeois per elevarsi dalla massa dei non classificati: la rivincita della la plebe. In realtà la storia non è così lineare e a raccontarla tutta sarebbe più lunga e complessa della trama di un Grand Operà in 5 atti, tali e tanti i ribaltamenti e le vicissitudini. Quando la classificazione dei Cru Bourgeois venne rinnovata nel 2003, nove di essi vennero classificati come Exceptionnel: tra questi, c’era Chateau Ormes des Pez; e il fatto rimane, benché poi la lista sia stata annullata a suon di battaglie legali. Caso vuole ch’io ne trovi ed acquisti una bottiglia di 2012 a prezzo assai ridotto, a causa dell’etichetta rovinata. Si dice che i vini di Chateau Ormes des Pez diano il loro meglio dopo 6 o 7 anni dalla vendemmia, ma per una volta non so resistere, tanta è la curiosità di incontrarlo: ed in parte è un peccato, davvero l’ho aperto troppo presto. Al di là della sua tinta rubino profonda e giovanile, con intensità olfattiva dispiega la complessità dei profumi tipici dei vini del Medoc: frutta nera (mirtillo e more), poi un tocco di quella rossa (lamponi,susine e fragole), ricordi vegetali di foglia di cavolo, tanta grafite e cera d’api, la vaniglia e le note affumicate: legno, tabacco e pelle, ma lontani, non troppo marcati (vengono impiegate barrique in buona parte usate per il suo affinamento). Al palato è più incisivo che delicato: concentrato, rimane tuttavia fresco in maniera sorprendente, grazie ad un’acidità marcata benché nascosta da tanto estratto, bilanciando un tannino abbondantissimo che ne segna l’attacco. Prosegue salmastro al centro bocca, per finire su una persistenza lunga e ben bilanciata, senza eccessi alcolici,  che riespone i toni fruttati e affumicati.  È che Chateau Ormes des Pez ha caratteristiche peculiari e facilmente riconoscibili: in lui parla il territorio di Saint- Esthepe, che si trova più a nord di Margoux e Saint-Julien e rispetto ad essi ha un clima più freddo ed un suolo più ricco d’argilla, portando a privilegiare quote non marginali di Merlot nel taglio e originando vini potenti ma abbordabili, seppur con tannini cocciuti e terrosi. Il vino di Chateau Ormes des Pez ne risulta elegante come può esserlo un gentiluomo di campagna: più cordiale che suadente col suo tannino rustico, a un tempo orgoglioso e domestico; indubbiamente nordico ma non algido, perché terragno. Ecco, la terra: quella che conta più di qualunque classificazione, l’imprescindibile costante dove l’uomo deve affondare le sue mani. Gastronomico e flessibile negli abbinamenti, sarà su una tavola imbandita che ne apprezzerai la sua robusta prosa, preferendola ad altezze verticali di poesia.

Porta 6 2012, Vinho Regional Lisboa, Vidigal, 13,5 gradi.

Che fosse un vino simpatico, si capiva già dell’etichetta buffa e colorata. Si sa però che l’apparenza inganna e “non bisogna bere l’etichetta”, avvertono gli esperti. Però, estratto il tappo di sughero intero, un vino così chi se lo aspettava? Accidenti il Portogallo! Guardalo qui, rubino a tre anni dalla vendemmia con ancora qualche riflesso purpureo, fitto ma non impenetrabile, con lacrime ravvicinate e veloci che scorrono viscose e golose. Perché certo tanti di noi che amiamo il vino associamo il Portogallo al Porto – vino dolce- per equazione matematica inevitabile. Ma questo rosso secco e non fortificato (come  invece il Porto), che ti invita a bere con uno spruzzo di aromi sul viso di frutta matura e carnosa rossa e nera,  quasi anche sul limitare dell’appassimento, un po’ non lo ricorda? Con quel suo insieme di mirtilli, di lamponi e di prugne, evidentissimi epperò contrappuntati dallo stuzzicante timo, da un tocco di chiodo di garofano, da tracce di polvere di caffè ed un finale più fresco di mele rosse e menta, evoca proprio il cugino dolce del Douro; perché le varietà d’uva sono poi quelle: metà tinta roriz (ovvero il tempranillo), castelao per un 40% e touriga national per il resto: la prima per la finezza, le altre due per la concentrazione e la forza. Secco sì, ma ma con un evidente residuo zuccherino, che non ci sta male, perché il finale ha una punta di acidità che stuzzica e non guasta (e non mi importa, in questo caso, valutare se sia tutta autentica). Perché ciò che conta è che sia un vino allegro, gioviale, col quale passare svagati una bella serata, senza pensieri: con  sue le note fruttate in evidenza anche al palato, ma pure con un’abbondanza di tannini maturi ed una condotta da un lato corposa e cremosa, dall’altro mobile e brillante, quasi ballasse una danza tradizionale come il corridinho; un vino per dimenticare la tristezza e le preoccupazioni. Ha un taglio un po’ moderno? Forse, ma che c’è di male se riesce anche a raccontarti, senza infingimenti e filtri, la sua provenienza? E senza far la voce grossa o parlar strano saprà accompagnarti nel pasto, amico o amica che mi leggi, peraltro con un costo contenuto, il che non guasta mai. Per me si è sposato, sorridente e flessibile, ad una minestra antica di farro e fagioli dell’occhio.

Il giorno, a Benvenuto Brunello 2015

image

L’alba.

La mattina e’ piovosa e umida, fredda; le mura massicce del Castello di Saltemnano si ergono fra la foschia che ingolfa desolata la valle dell’Arbia, la coltre grigia delle nuvole in cielo. Lontano, remota e quasi un punto, Montalcino con le sue torri che si stagliano su uno squarcio più luminoso d’orizzonte: la nostra meta. Che differenza rispetto all’anno passato, quando l’inverno già si discioglieva all’abbraccio tiepido della primavera e si aprivano al sole i germogli. Sarà per questo che una malinconia sottile mi prende, come un lieve disagio? O sarà forse la preoccupazione del confronto con quello scorso Benvenuto Brunello, il mio primo, e le sue emozioni? Magari è solo un poco di quel disincanto che si prova addentrandosi nella conoscenza: quel pizzico di magia che va inevitabilmente perduta. Sono pensieri però che si scacciano in fretta, tanta e’ la voglia di tornare su quel colle, di respirarne l’aria pura, di vederne le vie e con voli rapaci dello sguardo abbracciarne i paesaggi solenni a volo; e stringere le mani di quella gente. La strada sale dal fondovalle poco oltre Buonconvento, annodandosi su se stessa come le spire di un serpente: curva dopo curva, cantina dopo cantina, vigneto dopo vigneto. Per molti solo asfalto, automobili, traffico; per me percorso iniziatico, esercizio dell’animo: Benvenuto Brunello non è semplicemente la presentazione di nuove annate, l’assaggio di grandi vini;  per me è soprattutto calarsi in una realtà diversa, in un altro sentimento del tempo; e’ interrogarsi sulle ragioni della terra, sul seme che mi ha generato; e’ domandare al sangiovese di svelarmi i suoi segreti, intessendo con lui un dialogo muto, concentrandomi allo spasimo per intercettarne le vibrazioni più intime. Perché il sangiovese e’ come una gran dama: sempre un po’ sfuggente; e sotto la coltre dell’immediatezza vela spesso una complessità straordinaria. È come uno specchio che riflette sempre qualcosa della sua zolla, di chi l’ha coltivato e vinificato, persino di chi lo beve. Ecco: quest’anno vorrei tracciarne per me i confini, quel ritratto che ho ancora incompleto.

La mattina.

Si giunge a Montalcino che è mattina presto, le valige nei confortevoli silenzi ariosi di Palazzo Saloni; si camminano in fretta le vie profumate di pane appena sfornato, buono; si rivedono i selciati conosciuti, i canti, le insegne, i tetti, mentre la gente principia le attività quotidiane; con la sensazione felice di sentirsi in una casa ritrovata. Ecco l’ingresso sotto l’arco di pietra, l’abbraccio affettuoso con Luciano Ciolfi, al quale devo l’invito e la visita nel giardino del Brunello. Quest’anno si accede alla manifestazione dalla parte del museo, con la suggestione delle arcate possenti, delle teche che vegliano tesori nella penombra; si ha il chiostro bellissimo li’ da vivere e le sale appena ridipinte, di candida bellezza. Peccato solo l’odore della vernice fresca, per me fastidioso, ma onestamente nessuno mi pare se ne lamenti, sicche’ sarà il mio naso. C’è tanta gente e l’atmosfera della festa, perché la tanto attesa annata 2010 e’ di scena. Il mio disagio in parte si svela: quanti entusiastici giudizi ho letto anticipatamente su questa annata e quanti invece ruvidamente contrari alla 2009, spesso superficiali e irrispettosi del lavoro e della fatica di quella gente che suda allo stesso modo da un anno all’altro, anzi di più in quelli meno felici.  Sicuro, la  2010 e’ molto buona, però ancora una volta sono le differenze tra un vino e l’altro che più mi affascinano: di stile, di mano e di territorio, ciascuna a formare una piccola tessera del mosaico del Sangiovese di Montalcino, esprimendone le singole individualità. Ha detto bene un assaggiatore notissimo: “non c’è il Brunello 2010, ma cento Brunello 2010” . Che posso aggiungere a quanto scritto da tanti piu’ esperti di me? Eppure mi voglio provare. Contando che ho assaggiato in piedi ai banchetti dei produttori, quindi con tutte le approssimazioni del caso, mi pare un’annata luminosa, solare, di forza e di equilibrio, che a mio parere ha originato molti vini di traboccante energia, sicuramente godibili fin d’ora ma che in alcuni casi – forse quelli migliori- richiederanno anni di bottiglia per assestarsi appieno e ricomporsi in una grazia superiore; giocando poi un tiro mancino da una parte ad alcuni Brunello Riserva 2009, verso i quali lo stacco mi è sembrato a volte minimo e talvolta a vantaggio del vino d’annata. Quanto ai Rossi di Montalcino 2013, sono sempre freschi, piacevoli e benfatti, ma direi con una profondità e continuità qualitativa un po’ inferiore rispetto ai 2012 assaggiati lo scorso anno. Paradossalmente l’annata 2013, per così dire classica, ha ancor più  differenziato chi interpreta il Rosso come un  Brunello adolescente e chi semplicemente come un buon vino da pasto.

Il mezzodì e il meriggiare.

Che piacere assaggiare con Luciano, lui che in vigna e in cantina si sporca le mani e vi trova l’orgoglio e la pena. Che piacere assaggiare e confrontarsi con Stefano Paparelli, finissimo palato, che sa riassumere il senso di un vino in una battuta. Che piacere poter legare un assaggio alla chiacchiera col produttore sull’annata, sulla vinificazione, sul suo terreno, e scoprirne le interrelazioni nel calice. Talvolta nemmeno quello serve: basta un gesto, uno sguardo soltanto e dalla persona che hai davanti capisci tutto il vino. Oppure puoi chiudere gli occhi e concentrarti solo sul calice, senza preconcetti, simpatie e antipatie. Purché nel calice ci sia Brunello di Montalcino, quello che nelle sue mille differenti sfumature, buono o meno buono, mi picco di riconoscer come tale, che parla toscano con la voce del sangiovese. Perche’ un paio di vini che ho assaggiato – ottimi senz’altro – non parlano quella lingua: concentrati, fruttati, rifiniti secondo un gusto internazionale, mi pare che in essi la sapienza abbia la meglio sulla natura dell’uva e del territorio, perlomeno come io l’ho vagheggiata; sontuosi persino: ma io vorrei prenderti per mano, amico o amica che mi leggi,  e portarti li’ a due passi nelle sale del Museo di Montalcino, di fronte alle monumentali Madonne su fondo oro del Dugento Senese: nude e scabre forse, ma potentemente spirituali, di un rigore severo che a riguardarle si scioglie in una dolcezza senza tempo, un’idea di fede insieme mistica e laica, perché universale. Ecco, immagina che d’improvviso accanto v’appaia una pittura perfetta ma esteriore, barocca nel senso della sovrabbondanza cortigiana: così mi suona la lingua di quei due vini tanto internazionali. Perciò oggi che si presenta tra gli osanna l’annata 2010, le tante attenzioni estere nutrono la mia inquietudine e il mio disagio: temo una deriva e seppur io sappia per esperienza che il mercato e’ vita, fatico a scrollarmi di dosso quelle sensazioni.Saranno altri vini a riportarmi al sorriso, attraverso le ragioni della terra. Quelli dove sentirò una vibrazione che mi appartiene e che mi azzardo a ricondurre a queste zolle, a queste mani, a questa storia ilcinese. Di essi scriverò: di quelli che mi hanno trasmesso – come diceva un vecchio direttore d’orchestra – un tono vitale.

Per cominciare partendo in quarta, i vini di Sesti, con un Rosso di Montalcino 2013 elegante e molto fine, dal colore tenue e con toni un po’ verdi al palato, che però non mi dispiacciono: sono tocchi di freschezza. Anche il Brunello 2010  e’ molto fine, di grande struttura e di equilibrio già miracoloso, con una persistenza lunghissima ed una tessitura passante che è come un eloquio naturale, sciolto ed insieme profondo, da grande oratore: più ancora, il discorso di un leader. Il Brunello di Montalcino Riserva 2009 e’ anch’esso strutturato e lunghissimo, ma meno bilanciato nell’uso del legno e il suo parlare un po’ più impostato, meno energico. Tutti i vini di Sesti sono comunque luminosi ed al tempo stesso potentemente chiaroscurati, dinamici e ariosi, con la purezza di un cielo stellato. 

Passo subito dopo ai vini di Sanlorenzo, quelli di Luciano, per godermi appieno il gusto del contrasto con i precedenti: perché i suoi, lo so, son vini forti, potenti, materici, ma che mantengono sempre abbastanza freschezza e quel tocco appena un po’ ruvido per non stancare mai.  Vendemmia dopo vendemmia vanno acquistando focalizzazione e quella  rifinitura sottile che è attenzione al dettaglio, non preziosismo. Sorprende quasi il Rosso di Montalcino 2013, meno alcolico del solito, diverso, forse anche più godibile: magari al momento di Benvenuto Brunello ancora un po’ da farsi ( e’ in bottiglia da poco), ma si capisce benissimo che la sua e’ la struttura di un Rosso di categoria superiore. Il Brunello 2010: per me che l’ho assaggiato in più fasi della sua evoluzione e’ una conferma, ma che conferma!  Ha tutto quel che deve avere un grande vino: potenza e levita’, magari ancora un po’ da armonizzarsi direi, ma la stoffa e’ tutta lì, con una bocca che è già carezzevolissima ed un’alta acidita’ già ben integrata, col tannino potente e fine. Vino sempre più raffinato il suo Brunello, ma questo 2010 ha dentro un’energia speciale che scalpita e trabocca. Lo diresti un vino a trazione posteriore: quasi delicato e di stoffa dolce sulle prime al palato, poi vi si espande travolgente, spingendo forte sul gusto.

Su suggerimento di Luciano provo i vini dei suoi vicini di “banchetto”, San Giacomo, che non conosco, e questa è forse la sorpresa della giornata. Vini luminosi, puri, strutturati; magari in queste fasi giovanili un po’ lineari in termini di complessità aromatica, ma con una bellissima naturalezza sul palato, che invoglia a berne e a mettersi a tavola in loro compagnia, più che a degustarli. Vorrei proprio poterli riassaggiare con più calma e agio, approfondire il loro racconto, sfogliando la pagina delle annate e camminandone la terra. 

Li’ vicino c’è Salvioni ed il loro Brunello di Montalcino e’ spettacolare: bellissimo fin dalla tinta luminosa, e’ all’olfatto e al gusto che dispiega un carattere veramente in technicolor, perché ha già in se’ la giovinezza e la maturità perfettamente fuse,  coi frutti da una parte e dall’altra gli umori della pelle, degli anfratti segreti nel bosco. Non si smetterebbe mai di gustarlo tanto in bocca e’ lieve e forte, ben tannico e ben acido. Leggero, lungo, carezzevole, vien quasi da chiedersi se non sia il vino perfetto, ma è una domanda senza senso per chi ama il vino: la perfezione non è di questa terra e nel piacere contano di più le differenze e i distinguo che le asserzioni,  la ricerca  del contrasto e dell’individualità che l’inseguimento di perfezioni immutabili. E se tu che mi leggi non sei disposto ad amare, non seguirmi: non mi capirai. 

Proprio per amor di contrasto, se mi segui, ti porterei all’assaggio dei vini de Le Chiuse: ecco che alla colorata esuberanza si contrappone una misura classica, composta, quasi antica nel suo rigore. Sono vini lenti a mio vedere, nordici, che si concedono nel tempo, ma il Brunello 2010 ha fin d’ora una capacità comunicativa stupefacente, che dissimula ed alleggerisce una struttura enorme, di trascinante energia, però mai sopra le righe. Ritrovo in lui quelle sensazioni compatte di pietra che tanto mi affascinano, ma accompagnate da una pienezza di sapore rara: un’architettura ravvivata dalla poesia dell’arte. 

Altro produttore, altra terra, altro stile di Brunello: quello di Donatella Cinelli Colombini. Ne amo anzitutto il colore: trasparente, luminoso rubino, brillantissimo, ricco di riflessi cromatici. Il profumo e’ dolce, con sfumature di cipria, di fascino femmineo e persino civettuolo. Lieve al sorso, con un’acidità alta ma che stuzzica maliziosa e piace, di rifinitissima tessitura e piuttosto lungo. Sarà che la conduzione aziendale e’ al femminile o e’ solo la mia suggestione? Così garbato da risultarmi  leggermente impostato, e il mio gusto preferisce vini più ruvidi, ma più diretti. Vedi, tuttavia? Nella pratica conta il momento e la tavola: in certi giorni, con talune persone, a lui rivolgerei gioioso la mia scelta, privilegiandolo tra altri.

Non fermiamoci però: se cerchi il registro dell’eleganza c’è tanta varietà col Sangiovese di Montalcino. Mi accosto ai vini di Poggio Antico: qui l’eleganza si combina col rigore, la modernità della rifinitura si chiude ad avvolgere un anima di classico equilibrio. Stupisce che a strutture così monumentali e ad una persistenza  lunghissima, davvero fuori dal comune,  non manchi mai lo slancio e la freschezza: queste sono le stigmate di vigneti privilegiati in posizioni favorevolissime e di una mano notevole in cantina. Sono vini da condottieri dei tempi nostri questi: avanzano sicuri e a testa alta in un bel completo grigio, eleganti e formali, col passo dei vincenti ma senza strafare. 

Quanta differenza con i vini di Pian delle Querci: delicati, teneri, lirici. Cantina artigianale e familiare come poche, nella timidezza degli sguardi la favola stessa del vino. Un Brunello 2010 levigato e lieve, appena ancora un po’ marcato dal legno ma dagli aromi complessi e nitidi. Al palato ha struttura giusta, di grande equilibrio, più tannico che acido. Al gusto e’ pieno, ma in sottrazione; non conosce pesantezze, ha una dimensione cameristica. Se sai un po’ di musica mi capisci: qui non gli sforzati di Beethoven, ma i più aerei accenti mozartiani. Vedi il sangiovese? Quanta varietà.

Mi sposto verso Collelceto, altro produttore di dimensioni e spirito artigiano, i cui vini mai avevo assaggiato, e più che la musica mi evocano la pittura: il Brunello 2010 e’ una sorpresa, luminoso e scuro, saporito e stuzzicante all’olfatto, spinge forse appena un po’ nell’effluvio alcolico, ma in modo non spiacevole. Al sorso riluce la sua la sua bella struttura: acido, sapido e tannico, col tempo troverà ancor miglior fusione, io credo. Il Rosso 2013 e’ piacevole, corposo ma non pesante. 12.000 e 10.000 bottiglie, rispettivamente.

Di proposito seguo a questi i vini di Col d’Orcia. Azienda di grandi dimensioni, una tra le più estese di Montalcino: 250.000 bottiglie del Brunello 2010, 200.000 del Rosso 2013. Non assaggio questi vini da anni e li ritrovo quadrati, caldi, tradizionali, con un certo tocco fume’ che li accomuna. Però qui c’è anche il Brunello di Montalcino  Riserva “Poggio al Vento” 2007: 8.000 bottiglie da 5 ettari, ed è un’altra storia: la zampata del leone. Vino potentissimo, una vera forza della natura: il sangiovese che si alza orgoglioso, indossa una corazza e leva un inno di guerra; si’ perché questo è un Brunello che disdegna mollezze: non ha il corpo ampio e bolso dei vini di stampo internazionale, ma la schiena dritta, con la forza strutturale e senza belletti del sangiovese autentico. Anche questo è un vino da condottieri, ma all’antica, con l’elmo e l’alabarda.  

Mi viene l’istinto di accostare a questi i vini di Fattoria dei Barbi: altra azienda di dimensioni rilevanti nel panorama ilcinese, col Brunello 2010 che si attesta intorno alla 200.000 bottiglie, non uno scherzo. Vini di impronta felicissimamente tradizionale, hanno quella capacità di emozionare che spesso sfugge quando i numeri crescono, grazie ad una cura superiore ed al coraggio di non piegarsi a mode e gusti altrui. Tra i Brunello annata preferisco solitamente quello con la leggendaria etichetta blu, che ovviamente e’ buono anche quest’anno, ma per una volta è stato il Brunello “Vigna del Fiore” a colpirmi maggiormente: direi che ha una marcia in più in termini di struttura ed una fusione, un amalgama, una pienezza – in altre parole, una centratura- che ne fa uno di quei vini di classe signorile che si allungano sul palato e irradiando lo avvolgono pulendolo, con una sensazione di piacere tattile che permane non solo alla bocca, ma più ancora nella memoria. 

Dai Barbi al prossimo assaggio il filo e’ sottile, come la strada meravigliosa porta giù a Castelnuovo dell’Abate curva dopo curva, costeggiando Sant’Antimo dall’alto. Un fatto di cuore e di persone, in parte segreto, che non sarò io a svelare. Ci viene versato nei calici il Brunello 2010, trasparente nel suo colore granato carico ed evoluto, persino ammattonato, che si ama o si odia. Per alcuni sono vini arcaici; per me il loro aroma e’  poesia che si libra nel cielo, il sorso e’  complesso e impalpabile. Esclama Stefano Paparelli: “E poi c’è Poggio di Sotto!”: la definizione è perfetta, non occorre aggiungere altro. Non ho la conoscenza adeguata per azzardare il paragone con altre annate di Poggio di Sotto, ma per me Brunello 2010 e Rosso 2012 (uscita ritardata) sono semplicemente signori vini. Il Brunello 2010, insieme potente e leggiadro come il velo trasparente di una dea, per me indimenticabile.

Se parlo di vini del cuore, può mancare Tiezzi? Il Brunello proveniente dal Poggio Cerrino e quello della Vigna Soccorso sono due interpretazioni, classiche, ispirate, rigorose di Sangiovese, ognuna bella della nudità del suo territorio. Vini che se ne hai un po’ di dimestichezza puoi seguirli nel loro cambiare, preferendo a volte l’uno, a volte l’altro. Il Brunello Poggio Cerrino 2010 e’ fruttato, ha un aroma in questa fase assai giovanile con aldeidi in piacevole evidenza, un attacco alla bocca dolce e amichevole, con una tessitura piacevolmente ruvida, artigiana. È salato nel dispiegarsi al sorso, strutturato e assai lungo. Il Brunello Vigna Soccorso 2010! Lo ritrovo il vino di questa zolla benedetta come lo ricordo: un raggio di luce dal cielo. In questa annata e’ dotato di una materia particolarmente ricca che sembra agitarsi ancora scomposta, dando origine a piccole imperfezioni e sbandamenti che sono, a mio avviso, solo il segnale  di una potenza compressa. Il tempo sarà galantuomo: perché qui c’è gran struttura di tannino, corpo, acidita’, ed una lunghezza quasi infinita, pura, che commuove. 

Con i vini de “Il Paradiso di Manfredi” siamo sempre nei territori dell’artigianalita’, qui anzi piuttosto spinta. Sono vini a volte umorali, scontrosi, difficili da capire. Ecco, quest’anno ne sono rimasto affascinato e incerto, attratto ma non del tutto persuaso. Il Rosso 2013 mi è sembrato, come dire, un po’ verde, ma subito dopo questa prima impressione ecco farsi largo fiori e frutta: tanti fiori, ed erbe con aromi puri quasi portati da una brezza al sole d’inverno. Di contro, il sorso ha i toni caldi dell’arancia e delle carrube, la velatura della castagna. Anche il Brunello 2010 e’ rimasto un po’ enigmatico: da un lato  ha un fascino carnale e terroso, dall’altro un fin troppo insistito odore di farmyard (come lo chiamano gli inglesi con elegantissima voce). Eppure sono vini di percepibile vibrazione autentica, che non lasciano indifferenti, ai quali vorrei tornare con più calma e tra qualche mese o anno, aspettando che il tempo abbia compiuto la sua opera. 

Proseguendo su vini un rimastimi un po’ enigmatici, ecco Le Macioche: il Brunello 2010 ha gran struttura, con maggior rilievo tannico che acido; e’ un po’ eccentrico all’olfatto con un che di mentolato, però è affascinante; ecco altro vino che magari si gioverà del tempo e di un po’ di assestamento. Di contro, il Rosso di Montalcino 2013 de Le Macioche mi pare uno dei campioni della categoria: di grande equilibrio, pulizia, intensità e tannini potenti.

Carte inverse da Lambardi, un produttore che amo per il respiro classico  e artigiano dei suoi vini: del Rosso di Montalcino 2013 apprezzo il naso sfaccettato, sottile, e la carica tannica; ma il Brunello 2010 e’ tutta un’altra musica, perché se ammalia fin dal colore rosso rubino vivissimo, conquista per la fusione perfetta dei suoi aromi nitidi, insieme giovanilmente fruttati e più evoluti, terziari, di terra e solvente. Elegantissimo e profondo, e’ col suo bacio che ti fa innamorare: una stoffa bellissima che si distende longilinea e salata, piena di gusto e lunghissima, una struttura importante e molto tannica che forse ancora deve raggiungere il suo zenith, ma che è già luminosa. È la vittoria di un classico equilibrio: perché con tutta la sua forza e la sua intensità mantiene un’armonia composta, una netta misura; quasi che a segnarne i confini fosse il tratto ispirato di un pittore che disegni una Primavera o una Nascita di Venere, nella loro apparente semplicità. 

Altra voce che amo: quella di Fattoi. E dico voce – amico, amica mia – perché questi vini hanno sempre un tono caldo, appassionato, baritonale, o da violoncello; che canta con uno spirito antico, d’altri tempi. Ricordo mia nonna aveva una vecchia radio Magnadyne degli anni Trenta da pavimento, un mobile a colonna di legno pesantissimo con un enorme altoparlante tondo alla base: magari il suono non era perfetto e immacolato come quello degli apparecchi moderni, ma ogni disco acquistava un vocione, un timbro particolare che sembrava risalire dalla terra stessa e andare dritto al cuore e più ancora alla pancia. Ecco, Rosso 2013 o Brunello di Montalcino 2010, così sono per me i vini di Fattoi: alla bocca magari un po’ rugosi ma travolgenti, con note scure e di bosco che promettono i misteri di una foresta incantata alla luce della luna, in una notte di mezza estate. 

Fornacina e’ un altro produttore dove mi pare di individuare un timbro comune tra Rosso e Brunello: una nota fume’ che li marca entrambi. Scambio due parole qui e là con i tanti esperti che affollano le sale, alcuni mi dicono che è dovuta ai legni d’affinamento, non tutti la gradiscono. A me invece non spiace: aggiunge un tocco personale ed una dimensione di profondità; soprattutto pero’ questo Rosso 2013 e questo Brunello 2010 se la possono permettere, tanta e’ la struttura che esprimono: di sicuro non ne restano coperti. Il Rosso ha profumi di intensità fruttata che sposano note più scure: le pelli conciate, la macchia; vino suggestivo, di grande fascino sensuale. Il Brunello 2010 e’ invitante, quasi spigliato per nel suo essere un po’ retro’; ritroviamo anche qui quelle note di pelli conciate, di affumicato, unite ai profumi primari della frutta, ed in più il ferro: il bilanciamento tonale – se così lo possiamo chiamare, e’ più serio e formale. A marcare veramente lo stacco, pero’, e’ il sorso: una bocca di forza, appena un po’ dolce e non del tutto ancora assestata, ma di grande acidita’ e con tannini maestosi. 

Le Potazzine: anche qui assaggiando Rosso 2013 e Brunello 2010 si potrebbe parlare di stile comune; ma è la mano dell’uomo o il territorio a parlare? Probabilmente entrambe e ancora una volta i vini de Le Potazzine mi paiono tra i più raffinati, piacevoli, precisi e compiuti tra quanti assaggiati della denominazione: dolci non per zucchero, ma per la loro trama, per come accarezzano il palato; immediati, senza un chiaroscuro particolarmente marcato in questa fase giovanile, ma con una grande struttura sotto, che soddisfa e promette: una lusinga di futuro. 

E la struttura non manca certo nei vini di Canalicchio di Sopra! Il Rosso 2013 e’ un vino molto bello, rotondo e al sorso ha un’intensità esplosiva. Pieno,equilibrato, forse il miglior Rosso di Montalcino della giornata. Magari, mi è sembrato leggermente esuberante di alcool, ma ha tanto tannino ed un’acidità nitida che gia’  lo bilanciano e probabilmente ne favoriranno l’equilibrio nei prossimi mesi. Il Brunello si comporta, giustamente, da fratello maggiore: e’ persino ancora più pieno, con tanta materia ed una trama tannica possente. Mi e’ parso che qualche sentore dei legni d’affinamento dovesse ancora amalgamarsi del tutto, ma con una struttura così eroica e’ solo questione di aspettare. 

Il Brunello 2010 di Pietroso e’ un altro vino di struttura imponente, rotondo, alcolico, la declinazione classica di un modello di Brunello potente, giocato sul filo di una virtuosa evoluzione, che non si piega alle mode e ad innaturali concentrazioni o mollezze. Un Brunello che non deve chiedere mai, ma con un’anima gentile, persino poetica. Nel Rosso 2013 il classicismo si manifesta invece con una veste giovanile, fruttata e ricca tuttavia di chiaroscuri. È un vino molto intenso, con una dolcezzadi stoffa e non zuccheri, piacevole, un gusto pieno su un corpo misurato, un’acidità fresca e robusta, ma delicata. Se qua e là manifesta piccole angolosità, tu lascia spazio alla sua maturità e le vedrai ricomposte. 

Passiamo ai  vini di Fuligni, ma siamo sempre nell’alveo della classicità; tu però  non la intendere come una codificazione rigida e magari un po’ monocorde, perché loro manifestano una personalità marcata. Prendi il Rosso 2013, ancora un campione da botte: giovanile e fruttato all’olfatto com’è lecito aspettarselo, ma alla bocca e’ già pieno, ricco, carezzevole, con un’alta acidita’ e una tannicita’ materica. Soprattutto e’ molto intenso, con un’alcolicità appena in evidenza, ma piacevole. Anche il Brunello di Montalcino 2010 e’ molto saporito, con abbondanza di frutta rossa; ma soprattutto e’ quasi pepato, mosso da un interno chiaroscuro che lo fa più profondo e come avvolto in una morbida pelle profumata.

Vedi? Se assaggi ora i vini di Tenuta di Sesta, difficile non dirli classici; eppure hanno un altro passo, un altro respiro. Intensi, eccome, ma diversi dai precedenti: più aerei, fini e quasi, mi verrebbe da dirti, di ispirazione borgognona. A cominciare dal Rosso 2013, rubino e molto vivido, floreale all’olfatto ed al palato succoso, dolce nell’attacco, pieno, strutturato ma con molta misura, per acconciarsi senza sforzo alle più vare occasioni ed alla tavola quotidiana. Una tavola di lusso tuttavia, lungo com’è; e con intriganti note di confettura e canditi che creano uno strato ulteriore sulla sua fresca intelaiatura. Ben altra struttura il Brunello 2010 ed ancor maggiore intensità ; al punto di risultare un po’ scomposto in questo istante giovanile al limitar dell’inverno, come un puledro di razza che scalpita e si impenna. Viene presentato anche il Brunello di Montalcino  Riserva 2009 ed è un assaggio molto istruttivo: sempre fine, persino soave, di struttura superiore  al pur maestoso Brunello 2010; ma se da una parte lo apprezzi perché più riposato e risolto, dall’altra noti – almeno: così è parso al mio palato- una nota finale amara, che pare il segno di una forzatura; o semplicemente, un indice di minore armonia interiore, che nemmeno il tempo del tutto slega. Ed eccola qua, per contrasto, la grandezza dell’annata 2010.

Per ultimo, ti voglio narrare degli assaggi al banchetto de Il Marroneto. Qui si firmano grandi vini di profilo classico, che ho assai apprezzato anche in passato. Tuttavia in questa annata 2010 la loro trasparenza espressiva lascia il segno: il lapis corre sul foglio degli appunti e ne rimarca la grande struttura; poi, quasi inaspettatamente, spuntano le parole: “vecchio stile”. Ecco, questo non l’avevo mai notato prima. La struttura potente del Brunello 2010 si stempera declinando la sua dote di frutto nella trama setosa di una controllata evoluzione, che l’arricchisce di screziature all’olfatto e alla beva. La dolcezza zuccherina e glicerica perde ogni mollezza e guadagna nerbo affondando nella tinta un po’ aranciata del vino. Queste caratteristiche si elevano al cubo nel raro Brunello di Montalcino Selezione Madonna delle Grazie 2010, un grande Sangiovese senza filtri e senza rete in solo 5986 bottiglie, per una struttura ancora maggiore, un frutto dolcissimo di grande intensità, con un’evidente richiamo di ciliegia sotto spirito. La sua trama, pero’ è fresca e aerea, fatata. E quel colore magico, aranciato, ancora più evidente. Da “tradizionale”  il descrittore si sposta piuttosto su “ arcaico”; come può esserlo, nella sua immateriale eleganza, un fondo oro del Dugento. Ecco il mio cerchio che si chiude: questo Sangiovese che torna all’antico mi sembra futuristicamente moderno.

A sera.

Si lascia la manifestazione sul fil dell’imbrunire, quando le voci della folla sembrano attenuarsi in sussurro. Le mura del museo ancora sfavillano, ma già la penombra le tocca: si dispone ad avvolgerle materna. Si allungano le ombre sui selciati antichi di Montalcino: e’ bello camminarvi anche se piovono gocce. Scende la sera. Una sosta rinfrancante a Palazzo Saloni: le stanze grandi e comode calzano come un guanto sulla mia stanchezza, le luci calde e tenui carezzano gli occhi. Dalle finestre ampie, mentre si fa buio, vedo in lontananza le colline nere illuminarsi di bagliori: un canto sospeso. Ho appuntamento in cantina da Luciano. L’Alfa borbotta un poco uscendo dal paese, poi si slancia  in un canto allegro danzando sotto la pioggia sulle colline. Una danza lenta, perché la strada me la godo adagio. Malgrado il freddo abbasso un poco il finestrino, voglio sentire i profumi dei boschi e delle vigne. I miei fari illuminano lo sterrato familiare, finché svolto a sinistra sotto una coltre fitta di alberi, e sono sull’aia di Sanlorenzo: luogo ormai del cuore questo. Una lama di luce filtra dallo spiraglio della porta. Dentro saranno assaggi di annate vecchie e nuove e future, chiacchiere di uve, di botti, di fermentazioni, di lieviti, di mercati, di America e Napoli e Hong Kong, un po’ in italiano e un po’ in inglese, per la varia umanità presente. E pecorino e prosciutto e pane. Più ancora il senso squisito e raro dell’ospitalità e dell’amicizia. 

Notte.

Si fa tardi, l’appuntamento è  a cena al Ristorante al Brunello. Io devo ripassare per Montalcino, ma sono in anticipo; non molto, giusto qualche minuto. Allora, giunto alla rotonda di fronte alla Rocca, mi prendo un momento tutto per me: svolto a destra, scivolo in silenzio le ruote sull’asfalto per i chilometri di strada prima tortuosa e poi aperta e stesa che va verso Castelnuovo dell’Abate. Li’ a sinistra giace il Greppo e le sue memorie, più avanti la Fattoria dei Barbi, ma la mia meta e’ oltre: voglio vedere Sant’Antimo. Sant’Antimo la notte, illuminata nel silenzio dell’oscurità,  quasi un faro come doveva apparire nei secoli oscuri ai pellegrinini in marcia; laggiu’ nella sua valle, col prato verde intorno e gli olivi vecchi a farle corona. La vedo di lontano; scendo verso di lei, le vado incontro, solenne e solitaria. Le sono davanti, nessuno intorno, solo io e lei: piccolo nel freddo notturno sotto la sua abside maestosa. Sto muto di fonte a quella promessa di fede scolpita nella pietra. So che le vigne sono intorno: ne sento il respiro, le sento sussurrare, raccontano una storia antica, umile e fiera: la fatica delle generazioni, la forza di una tradizione. Poi la cena: le chiacchiere allegre della bella compagnia, l’ottimo cibo, i grandi Champagne e le prelibatezze dolci e salate portate da Stefano, i tantissimi Brunello di annate giovani e vecchie: perché accanto a quelli come me venuti da fuori per Benvenuto Brunello stanno intorno al tavolo tanti giovani produttori ilcinesi: uniti, affiatati, che si scambiano idee e assaggiano insieme. Questi sono i custodi della terra, nelle loro mani e’ il futuro del Brunello e più ancora di Montalcino, il baluardo contro una vuota deriva internazionale, che sembra creare paradisi per ricchi, ma morde e fugge e non lascia che gli avanzi: peggio, una terra arsa di sale. Li guardo e mi sento tranquillo che qui non si faranno macerie dell’autenticita’.Dopo la cena, ormai a notte fonda, sono tornato a Sant’Antimo. Questa volta non da solo. Mi serviva ancora un momento di silenzio e la conferma di una promessa. La chiesa buia ormai, ma non importa. 

Epilogo.

Domani ancora una mattina di Benvenuto Brunello, ma sarà come nuotare in un sogno. Tanta ressa, quasi impossibile assaggiare e la stanchezza si sente.  Difatti gusto i vini di Cerbaia ma senza la concentrazione dovuta e gli appunti vanno a vuoto: occasione perduta, mio torto da recuperare. Mi resterà però il senso di essere a casa: le chiacchiere del più e del meno in Piazza del Popolo con Raffaella incontrandoci per caso, come si facesse due passi la domenica mattina per comprare il giornale; i sorrisi e le tante persone che si ricordano di te da un anno all’altro e  anche più. Questo il senso dell’autenticita’.

Arrivederci Montalcino!

image