Dolcetto d’Alba 2006 e Barbera d’Alba superiore 2004, di Flavio Roddolo

Sentii parlare la prima volta di Flavio Roddolo da quell’Enrico Rovera che è stato il mio primo maestro nel mondo dei vini.

Lo considerava il vero prototipo del contadino di Langa.

Quando gli chiedevo dei vini langaroli autentici, mi citava anche altri produttori artigianali -che stimava sommamente, beninteso – ritenendoli, però, intellettuali prestati alle vigne.

Flavio Roddolo era invece l’uomo pragmatico del lavoro manuale e – soprattutto – del silenzio: “Vai da lui”, raccontava divertito l’Enrico, “e subito ti porta sul retro della cantina per mostrarti le vigne. “Lì c’è il nebbiolo” e seguono 30 secondi di silenzio, “lì il dolcetto”, altri 30 secondi di silenzio, “là la Barbera”, ancora un lungo silenzio.”. Roddolo era uno schivo, che non si vedeva nè alle fiere, nè alle premiazioni dei vini.

Ce lo decantò al punto che con Roberto, il mio compagno di scorribande enologiche, decidemmo di andare a visitarlo. Enrico, quando lo seppe, ci raccomandò il Dolcetto: straordinario. Era una dozzina d’anni fa.

Partimmo un sabato invernale, credo: ricordo gli alberi spogli di foglie, il freddo per le vie di Diano d’Alba, dove ci fermammo in trattoria, rimasugli di neve vecchia qua e là.

Direzione Monforte d’Alba, dove non eravamo mai stati. Vi arrivammo da Barolo e superandola verso Roddino, con le colline che diventavano via via più selvagge, mi sembrava di varcare il confine di un mondo remotissimo. Più ancora quando iniziammo, con l’auto che arrancava, la ripida salita che portava alla cantina: un tortuoso serpente nel fitto degli alberi.

Cantina, o piuttosto, visibilmente, casa-cantina, come molte si trovano nelle Langhe: una struttura annosa, di pietra, sobria, con una certa imponenza.

Quando Flavio Roddolo ci aprì la porta, pensai che assomigliava in fondo alla sua casa: un uomo massiccio, ma con una certa grazia impacciata di modi, forse timido, che vestiva una sorta di tuta da lavoro, quasi da operaio. Il viso, incorniciato da barba e baffi grigi, sembrava un’effige risorgimentale.

Si scusò perché era raffreddato: febbricitante nei giorni precedenti, aveva voluto ugualmente accoglierci: una cortesia verso ospiti sconosciuti, che mi intenerì.

Ci fece accomodare. Attraversammo la casa scendendo in cantina. Era scavata nella roccia friabile localmente chiamata tufo (ma credo sia marna), vi si accatastavano ordinatamente innumerevoli barrique. Mi stupii di trovarle da un produttore così tradizionalista e gliene chiesi conto. Ricevetti una candida spiegazione: lavorando da solo, con pochi ettari, gli erano più pratiche da gestire rispetto alle botti grandi; e comunque erano tutti legni molto vecchi, che nulla rilasciavano al vino.

Finalmente giungemmo al portone che dava sul retro. Roddolo l’aprì e dal buio ventre della collina ci trovammo nell’aria fredda su un breve impiantito che dominava dall’alto l’intero bricco, ornato dal fusto spoglio ed enorme di una vite vecchissima, che risaliva gigante le mura della cantina. Pendevano stalattiti di ghiaccio.

La luce era quasi abbagliante, bianca, riflessa di neve, irradiata dai velami di nebbia e di nuvole basse; risalivano ripidissimi i filari vitati, digradanti dalla cima di Bricco Appiani. Lungo di essi scorreva indugiando, infine perdendosi lo sguardo, in un silenzio arcano. Il flebile soffio del vento ed i nostri respiri gli unici suoni. Poi cominciò Roddolo: “Questa è la vigna. Lì c’è il nebbiolo…”, la scena che ci aveva raccontato l’Enrico.

Andammo poi in una sala con un gran tavolone e innumerevoli bottiglie, un po’ chiuse un po’ aperte, e cominciamo ad assaggiare i vini: Dolcetto, Barbera, Nebbiolo, Barolo, Cabernet Sauvignon in purezza; eccellenti: dotati tutti di un grande sussurrato vigore, di una naturalezza confidenziale.

Non ricordo granché della conversazione, ma il tono sì: semplice, domestico, familiare, sussurrato anch’esso. Nè cambiò quando giunse inatteso il giornalista Gigi Garanzini, col quale il vignaiolo aveva evidente confidenza. Roddolo avrebbe potuto guardare noi due, appassionati principianti, dall’alto al basso, lui celebre nella nicchia dei produttori artigiani, apprezzato da firme come Gianni Mura e Andrea Scanzi, e invece era alla mano; avrebbe potuto atteggiarsi da artista iconoclasta, con quel Cabernet che faceva lui, invece diceva solo che nella sua terra gli era sembrato potesse venire bene; poteva proporsi custode integrale della tradizione, invece si serviva spensieratamente delle barrique.

Pensai che quel vignaiolo, da qualcuno descritto come scorbutico, da altri come sempliciotto, era in realtà un uomo acuto che aveva fatto una scelta precisa: nato in quella casa-cantina sulla cima del Bricco Appiani, si era volutamente posto un limite, confinandosi lassù in quella casa, conficcando lui stesso radici nella sua terra, diventando confidente e custode di quel piccolo appartato lembo di mondo, elemento naturale anch’esso, fratello di sangue e destino della vecchia vite che stava sul retro.

Quel limite gli permetteva di ascoltare il silenzio. Nel silenzio c’erano le voci del vento e delle sue viti, che lui intrecciava come un antico polifonista per ricavarne vini.

Sono trascorsi troppi anni: dovremo tornare presto da Roddolo, Roberto e io, appena sarà possibile. Noi avremo qualche capello grigio in capo, che allora non c’era. Lui, forse, qualche ruga in più, ma sarà saldo e vigoroso come quella vecchia vite buona e gigante, sul retro della cantina.

Intanto ce lo ricordano i suo vini: saldi come eroi, hanno il caldo abbraccio degli amici.

Dolcetto d’Alba 2006, 13,5 gradi.

Dolcetto di 14 anni (si dice che i Dolcetto andrebbero consumati nei primi 2-3 anni: questo ha un’età venerabile anche per tipologie più ambiziose).

Non filtrato. Non stabilizzato, se non dal tempo.

Granato profondo, lascia sul vetro gocciole fitte e veloci, di media persistenza.

Ha profumo molto intenso, principalmente di sangue, ferro, ghisa, poi origano, rosmarino, frutta rossa, noce moscata. Cenni farmyard. Ancora in sviluppo. Affascinante.

Soprattutto, però, è vino di bocca.

Naturalezza, anzitutto.

Vivo, virile, elegante, è secco, di corpo medio. Ha avvolgenza glicerica, polpa, sapidità..

L’acidità è giusta da Dolcetto, cioè di medio vigore, ma il vino è ben dritto malgrado gli anni: si sostiene su sapidità vivida e tannino eccellente per presenza, definizione, pastosità e grana.

La trama è ancora fitta e continua fino all’equilibratissimo finale: molto lungo, felicemente amaro e ammandorlato, con la grinta tannica che preme sul palato anteriore: stimolo piacevolissimo, d’altri tempi.

Come una prosa bella e vibrante.

Compagno meraviglioso della tavola, pienamente goduto con salsicce stagionate di Sergio Falaschi, fette di scamone ai ferri, formaggio pecorino.

Barbera d’Alba superiore 2004, 14,5 gradi.

Colore granato tendente al rubino profondo,con lacrime fitte e irregolari. Appare molto più giovane dei suoi sedici anni.

Profumo molto intenso, in divenire, tutto chiaroscuri e prospettive: la delicatezza della rosa, la maturità della fragola e della prugna, la purezza delle erbe amate di montagna, i toni umbratili del tartufo, la sottigliezza degli inchiostri e delle aldeidi.

Sorso molto naturale, polposo, continuo, fluido, lungo, con succo e sale; di corpo notevole, ma fresco per aciditá vividissima, vibrante, perfettamente integrata. Per essere un Barbera ha tannino particolarmente abbondante, ma pastoso.

Nel retrogusto: frutti di bosco.

Vino disarmante: pare sospeso nel tempo e fattosi da sé, senza mano umana né a ingentilirlo, né a complicarlo.

Con amore sulle costine di suino grigio semibrado della Macelleria Falaschi di San Miniato, al forno.

Barbera d’Asti DOCG 2014, Cantina Mosparone, 13,5.

vini leggeri, succosi e coinvolgenti, la cui dinamica gustativa stimola il sorso successivo e rende la beva particolarmente agile e gratificante”; questi intendeva proporre pubblicazione di qualche anno addietro, ad opera del l’autorevole trio Castagno, Gravina, Rizzari.

Con molta e vera modestia, credo che questo meraviglio Barbera d’Asti 2014 sarebbe degnissimo protagonista di quel libro. Questo Barbera, affinata in acciaio e vetro dopo una breve macerazione, mi pare una sorta di noumeno: la concretizzazione di quanto di bello ed ideale quell’uva ha da offrire.

Un colore rubino fitto ma trasparente, di lucentezza smagliante, con una trina di gocciole fitte e persistenti a corona.

Un profumo intensissimo, giovanile con appena qualche cenno sensuale di sviluppo. Un tripudio di frutta rossa, la classica fragola-ciliegia, freschissima, nitida, centrata, sfuma tuttavia nelle ampiezze prospettiche di un paesaggio autunnale, che sa di nebbie, di zolla rivoltata, di foglie ingiallite, di corteccia d’albero, di muschio, di sangue, di spezie: la noce moscata, la curcuma, il pepe bianco e quello nero. Forse, nascosto tra i riverberi di luce, un fondo segreto di erbe officinali.

Un sorso agile, gustoso, estremamente vibrante -la quarta corda di un violino colpita da un arco appassionato- irradiante, ritmato; dal tannino delicatissimo, fine;dall’acidità vivida senza eccessi; dalla salinità imperiosa; dall’alcol misurato ma che piacevole scalda; dalla persistenza importante, ma alata.

Ecco: il colpo d’ali fa la differenza. Come quando si ascolta un brano risaputo sotto le mani di due pianisti: le note sono le stesse, entrambi non ne perdono una, magari nemmeno una sbavatura per entrambi; il tempo scelto è lo stesso, pure le dinamiche coincidono; eppure una delle due esecuzioni è cosa viva, palpitante, la musica sembra svolgersi di fronte a noi per la prima volta, raccontando una storia: quello il genio. Il resto, è solo corretta ripetizione di eventi noti.

Così, anche se nella vita di Barbere se ne son bevute altre cento, con questa sembra di assaggiarla per la prima volta.

Non conoscevo affatto Cantina Mosparone fino al novembre del 2018, nemmeno per sentito dire. Mi accostai ai loro vini casualmente al Mercato FIVI lo scorso anno, restando letteralmente di sasso: trovai tutte le loro etichette eccellenti e rispondenti alla definizione sopra citata. Solo casualmente mi trovo ad aprire e raccontare questa prima delle altre che acquistai allora.

Cantina Mosparone si trova in quella parte del Monferrato Astigiano che confina col torinese, tra i comuni di Castelnuovo Don Bosco e Pino d’Asti. Zone che ricordo verdi, deliziose e boschive.

Fondata nel 2008, è evidentemente impostata con criteri moderni, lavorando con attenzione uve da terreni di marne grigio-azzurre posti a circa 400 metri di altezza.

Quell’insieme di territorio vocato e di modernità tecnologica origina vini di straordinaria pulizia olfattiva ed equilibrio.

Per noi oggi, sulla tavola, questo Barbera è stato eccellente con tortellini in brodo e un indimenticabile biancostato bollito di chianina, acquistato presso la benemerita Macelleria Ricci di Trequanda, Siena.

Barbera d’Asti 2017, Emilio Vada, 15 gradi.

Ricordo una vecchia querelle, testimoniata anche da Mario Soldati nel suo pluricitato “Vino al Vino”: se siano migliori le Barbera della riva destra o della riva sinistra del Tanaro.

Lui, da vecchio dandy nostalgico piemontese, si schierava nettamente a sinistra: “…non si può dubitare di un assioma: i caratteri precipui della Barbera, fragranza finezza allegria, appartengono solo alle Barbere della sinistra…”. Questo nell’autunno del’75. Si sdegnava persino che qualcuno considerasse generalmente migliori le Barbera della destra.

Probabile, cercando nella letteratura coeva o di poco anteriore, si riferisse a posizioni come quella di Ugo Graioni (“Dalla vigna alla tavola”, Canesi, 1973), secondo il quale le zone “dalle quali si ricava tradizionalmente il miglior Barbera d’Asti, (sono) i comuni della Val Tiglione, sulla destra del Tanaro”; “Rude e schietto” la sua qualità pregiata, “dà vita e ardire”.

Forse è questione di gusto personale: Soldati scriveva “la Barbera”, al femminile, secondo il vecchio uso ottocentesco, poetico e contadino; Graioni “il Barbera” intendendo così ” non contraddire le doti maschie del vigoroso vino”, e magari la differenza è tutta lì.

Effettivamente la Barbera si presta ad entrambe le interpretazioni, più o meno favorevolmente secondo la sua provenienza.

Ed allora, com’è che assaggiando questa Barbera al Mercato della FIVI lo scorso novembre esclamai: “Ecco una Barbera paradigmatica!” ? Fu un’affermazione superficiale ed insieme correttissima.

La Barbera paradigmatica, in sé, non esiste, anche all’interno delle tre macrozone definite dalle grandi denominazioni d’origine piemontesi: albese, astigiano, Monferrato. I conoscitori sanno bene che in queste aree oltremodo estese insistono comuni, angoli più vocati di altri e che, primariamente importante, impartiscono caratteri peculiari alle loro Barbera. Poi ci sono tutti i consueti fattori che concorrono alle differenze tra i vini, non ultima l’età delle viti, che nel caso della Barbera mi pare elemento marcante.

Tuttavia la Barbera d’Asti 2017 di Emilio Vada unisce equilibratamente, con nonchalance, le caratteristiche tradizionalmente attribuite alle Barbera della riva sinistra e a quelle della riva destra; ed è anche in linea con il tipo fissato in letteratura per i vini da uve Barbera: profumo, colore, più acidità che tannino.

Eccola qui di nuovo nel mio calice, porpora e profonda, con gocciole veloci, irregolari, persistenti. Bella di un profumo assai intenso, giovanile, di rose, di fragola, di cipria, su un tappeto morbido, speziato, balsamico: burro di cacao, chiodo di garofano, eucalipto.

Delicata all’attacco sul palato, scorrendo subito si espande e diventa ampia, vellutata, con un tannino giusto da Barbera, non evidente, ma rustico; contrastato subito da una naturale freschezza, quasi una brezza sospinta dalla notevole acidità sottesa e solo intuita.

Più che un velluto, invero, è un tweed di buona lana, che si accarezza volentieri per assaporarne la grana. Pazienza se dopo la piacevolezza campestre di un finale amaricante di alloro, la persistenza è minore del desiderio che lascia di un altro sorso. È sincera, generosa, piacevole, curata, dissetante. Candida, ma seducente. Femminile, una vera Barbera – ma con la giusta potenza del vero Barbera.

È stata compagna amorosa e gustosa di un piatto di penne col sugo di salsiccia.

Quasi dimenticavo: viene dalla riva destra del Tanaro. O no?

Baccanale 2016, Il vino e le rose SAS, 14,5 gradi.

La Terra Trema è una manifestazione novembrina che ho nel cuore: la fondò l’anziano Veronelli  in uno stato di ultima tensione morale, e tanto basti. Il livello dei vini che si trovano in assaggio al milanese Centro Sociale Leoncavallo in queste occasioni non è omogeneo, ma il clima è assai festoso ed i vini sono davvero artigianali senza compromessi. Insomma: il conservatore anarchico che è in me ne viene ampiamente solleticato.

Lo scorso novembre assaggiai per la prima volta i vini della Società Agricola Semplice “Il vino e le rose” e rimasi conquistato sia dal genuino ed un po’ ingenuo entusiasmo di chi stava dall’altra parte del banchetto, sia dall’allegra veracità dei vini proposti. Lo stile di vita in azienda, che capisco trovarsi a Momperone, in provincia di Alessandra, nella zona dei Colli Tortonesi, presso l’oasi di Mastarone a Momperone, mi pare piuttosto originale, perché sembra -sbaglierò- quello di una comune.  La palma dell’originalità va a questo Baccanale, Un Nebbiolo vinificato sulle bucce fresche della barbera, secondo una vecchia tradizione piemontese, che mira ad ottenere un vino col corpo e la freschezza acida e fruttata del Barbera, con il profumo e il gusto del Nebbiolo.  Come  gli altri vini della firma, non contiene solfiti aggiunti, non si usano lieviti autoctoni e, mi spingerei a dire, nessuna pratica enologica che preveda additivi o coadiuvanti chimici.

Ed ora eccolo qui nel mio calice, durante un solitario pranzo in una calda giornata di giugno, 7 mesi dopo l’assaggio in fiera, che avranno sicuramente aiutato il suo assestamento.

Il Baccanale 2016 è rubino di media trasparenza, tuttavia profondo per la complessità dei riflessi, che vanno dal granato al  purpureo. Lascia lacrime di lentezza irregolare e fitte, un po’ evanescenti. Profumo di intensità superiore alla media, complesso, fragola e ciliegia e prugna maturissima nel cuore  che si ammantano di note più solari e campestri ad un estremo e  più scure e gravi, all’altro: la paglia al sole, la ginestra, la camomilla, il timo e la polpa di mele rosse croccanti; poi uva appassita, note segaligne, di asbesto ( intendendo con questo termine un insieme di odori specifici di metallo e di carbone),affumicate, empireumatiche. Qualche sbuffo di aldeide e in ultimo un tocco lievissimo di cipria, come di giovane contadina d’antan allo specchio – il catino a lato –  per farsi bella, nella penombra della casa. Al palato è ben secco,  di medio corpo, polposissimo, scorrevole, ampio,  naturale, con quel certo asprigno dell’uva appena spremuta; difatti, è teso da un’acidità netta e felice e da una salinità marcata e sfavillante. Il tannino è poco più che accennato, ma gioiosamente rustico e irregolare,  per nella sua grana sottile. È molto saporito ed il suo sale contribuisce ad esaltarne la percezione, ravvivando i contrasti. Ha un finale di buona lunghezza e di discreta, intensità, con una nota amarognola che a me piace, stuzzica intriga. Grandissima bevibilità : anche caldo – ma te lo consiglio tra i 16 e i 20 gradi, amica o amico che mi leggi, secondo tuo gusto e abbinamento –  se ne finirebbe una bottiglia; almeno, io la finirei. Molto bello e pulito, il suo bouquet,  anche a calice vuoto: dove emergono nitidi il profumo di melograno e qualche spezia, come curcuma e cumino,  che erano rimasti sottotraccia. Sulla tavola si esalta, con una flessibilità di abbinamenti a tutta prova: mi ha tenuto compagnia, ottimamente, su lenticchie delle Crete Senesi condite con olio d’oliva di Seggiano (un taglio di olivastra seggianese, leccano e moraiolo), sale , pepe, zafferano, pecorino romano; e con fette di pane ed patè di olive taggiasche. Tuttavia, non esiterei a misurarlo a tutto tondo, persino sulle zuppe di pesce o, per esempio, sul tonno, sullo spada, su certo pesce azzurro ( i missolittini del Lago di Como, ad esempio).

È un vino indubbiamente ruspante e con una spiccata individualità, ma possiede un suo  equilibrio instabile ed un’autenticità vernacola trasparente: ha in pieno forza di carattere.

Viene, bevendolo – perché un vino così non si sorseggia, eh- da sollevare un tema, che mi ronza alla mente dopo parecchie prove e controprove: certi vini – chiamiamoli artigiani, naturali, sempliciotti, rustici, contadini, come ci pare – che non hanno quell’equilibrio perfetto ricercato dagli appassionati, me compreso, a tavola si sposano meglio col cibo; come se le loro fallanze gustative e gli squilibri, sovrapposti a quelli che la maggior parte dei cibi possiede, trovassero miglior matrimonio rispetto ad una ipotetica perfetta proporzione. Allora, delle due l’una: per uno sposalizio d’amore, o si accettano mancanze e disarmonie oppure la perfetta proporzione  assurge assurge a livelli di intensità tali da risultare inattaccabile: la flessibilità come traguardo ultimo di un’estrema forza interiore.

La vota Cabernet Sauvignon Menfi DOC 2011, Cantine Barbera, 13,5 gradi.

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Ognuno ha le sue preferenze. Se posso, amo bere vini fatti con uve autoctone o, per meglio dire, endemiche. Questo, da sempre: dal momento che il vino per me è sempre stato un interesse ed una soddisfazione culturale e intellettuale, quella sensuale nettamente in second’ordine, non ho mai avuto particolare interesse per i vini tratti da uve internazionali nemmeno quando questi erano di gran moda e sulla tavola di casa mia potevano passarne; mi pareva anzi, già nella mia mente di adolescente, che potessero snaturate e traviare le tradizioni del luogo: “Perché mai dovremmo copiare gli altri, invece di cercare di eccellere con ciò che generazioni di avi ci hanno consegnato?”. Ovviamente la mia era una posizione di pancia, ma la pancia spesso è saggia assai.
Tuttavia, negli anni, e vieppiù oggi che tanti bevitori alla moda ne rifuggono per snobberia, mi è presa una certa curiosità di assaggiare come vengono nei territori italiani i Cabernet Suvignon, I Merlot, gli Chardonnay, e via discorrendo; perché essi rappresentano, in qualche misura, uno standard, cioè un tipo di vino che essendo ben conosciuto e prodotto in ogni dove, permette di verificare in trasparenza, se la mano di chi lo produce è sincera, l’influsso del territorio, se esso è più forte delle caratteristiche varietali del vitigno. Volendo, amica o amico che mi leggi, la mia curiosità intellettuale si è spostata da un piano puramente culturale ad abbracciare un interesse geografico, geologico, climatologico, per così dire. E, credimi, spesso sono belle sorprese.
Già t’ho raccontato, credo, che lo scorso anno alla manifestazione piacentina “Sorgente del vino”  ho assaggiato i vini meravigliosi di Marilena Barbera, che produce in Sicilia a Menfi, non piuttosto vicino al mare.
Tra essi mi propose un Cabernet Sauvignon, dicendomi che era un vino che riscuoteva ormai poco interesse nel pubblico, ma che aveva provato a portarlo ugualmente.
Diamine,se aveva fatto bene! Perché, ad ascoltarne la storia dell’origine di questo vino, c’era veramente di che dar sfogo alla propria curiosità e l’assaggio non me lo feci certo scappare.
Infatti le viti, che se ben ricordo aveva piantate suo padre, stanno in un’ansa della fiume Belice, in una zona ricca di canneti. La vigna è di un terreno profondo, sabbioso, con frazioni di limo ed argilla. Di quando in quando, in corrispondenza di piogge intense, il fiume Belice straripa, allagando la vigna e depositando elementi nutritivi che ha raccolto lungo il suo corso (mi ricordava questo racconto,che lei mi faceva, quando alle scuole elementari mi si spiegava del Nilo, le cui inondazioni erano una benedizione per l’agricoltura degli antichi egizi). Inoltre il Belice influisce sulle temperature, che nel vigneto sono 6-7 gradi più fresche rispetto alla zona. Vinificazione semplice, con affinamento in botte grande.
Il racconto non basta: fu l’assaggio ad affascinarmi al punto tale che ne comperai una bottiglia, e maledetto me che era una sola!
Perché la sua malia non mi ha più abbandonato e mi riconquista ora che dopo quasi un anno lo apro e lo verso, bello nel suo rubino profondo ma ancora trasparente, granato al bordo, con gocciole veloci, fitte, regolari, persistenti sul calice. Persino da come si muove nel calice, dalla consistenza liquida ne indovini la classe superiore, la naturale scorrevolezza.  È sensuale il suo profumo molto intenso, complesso, sfumato e arioso e fresco di frutta nera (mirtillo , mora), con  un’idea di frutta rossa che si fa spazio: non solo quella di bosco che facilmente si trova in tanti vini ( fragolina, lampone), ma anche una polpa di susine molto mature, dolci, ma ancora croccanti, e -sarà mia suggestione- fichi d’india e arance rosse. Magari, anche una nota di peperone grigliato e di buccia di melanzana viola, qualcosa estremamente tenue di olive nere in salamoia: marcatori caratteristici, per la mia esperienza , del Cabernet Sauvignon nelle aree mediterranee. Soprattutto però, la sua voce più originale un potente fiato balsamico di eucalipto e menta, che lo rende fresco e dinamico, ed una spaziatura delicata di pepe bianco e nero e noce moscata. C’é anche, lieve, uno sbuffo di aldeide, che aiuta a spingerne la freschezza. Infine, gradevolmente domestico, un fondo di caffè della moka. Al sorso l’attacco è definito e insieme soffice, il corpo pieno e il gusto concentrato, ma la consistenza tattile! La sua tessitura è di  seta, dolce: anche se tannino è ben presente, è maturo e arioso; se l’acidità è molto alta e tiene il vino ben teso su una linea retta, resta avvolta nella morbida sostanza estrattiva, nell’alcol ben controllato e fuso nel corpo, galleggiando su una cera sapidità. Molto lungo, la sua sensazione svanisce ben bilanciata. Un vino naturale questo, dalla vigna alla cantina, prodotto senza trucchi e additivi, ma che non conosce imperfezioni, al punto di sbugiardare certe vinificazioni approssimative che in giro pur si sentono: naturale, ahimé, non è per forza buono. Un  Cabernet originale e obliquio in un certo senso, perché fuori dagli schemi senza essere stravagante; di carattere, perché il territorio vince . L’ho goduto – quella la parola- su un salame artigianale delle alture del lago d’Iseo, su una pasta al sugo di carne, su un coniglio arrosto con contorno di zucca. Non suoni un complimento vuoto: Marilena Barbera è una vignaiola dalle mani d’oro.

Barbera d’Asti 2013, Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Gresy –  Cisa Asinari, 13 gradi.

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La mia conoscenza del Barbera, lo ammetto, è sempre stata molto superficiale, limitata a quelle nozioni impartite quando si studia in qualunque corso per principianti: nasce da un’uva con pochi tannini, tanta acidità e tanto colore, che resiste bene alle malattie, eccetto la flavescenza dorata; ne esistono stili diversi: mossa o ferma, affinata in acciaio e di pronta beva – che termine orribile – o in legno grande o piccolo, di maggiori ambizioni;  bisogna distinguere tra quella d’Alba, più riposata e nebbioleggiante, e quella d’Asti, più fresca e longilinea; che Giacomo Bologna era un mito e che lui per primo, con il Bricco dell’Uccellone 1982, ha riscattato il proletario Barbera creandone un grande vino in grado di sfidare il meglio della produzione mondiale (motivo per il quale, passando in zona, deviai verso le poetiche e profumate colline di Rocchetta Tanaro e sostai omaggiante, in  silenzio rispettoso davanti ai cancelli chiusi dell’azienda Braida). Qualche assaggio di Barbera d’Asti l’avevo fatto negli anni, qui è là, sparuto e inconsapevole, senza formarmi davvero un’idea e lasciandomi, in fondo, freddino. Avevo assaggiato anche un paio dei vini di Braida, buonissimi; ma il Bricco, vaddasè, ritenevo che non si potesse inquadrare pacificamente in una denominazione: ambizioso com’è, mi dicevo, con il livello mediano della Barbera d’Asti c’entra sicuramente poco, anche come prezzo.
Poi capita un vino che sulla carta è perfettamente inquadrabile nella tipologia del Barbera d’Asti, e però mi piace così tanto da sparigliare le carte e da voler andare a fondo per capire come mai mi risulti così diverso da quanto assaggiato finora.
“Dai vigneti Monte Colombo e La Serra  in comune di Cassine”, recita la bella etichetta giallo ocra dei Marchesi di Gresy, ed un motivo deve pur esserci dietro quel l’affermazione esibita e orgogliosa, non può bastare che l’azienda consti di diverse tenute, tra le quali la parte del leone, almeno in termini di visibilità, spetta alle terre del Barbaresco. Quelli di Cassine sono terreni in parte calcarei, in parte argillosi, tra i 230 e i 340 metri. Un momento: ma Cassine è in provincia di Alessandria! E che cosa c’entra con Asti? Ecco il busillis: il Barbera d’Asti può essere prodotto in 167 comuni distribuiti tra le provincie di Asti ed Alessandria: un territorio sterminato e diversificato, dal quale, bontà sua, il legislatore elimina le vigne a quote superiori i 650 metri sul livello del mare: basta che siano in collina e su terreni di natura argillosa e/o limosa e/o sabbiosa e/o calcarea; non constando , credo, la presenza di vulcani in zona, significa che il Barbera d’Asti si può fare ovunque. Che cosa c’entri, poi un vino di Cassine, in mezzo alle colline su suoli di arenarie, con uno di Camino che sta 50 km più a nord e guarda la piana del Po’ su suoli sabbiosi, non è chiaro. Allora mi sono documentato su questo benedetto Barbera, leggendo testi vecchi e nuovi, e ho scoperto che, in realtà, ci sono cento, mille Barbera, tutti diversi di paese in paese. Già Mario Soldati a metà Anni ‘70 del secolo passato chiariva che c’era una diversità netta tra quelle della riva sinistra e quelle della riva destra del Tanaro (rispettivamente, Basso Monferrato e Alto Monferrato; più a meridione, Roero e Langhe): a sinistra “fragranza vivezza allegria”, scritto così, tutto d’un fiato e senza virgole; a destra,  vini più riposati, potenti, naturalmente vecchi nel carattere. Poi ho scoperto che il Barbera ha caratteri precipui, ad esempio, nel tortonese: più irruente e speziato, capisco; che il Barbera d’Asti propriamente detto veniva dai colli più vicini alla città e veniva distinto da quello monferrino; e così via. Diceva appunto il già menzionato Giacomo Bologna: “Una volta si sentiva parlare di Barbera di Vaglio, di Mombercelli, di Nizza, di Vinchio, di Montegrosso, e di Rocchetta. Era interessante che si scoprissero le differenze, perché così la gente si muoveva per andare sul posto, e capire…” . Ecco il punto: il radicamento e l’identità  in nome di una standardizzazione feroce e stupida, i diversi canti della terra ammutoliti da un disciplinare che fa l’occhiolino all’industria e uno sberleffo al consumatore e al contadino, consentendo acidità basse fino ai 4,5 grammi per litro, quando di suo, se non ci stai attento, la Barbera te ne dà 10, 11, 12 di grammi per litro. Certo, se vuoi vini morbidi e industriali puoi deacidificare … e hai tutta la libertà di affinare in legno o in acciaio o altro, tanto dopo solo quattro mesi lo puoi mettere in commercio, poco più tardi rispetto a un novello. La massificazione che vince sull’individualità, la globalizzazione del gusto che sradica la tradizione locale: mi pare che gli spiriti dei peggiori fantasmi del Novecento, Rossi e Neri, si prendano a braccetto in quel disciplinare. Hai capito, amica, amico che mi leggi? E che te ne pare? Veramente il legislatore s’è inventate anche altre menzioni più restrittive,  ma sono molto meno usate e, prese nel loro insieme, un gran pasticcio: se ci guardi dentro in dettaglio, le identità geografiche sono ancora tutt’altro che chiare e così aumentano solo la confusione nella mente del consumatore. In fondo, tre cose solo basterebbe sapere di un vino: di che varietà di uve è, da dove viene (il paese e la vigna!) e chi l’ha fatto. Se però prendo in mano il vecchio testo di Veronelli sui Vini d’Italia edito da Canesi nel 1967, chiudo il cerchio: lui sì che distingueva  tra il Barbera della provincia di Asti e quello della provincia  d’Alessiandria, elencando con dovizia i comuni di produzione per ciascuno e fornendo due descrizioni sintetiche , ma precise e indubbiamente diverse. Quello d’Alessandria, prodotto in 60 località tra le quali Cassine, risultava più fine, pronto prima, senza asperità già a tre anni, con un’acidità molto variabile secondo la provenienza (ah, quei 60 nomi!), dal colore meno intenso dell’Astigiano.
Ecco, il Barbera di Cassine dei Marchesi di Gresy risponde in pieno all’antica descrizione veronelliana, raccontando il territorio insieme al carattere precipuo del Barbera, almeno secondo Soldati:“fragranza, vivezza, allegria”. La menzione in etichetta delle vigne, la promessa di una viticoltura virtuosa. L’affinamento in legno per un periodo di cinque mesi, in parte in barriques di secondo e terzo passaggio e in parte in botti di rovere di Slavonia, seguito da un’ulteriore riposo in bottiglia, la conferma di un’attenzione particolare, che supera i requisiti minimi dello standard del disciplinare.
Eccotelo allora, amica o amico che mi leggi, rubino molto luminoso, dalle trasparenze eleganti e femminee, quasi da eroina di Gozzano. Guardalo mentre forma sul calice gocciole fitte e veloci. Il suo profumo è molto intenso, appena un po’ riposato, ma molto puro e arioso, con quella dolcezza un po’ struggente di certi pomeriggi di settembre, quando il temporale ha già rotto la calura. In lui, la frutta rossa che primeggia inter pares , perché è ben sfumata: la fragola fresca e candita, innaffiata di maraschino, dà il braccio a rose e viole, che la avvolgono creando una composizione naturale, preziosa come un gioiello; ed una spaziatura tanto elegante quanto sfaccettata: chiodo di garofano, curry dolce, noce moscata, curcuma. Si posa poi il tuo olfatto su un fondo morbido di liquerizia, forse di alga spirulina, di buccia di corbezzolo. Assaggialo: alla bocca è fine, molto  dritto e molto fresco, preciso eppure sciolto nel suo incedere, carezzevole a tratti. Ha corpo medio, tannino in quantità mediana o anche inferiore, però grintoso pur restando garbato. La sua acidità è molto alta, altissima per un rosso moderno, ma ben educata: duetta armoniosa con una certa piacevole sapidità. Si allunga letteralmente sul palato, scorrendo naturale e continuo verso  finale di persistenza superiore alla media: lungo e in  bell’equilibrio tra alcol, tannino (che ora risulta un po’ rugoso,  magari) e acidità, formando una triade risolta in un triangolo equilatero che per centro ha il gusto. Quanta vera classe, in questo Barbera di Cassine, delle vigne Monte Colombo e La Serra. Non l’aprirei magari con i miei conoscenti più esperti di vino, no: con loro forse sarebbe sprecato. Ma con gli amici veri, con le persone più care, con loro sì, per darci l’allegria e il conforto. Maledetto me, che ne avevo una sola bottiglia! A tavola è riuscito benissimo col bollito: cotechino, lingua, vitello, manzo.

Vianova Beneventano Barbera IGP 2015, Torre  del Pagus, 12,5 gradi.

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La prima volta che ho assaggiato un Barbera del Sannio, amica o amico che mi leggi, debbo aver sgranato gli occhi per la meraviglia; e probabilmente li sgrano ogni volta che ne riassaggio: è originalissimo, il Barbera del Sannio, che con il Barbera propriamente detto ( quello diffuso soprattutto tra Piemonte, Lombardia ed Emilia, per intenderci) non c’entra nulla, essendo diversa anzitutto la vite stessa: si tratta proprio di un’altra varietà, nessuna parentela. Piuttosto è collegata geneticamente ad altre uve campane, come il summariello, la catalanesca, il casavecchia. E però, a tuffarci il naso dentro a questo vino, la prova del DNA si direbbe inutile: nessuno potrebbe confonderlo con l’altro Barbera, tanto è particolarissimo il suo profumo, che piuttosto potrebbe ricordare  quello del dolce e frizzante  Brachetto astigiano; solo che il vino sannita è perfettamente secco e fermo. Si dice che il Barbera del Sannio sia tipico di Castelvenere nella Valle Telesina, perciò sul versante nord est del Monte Taburno ( tu lo vedessi!). Tuttavia deve essere ben diffuso sul territorio sannita o quantomeno radicato nella tradizione, se in una trattoria di Sant’Agata dei Goti (versante sud-est del monte, quindi) mi venne servito un aglianico sfuso che, secondo me, era tagliato con il Barbera  del Sannio; e io dico che se ne giovava per una beva più fresca e snella.   Questo di Torre del Pagus, ad esempio, viene da Paupisi, che sta proprio sul versante nord-est del Taburno, da vigne a 180 metri sul livello del mare: un paesello che pare quasi spaurito, seduto com’è con le sue poche case ai piedi del gigante calcareo dai boschi verdissimi: una quinta scenica d’incanto fatato, di naturale emozionate bellezza. Ed un po’ di quella trasparenza aerea e incontaminata dell’aria montana mi pare trasfusa  in questo vino:lieve, preciso, ben rifinito. Di color porpora profondo e quasi impenetrabile, ha un profilo giovanile, tutto giocato sui profumi primari, molto intensi: di fiori (viole, violette, giaggioli, gerani, rose, e chissà quali infiniti altri); più un secondo piano di  susine fresche , di ribes nero, mirtilli e more  appena colti e un po’ aciduli. Freschissimo, ha un che di mentolato, di boschivo, di pino silvestre, di pepe e di canfora, un’evocazione quasi psichedelica ed espressionista di un ambiente naturale.
Originalissimo, il Barbera del Sannio. Del Barbera piemontese, quello astigiano per esempio, ha in comune solo l’alta acidità ed un tannino di entità meno che media e di grana fine. Anche il corpo è medio e molto avvolgente, con una sapidità ben percettibile, ma assai disciolta sul palato. All’attacco in bocca è soffice, subito pronto ad espandersi nel suo sapore così riecheggiante l’aria aperta, la brezza, la macchia, una natura incontaminata e selvaggia, primigenia, quasi bacchica o dionisiaca, pura e profumata di fiori e di verdure,fors’anche  dei cibi speziati in cottura nelle case, quando le finestre sono aperte al sole. Lieve ed etereo sul palato, eppure nell’ampio finale tenace e equilibrato , ponderato, quasi terroso e materico; se è lunghissimo per persistenza, non si allunga geometricamente (per così dire): permane il gusto concentrato e una nota amaricante forse dovuta ai terpeni e lascia quasi dispettoso un ricordo di cola, di chinotto, di uva spina. Affascinantissimo e capriccioso, sexy seppur non sensuale, di pericolosa bevibilità, il Barbera del Sannio è uno tra i più straordinari e folli vini che l’Italia ha da offrire, e a suo è  imperdibile. Pensare che ha una resa di 100 quintali per ettaro: non poco! L’ho provato con un’arista toscana e ben ci stava, ma me l’immagino su una pasta con sugo di castrato, su scottadito di agnello alla griglia, su salumi, su formaggi freschi e saporosi, persino per aperitivo.

Nero d’Avola Sicilia DOC 2015, Cantine Barbera, 13 gradi.

Di Marilena Barbera e dei suoi vini avevo sentito parlare per anni. Però, come capita talvolta per i casi della vita, l’incontro non era mai avvenuto: pure combinazioni talvolta, talaltra c’erano altre urgenze in agenda, o ancora per la distanza fisica non era proprio cosa. Mi son deciso finalmente di prendermi il punto in occasione dell’ultima edizione piacentina di Sorgente del vino, manifestazione di vini naturali dove le chicche non mancano mai. Basta osservarla e scambiare qualche parola con lei: Marilena Barbera è una donna siciliana dall’aspetto e dai modi tanto solari quanto energici  ed incisivi: gli occhi vivacissimi parlano di una volitività brillante, appassionata e femminile. Che sia una donna intelligente e sensibile lo si capisce da quello che scrive: basta seguirla sul sito aziendale. Più ancora, è ciò che assaggia in quell’occasione a testimoniarlo: una batteria di vini tutti buonissimi, con un’idea molto precisa di territorio e di attaccamento territoriale, riletto però e interpretato  con amore secondo le sue infinite sfumature: quelle della terra e dei sassi, quelle dei venti e delle correnti, quelle dei diversi vitigni che con le loro radici diversamente suggono il sale della terra. Brava Marilena. Non c’è tipologia – o quasi- che la gamma di Marilena non tocchi e tutto ciò che tocca diventa oro, riflettori ormai a distanza di mesi. Il territorio di Menfi – Sicilia sud-occidentale, tra Selinunte e Sciacca- riletto e indagato nelle sue plaghe e nelle sue individualità, tra mare, collina, greto di fiume; suddiviso in Cru non per catalogarlo secondo una egemonica scala di valore, ma per valorizzarne l’unicità specifica, lembo per lembo, come se ogni zolla fossa una persona, anche la più umile. Per la mia scarsa conoscenza della cultura siciliana e di quella letteraria in specie, quanto ritrovo in questo di un Verga, di un Tomasi di Lampedusa, di un Camilleri. Acquistai allora certe bottiglie per riassaggiarle con calma, ma le avrei volute tutte e in abbondanza.
Due ne comprai di questo Nero d’Avola, in qualche modo il vino più semplice  tra quelli che assaggiai, ma a suo modo assolutamente rivelatore e di una bontà straordinaria. Molti della mia generazione sono cresciuti con un’idea di Nero d’Avola concentrato, morbido, fruttato fino ad evocare l’odore e il sapore della confettura di frutta (eppure mi si dice che di suo il Nero d’Avola sarebbe un’uva dall’acidità marcata e tenace). Ecco che questo di Marilena Barbera ribalta completamente quella concezione : sarà pure, come dice lei, un vino leggero e pensato per una merenda, ma per me è una pietra miliare nella comprensione di quel vitigno; persino dall’aspetto, che infatti è rubino trasparente con gocciole fitte e veloci, molto luminoso e flessuoso nel bicchiere e già in questo  femmineo. Ha un profumo molto intenso, complesso e profondo e tuttavia nettamente giovanile. Domina la frutta rossa:ciliegie scure (i duroni), le amarene, maraschino; poi radici, erbe e ancora frutta si avvicendando in ordine sparso e cangiante: rabarbaro, cola, finicchio  selvatico, mandarino. Vi trovo poi un che di salamoia e di salmastro e di una macchia che stento a definire nei suoi dettegli minuti: forse, l’odore dei fichi d’India al sole, accompagnato però da un qualcosa di erbaceo, come ruta, rucola, ma che grida Sicilia in maniera immaginifica, ideale. Il carico da undici: ci sento pure marzapane, pepe bianco sul finale. Tutto è nitido, profumato, perfettamente articolato: accordatura perfetta, perfetta armonia. Eppure è un vino naturale. Sarà la cura nel realizzarlo, sarà magari che si applica – non so-  quelle la “pulizia, pulizia, pulizia” sulla quale il maestro Giulio Gambelli tanto insisteva (e che mio nonno, nel suo piccolissimo, praticava per sapere atavico o istintivo inondando la vecchia stalla riconvertita in cantina: per dire che un certo ben fare esisteva anche tra i vecchi contadini), ma qui non ci sono impuntature, non ci sono imprecisioni. L’assaggio. Si sente che viene da vigne che guardano il mare: gustosissimo (medio più, a volerlo proprio ricondurre a una scala), assai salino, goloso, fresco, articolato e insieme sferico, polposo e snello a un tempo. Ha una grande acidità, confermata dai dati analitici (5,7 g/l), un corpo un po’ superiore alla media ed anche un tannino che per quantità supera la norma, ma per qualità è finissimo, regolarissimo, rotondissimo, direi persino soffice. Per quel poco che ne capisco, segno di maturazione e di estrazione perfette. Anche la sua persistenza è decisamente buona, ma soprattutto armoniosa: anche l’alcol è a puntino. L’ ho trovato perfetto un po’ fresco anche in una giornata di calda di inizio giugno, col termometro oltre i trenta gradi: tanto sulla panzanella che sui saltimbocca, e persino da solo, godendomi la sua compagnia al posto del dolce. Non risultasse un po’ offensivo lo descriverei a qualche amico straniero come un Pinot Nero mediterraneo, una declinazione siciliana del concetto del Borgogna: ma guardando ai villages e forse addirittura ai Premier Cru, per dire a quali livelli questo vino vola.

Curtefranca Rosso 2010, Lantieri de Paratico, 12,5 gradi.

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Perché la Franciacorta sia così sottovalutata sui vini rossi, produzione storica anteriore ai metodo classico, è qualcosa che stento a capire senza inquadrarla in dinamiche strettamente commerciali e comunicative. Si noti che la produzione di vini fermi e rossi in particolare è di tradizione antica, mentre la via spumantistica ha storia relativamente breve, le prime prove risalenti agli Anni Sessanta del secolo  scorso; vedi, amica o amico che mi leggi, lo storico “I vini d’Italia” che Luigi Veronelli diede alle stampe nel 1961 per i tipi di Canesi: di spumante nemmeno l’ombra ed al contrario si cita il vino da pasto e “se ben vinificato, vino fine da pasto” , per altro con base ampeleografica assai diversa dall’attuale ed acidità totali stupefacenti agli occhi nostri contemporanei. Io inoltre ricordo che bambino nel ristorante di famiglia i Franciacorta erano bianchi e rossi (correvano i primi Anni Ottanta), mentre  i metodo classico della denominazione bresciana comparvero solo in seguito, credo a seguito della rinomanza dovuta a un pranzo di stato durante il quale bottiglie di Bellavista o Ca’ del bosco vennero servite alla Regina Elisabetta d’Inghilterra.
Fatto sta che spesso quando stappo un rosso di Franciacorta, giovane o invecchiato, sono belle sorprese.
Ad esempio questo Curtefranca Rosso di Lantieri de Paratico,così composto: Cabernet Sauvignon 40%, Cabernet Franc 25%, Merlot 20%,  Nebbiolo 10%, Barbera 5%; è un gioiellino, sorprendente lieve e giovanile, dinamico e complesso. Eccezionalmente bello e luminoso nella sua veste color rubino trasparente, che tende al granato. Lascia sul calice lacrime irregolari, evidenti e sostanziose, mentre si muove flessuoso e leggero. Vi trovo un profumo freschissimo e di grande intensità e purezza, nitidissimo e gentile. Floreale ed erbaceo, anzitutto: si sentono le uve bordolesi, la speziatura del Cabernet Franc, con un certo che di pepe verde e un tocco mentolato. Emergono però poi netti i vitigni piemontesi, nebbiolo e Barbera: la rosa, la liquirizia, un certo pepe nero, il rosmarino. Un po’ di frutta rossa a polpa gialla: pesche noci estremamente mature, che fanno da fondale alle rose, ma anche amarena, lampone, persino fragola.  Al di sotto mirtilli, more. Un cenno appena si insinua come di tabacco biondo ed un altro ematico, una spolverata di grafite, di polvere di caffè e cacao amaro. Una nota affumicata, tostata, che deriva dal legno di affinamento, in effetti c’è, ma minima: si sente più nel calice vuoto.  Di corpo medio, all’attacco sul palato è lieve e carezzevole, vellutato, ma poi si allarga in un centro bocca ampio, gustoso, succoso, pieno di polpa,  che schiocca un bacio ed avvolge, ma che non sta fermo e prosegue il suo cammino allungandosi come un’ombra della sera armonico, asciutto, salino,  appena un po’ ammandorlato, con una persistenza discreta – non epocale – ma irradiante e pura, che si giova del misurato contenuto di alcol. Possiede tannino in media quantità, fine ma non privo di grinta; acidità assai spiccata, brillante per come mi pare integrata, invitantissima. Lo immagino ottimo su paste al ragù, lasagne, cannelloni, magari su carne bianca arrosto e da osare sulla tinca ripiena, alla maniera di Clusane. Questo vino aggraziato e robusto, gentile ed energico, quotidiano e signorile, amichevole più che amante, s’appaia bene a certa pittura lombarda, dolce e materica, come quella di Savoldo, di Moretto, o degli Induno, con quell’eleganza del caso anche un po’ ruvida. E mi par bello che in una zona sotto i riflettori come la Franciacorta ci siano ancora vini da scoprire; di più, cantine da scoprire: perché a dispetto della sua storia Lantieri de Paratico non è esattamente sulla bocca di tutti, ma io non ho mai assaggiato una loro bottiglia che fosse men che precisa, equilibrata, elegante.

Barbacarlo 2011, Provincia di Pavia rosso IGT, Az. Agr. Barbacarlo, 14,5 gradi.

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Le parole, secondo certe tradizioni esoteriche, hanno una forza che prescinde dal loro significato, ma è contenuta nel suono stesso: il pronunciarle risuonerebbe nell’universo alterando la materia, ma pure evocando spiriti, entità, angeli e demoni. La magia: ne sono intrise le storie, le leggende, le fiabe. “Abracadabra”, “Apriti Sesamo”, “Pape Satan Aleppe” giù giù fino a un “Supercalifragilistichespiralidoso”: fonti diverse, ma in comune la caratteristica di essere parole scolpite, sonanti.
Tra i vini, il Barbacarlo è forse quello dal nome più sonante nel senso appunto esoterico: stento a paragonargliene altri. Potrebbe stare tranquillamente sulla tavola di qualche personaggio del Signore degli Anelli, magari muovendosi nella bottiglia e nel bicchiere animato da una vita propria, apportando consolazione, oblio, felicità; corroborante o lenitivo, persino filtro d’amore all’occorrenza.
E già mi accorgo di averne senza volere pennellato un ritratto, del Barbacarlo. La storia dice di un Carlo zio (“barba”, nella vecchia parlata dell’Oltrepo’ Pavese ), che aveva una vigna verticalissima e molto sassosa: in suo onore, si diede al vino dal quel Cru proveniente il nome curioso.
Ma la vigna, chi l’ha mai vista? Si dice appunto ripidissima, esposta a sud-ovest, dai terreni tufacei e  ghiaiosi. Se vai a Broni, in cantina, di essa ci son foto sbiadite e ingiallite, ectoplasmi in bianco e nero. In compenso, sassi grossi e tondi, pesanti, levigati come ossa fossili di mostri primordiali, scampate ad un cataclisma. Fuori, la facciata di una cascina da tempo inglobata nel borgo in piano, l’insegna dai caratteri fuori moda, a bandiera, che dondola al vento cigolando; piccole lampade al muro -di ferro anch’esse- accanto alla porta, ambrate, che ricordano quelle delle osterie di un tempo ed indicano la strada nelle nebbie padane. Dentro odor di vino, di legno vecchio, di fuoco, di annosi mobili,  di ricordi: appesi al muro antichissimi ritagli di giornale, etichette, immagini, volti di persone che non ci sono più. In fila, sulle mensole, bottiglie di annate venerande, indietro di 30, 40, 50 e più anni, nere e schierate immobili come le teste sull’Isola di Pasqua. Un tavolone di legno sul quale si allineano invece le annate più giovani, che potrai assaggiare: gioventù relativa, se si va indietro anche di dodici anni. Altri lì come te per acquisto, conoscenza o più ancora pellegrinaggio rituale, che ti offrono fette di bresaola e violino di capra artigiani, preparati da loro – come a un desco comune, sul cammino francigeno: con un sorriso di comunione. E c’e il vignaiolo, custode: un uomo anziano, con gli occhi vividi ma stanchi dietro gli occhiali spessi, come la sua voce ed il sorriso mesto. Veste velluto, fustagno, lana: indossa i colori della terra. Nella sala ampia si sta bene, c’è caldo, però ha una sciarpa al collo ed una coppola che mai si leva a coprigli il capo. Non parla molto: se sia assente o studi gli interlocutori bisogna indovinarlo. Vien da pensare: forse ha perso un po’ l’udito. Di quando in quando ripete, quasi recitasse una sua preghiera a fior di labbra: “il vino è il sale della terra”. Anche lui, nel suo nome una magia: Maga Lino; o forse Mago?
Il Barbacarlo è un vino fatto nello stesso modo, dalla stessa vigna, con le stesse varietà di uva, dalla stessa famiglia fin dalla metà del Secolo XIX: una data si menziona, 1886. Croatina, uva rara, vespolina (localmente ughetta), un tocco di barbera. Se ho ben capita la formula, trae dalla prima buona parte di gusto, struttura e corpo; dalla seconda colore profondo, morbidezza e zuccheri; dalla terza, tannino e speziatura; dalla quarta, un rinforzo di acidità. La chimica in vigna e in cantina è pressoché bandita. Pigiatura dei frutti e macerazioni in botti vecchie di rovere, svinatura dopo una settimana circa, poi travasi per decantarlo naturalmente e si imbottiglia tra Aprile e Maggio. Risultato: il Barbacarlo viene come vuol lui, sentendo l’annata; se va in bottiglia con ancora residuo zuccherino, come spesso capita, vi fermenta nuovamente, risultando più o meno mosso, più o meno secco, virando talvolta deciso sull’abboccato e sull’amabile. Anche il grado alcolico varia secondo ciò che la vendemmia ha portato: qui non si cercano aggiustamenti, o di inseguire uno standard. Al collo di ogni bottiglia si lega, però, un certificato con l’analisi chimico-fisica ed una sommaria descrizione organolettica. Su questo che ho tra le mani del Barbacarlo 2011,  leggo: “da considerarsi ampio-abboccato”. Il Barbacarlo 2011 si beve da solo, irresistibile: semplicemente, va giù. Rubino, tendente al purpureo, appena mosso: spumeggia ma in modo lieve. La profondità del suo colore varia per via della presenza del fondo: ci ricorda che non è stato filtrato. Anima rustica, dirai;  piuttosto carne, ti risponderò io, terra e materia. L’annusi: è assai intenso, complessissimo; un po’ ridotto sulle prime, direbbero “farmyard” gli inglesi, ed è ancora la terra che ritorna. Concedigli qualche momento dopo che ne hai estratto il tappo insolitamente largo ed elastico, da vino frizzante; dopo che l’avrai versato in un calice che consiglio ampio, ma senza eccessi, lascia che esali il suo incantesimo e si libri. Avrai poi frutta rossa e nera, matura e fresca e persino appassita: fosse possibile evocheresti un’uva sultanina, ma croccante. Sì: susine, more, mirtilli; ma oltre a queste note giovanili e fruttate, c’è un segreto di complessità inattese, quasi che la sua natura la svelasse poco a poco: bacche di ginepro si fondono col chinotto; le spezie al completo, dolci e piccanti: noce moscata, cannella, chiodi di garofano, ultimi lontani e tenui sbuffi di pepe; la buccia di pomodoro si mischia  alla scorza di arancia e la bilancia come in una magica dispensa; il rosmarino sta lieve ed olezza della roccia dura dove nasce. In bocca, lo sentirai, è ancora meglio: fresco, sostenuto, tutto vibrante. E’ mosso, ma dopo un po’ questa sensazione di anidride carbonica si perde e rimane un pizzicore, sgrassante. Ne sentirai il gran corpo, l’alta acidità, quel poco di residuo zuccherino che lo rende abboccato, la sua notevolissima lunghezza un po’ ammandorlata negli accordi finali. Soprattutto è gustosissimo, così salino da essere croccante, estremamente identitario: se ci pensi, questo vino mosso ha l’alcol ed il corpo di un Brunello! L’ho goduto su ossobuco e risotto giallo: non ho resistito, questa volta, alle gioie della tradizione.