Bozzetti vinosi, tra ottobre e novembre 2021.

Ottobre e novembre sono trascorsi, senza nemmeno lasciare il tempo per un appunto al vino.

Queste bottiglie che si sono allineate sulla mia tavola, però, spiace passarle sotto silenzio. Ognuna una personalità decisa, con la quale nemmeno andare d’accordo, magari, ma che merita il racconto: saranno solo bozzetti al limite della sprezzatura, istantanee còlte frugando nella memoria di emozioni vivide.

Il Chianti Classico 2016 della famiglia Losi viene da Querciavalle, e lì appresso l’ho gustato, un giorno bigio e piovoso di fine ottobre, ma dolcissimo nei colori dell’autunno del Chianti, che dagli occhi discendono all’anima. Dei vini di Castelnuovo Berardenga ha la voce profonda e baritonale, il chiaroscuro, ma rifugge lo stereotipo che li vuole caldi, distesi. Qui c’è una trama rifinita e polifonica, di ispirazione autentica ed artigiana. Un incontro atteso da tempo e nuovo approdo nel mio personale tragitto al bere bene chiantigiano.

Il Chianti Classico 2009 di Castellinuzza e Piuca, da Lamole, pescato dalla una mia cantina, vola dritto al cuore. Sangiovese e canaiolo vinificati e affinati in cemento, essenziale semplicità. I fiori dei vini di Lamole sono tuttì lì, a dispetto dei tredici anni dalla vendemmia, in una composizione dove ai freschi si affiancani gli essicati, i frutti rossi subordinati, ed un ventaglio di profumi di bosco, di terra, di pietra: un’insieme di eleganza struggente. Ha il corpo e il tannino robusti di un vino da climi caldi, ma profumi e tensione interna di tale energia – il vibrato stretto, iridescente, di uno strumento ad arco che suoni forte – da gran vino di montagna. Resta in bocca una sensazione d’uva matura, quasi la buccia tra i denti schiacciata. Indimenticabile.

Il Chianti Classico Gran Selezione 2015 di La Castellina viene da un’altra annata ottima in zona. Un colore limpido, trasparente, luminoso, per una materia materia nitida, bellissima per tensione, freschezza, profondità, tannino raffinato, allungo, con la luminosità dei vini di Castellina – perfetto equilibrio tra fiore e frutto – un po’ offuscata dal legno dell’affinamento. E’ uno stile che a taluni piacerà, ma è un peccato: sarebbe bello potesse librarsi, perché riuscirebbe irresistibile.

Il Rosso di Montalcino 2006 di Lambardi potremmo definirlo didascalico della tipologia, ma non gli renderemmo giustizia. Con lui si sta a proprio agio: pacatamente racconta il Sangiovese di Montalcino, la sua forza, la rilazzatezza, i sussurri, le trasparenze, i dettagli, il ritmo cadenzato, il senso della misura, la tenuta. E’ un racconto semplice, si badi, senza accensioni, né impennate, ma con quell’onestà affidabile che talvolta sfugge ai grandi oratori.

Col Donnas 2005 della Caves Cooperatives de Donnas basta chiudere gli occhi e si entra nella cucina fumosa di una baita o di un castello alpino. Non è pura retorica: con gli anni, il caratteristico profumo del Nebbiolo, l’accoppiata classica di rosa e liquerizia, si è arricchita di una tinta silvestre e più ancora speziata ed ematica: ginepro, chiodo di garofano e sangue, che sembrano evocare istantaneamente fumanti portate di cervo in salmì. Un vino severo, dal passo antico, con qualche ruga e un grande fascino.

Herzu 2006 è un Riesling Renano dell’Alta Langa, forse il primo ad accendere le luci sulla zona qualche anno addietro, per felice intuizione di Sergio Germano, grande barolista dalla mano felice anche coi bianchi. Dopo quindici anni è splendido: del Riesling ha il nerbo, la stretta esaltante, il nitore dorato e deciso, l’ariosa compattezza: “erto”, come il suo nome suggerisce. In piena maturità, si libra tra le note più delicate della gioventù (l’uva spina, il biancospino, il sambuco) e quelle più evolute (la pietra focaia, l’idrocarburo). Peso medio, Riesling secco “di razza purissima”, come si sarebbe detto un tempo, nella perfetta individuazione varietale non rinuncia ad una identità territoriale netta, sì che in un ideale atlante dei Riesling del mondo quest’area piemontese troverebbe di diritto spazio.

Bevo, a più di due anni dalla messa in commercio, l’Asolo Prosecco Superiore Extra Brut di Tenuta Amadio – pericolosamente l’ultima di una dozzina di bottiglie condivise con amici in varie occasioni – e abbagliante, improvviso comprendo il motivo del successo universale del Prosecco. In lui, finezza, purezza, grazia, leggerezza, freschezza, delicatezza, raffinatezza, unite ad una vibrante intensità: ritrovarle in altri spumanti di qualsivoglia tipologia o area, tutte riunite nella medesima armonica proporzione, impossibile! Inoltre, con la sua trina di profumi e la setosità tattile, è così docile nell’accompagnare la tavola, spaziando dal più disimpegnato aperitivo con le chips fino alle fritture di mare, attraverso le preparazioni più leggere e vegetariane, accordate al vivere contemporaneo. Accompagna, appunto, in senso squisitamente musicale: sa restare sullo sfondo con arte sottile, valorizzando le vivande e la compagnia, in modo che esse, non lui, risaltino. Vero: questo Asolo è l’esempio eccezionale di un areale estremamente vocato, mentre i tanti Prosecco corrivi che esistono in commercio sono solo pallide ombre a confronto; perciò, a maggior ragione lascia un segno.

Colli Trevigiani IGT “Venegazzù della casa” 2005, Loredan Gasparini, 13 gradi.

Rimango sempre tiepido verso i tagli bordolesi italici: intendo quelli classici, da Merlot e Cabernet principalmente, con l’aggiunta delle altre uve rosse complementari dei Bordeaux.

Molti hanno un piglio dimostrativo, che mal si sposa coi miei gusti e le mie vivande; altri sono troppo slegati dal territorio per destare il mio interesse; alcuni sono buonissimi, ma richiedono esborsi che sopporto più volentieri per un grande Nebbiolo, o un grande Sangiovese, a me più congeniali.

E persino tra i buonissimi, trovo una certa inclinazione o verso interpretazioni scopertamente mediterranee, di luci dirette e tinte accese, o verso toni intellettualistici, di rigori geometrici e colori freddi. Insomma, il punto di equilibrio tra elegante ricercatezza e coinvolgente eloquio sfugge sovente.

Gli storici tagli bordolesi di Loredana Gasparini mi hanno invece sempre conquistato, dal lontanissimo primo assaggio del sontuoso Capo di Stato, mai abbastanza lodato, al più immediato Venegazzù, vino decisamente sottovalutato.

Varrebbe la pena spendere qualche parola sul territorio e sulla storia dell’azienda, ma non è questa l’occasione adatta.

Basti dire i vini del Montello, rilievo di circa 6000 ettari che supera di slancio i 370 metri d’altezza, sono lodati già dal ‘500 e che le uve bordolesi per la produzione di vini pregiati vennero piantate dal Conte Loredan Gasperini già negli anni ‘50. Il primissimo Rosso di Venegazzù – toponimo riportato anticamente come Vignigazzù – è appunto del 1951.

Negli anni questi tagli bordolesi hanno mantenuto la loro naturale suadenza: una ricchezza strutturata e setosa, naturale e scorrevole, aperta ma sfumata. Forse è la forza del territorio e dei suoli del Montello, terre rosse con ciottoli calcari, granitici e porfirici in matrice argillosa, detriti alpini portati dal corso del Piave; oppure il taglio indovinato di Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc, Malbec; o, infine, l’affinamento che per il Venegazzù della Casa è di 36 in botte grande, evitando la barrique che l’ortodossa adesione all’enologia bordolese avrebbe suggerito, forse per la consapevolezza di una materia prima diversa.

Consapevolezza: forse questo è il segreto che negli anni chi ha accudito questi vini si è passato di mano.

Ho una passione particolare per il Venegazzù: un vino eccezionale che si può trovare a prezzi onestissimi e che, pur prestante, non stanca mai.

Avevo semmai un dubbio circa lo stato di forma di questa bottiglia quindicenne dalla vita travagliata, causa ripetuti via vai tra la mia cantina e l’appartamento.

Tuttavia, se il colore è granato impenetrabile, il vino è smagliante: “in evoluzione”, ma per nulla “evoluto”.

Lascia sul calice gocciole lentissime, regolari, persistenti, come spesso accade con i grandi Rossi invecchiati.

Il suo profumo è molto intenso, nitido, complesso: un bouquet amplissimo, dalla frutta rossa e nera, come amarena matura e la prugna essiccata, al peperone, al pepe verde e bianco, e poi cacao, rabarbaro, caffè macinato, castagne, alloro, rosmarino, balsami, legno di cedro, tabacco.

Di corpo poco più che medio, ha estrema finezza, avvolgenza setosa, concentrazione senza eccessi, armonia. Con un tannino ben presente, ma morbido; un’acidità notevolissima, rinfrescante, ma naturalmente celata; una residua carbonica disciolta; un tenore alcolico giudizioso; offre un sorso estremamente continuo, lirico, arioso, senza asperità, lunghissimo.

Il legno di affinamento non è percettibile.

Difficile distinguere questo vino signorilissimo, finissimo, da un bordeaux di buon comando, un grand cru bordolese o second vin di una gran firma, se non, forse, per un tocco di comunicativa italiana, espressa fluentemente, senza ansie dimostrative.

Goduto su un filetto di piemontese alla griglia, con sale pepe rosmarino e l’olio di Ormannni, Poggibonsi.

Salento Primitivo Vigne Vecchie 2005, Duca Carlo Guarini, 13,5 gradi.

“I vini vecchi si assomigliano tutti”: tante volte ho sentito questa frase, quante non mi ha persuaso.

Qui una clamorosa smentita: un Primitivo salentino di 13 anni.

Ho poca dimestichezza coi vini pugliesi e non ho esperienza di altri Primitivo lungamente invecchiati.

Questa bottiglia fu il frutto di uno scambio col mio amico Roberto, compagno di viaggi per cantine. L’estate del 2008 lui aveva girato il sud, io il centro-nord; ci trovammo a San Gimignano coi bagagliai delle auto pieni di vini e si fece a metà.

Finì in cantina e lì rimase, perché era legata a un bel ricordo e mi spiaceva aprirlo senza un’occasione. Quasi la dimenticai. Ho poi imparato che l’occasione giusta è quando mi va e perciò mi son deciso.

Ecco: non si potrebbe sicuramente confonderlo né con un Nebbiolo, né con un Sangiovese invecchiato. Nemmeno con un Bordeaux. Tutt’altro spirito qui, tutt’altra tempra. Chi sostiene che i vini invecchiando si somigliano, forse vini vecchi non ne ha assaggiati abbastanza.

Questo è diverso da ogni altro vino rosso invecchiato che io abbia assaggiato.

Granato scuro e profondo, ma ancóra trasparente, lascia sul calice gocciole lunghe, di lentezza e persistenza estenuate, regolari e fitte.

Profumo è molto intenso, in evoluzione spinta, cangiante tra mora di rovo, oliva e carciofi alla brace, cappero, brace d’olivo, noce, prugna secca, caramello, cacao, sedano, ferro, caffè, pomodoro secco, origano, cardi, cime di rapa, pasta di acciughe; profumi per me nobilissimi, perché mediterranei, illuminati e addolciti da fiori di campo, pesca, noce moscata, cannella.

L’assaggio richiede un certo tempo di assestamento dopo l’apertura.

È secco, con notevolissima componete glicerica ad ammorbidirlo, quasi ingannatrice.

Il tannino è molto fine, ma assai presente (quale differenza rispetto a tanti Primitivo levigati e morbidi in commercio); spiccatissima l’acidità, percussiva e insistente; il corpo ampio ma dinamico, che attacca conciliante, frusta, si spenge su una lunga folata di gusto e di alcol, come scirocco d’estate al mare.

Non è un vino per tutti i palati e può riuscire anche sconcertante; per me, però, è buonissimo. L’ho gustato con piacere su lasagne al forno e su un’arista; l’immagino delizioso su umidi importanti, ad esempio di castrato.

Montecucco Sangiovese Santa Marta 2005, Salustri, 14 gradi.

Lessi anni addietro l’intervista ad un noto degustatore di vini italiano. Gli chiedevano se ci fossero ancora territori toscani da scoprire enologicamente. La risposta, perentoria: “No”.

Vero, ma discutibile: esistono zone toscane tutt’oggi sottovalutate o non consapevoli delle loro qualità, o che non le hanno espresse appieno o non le hanno espresse affatto.

Alla medesima domanda, risponderei: “Montecucco”. Una provocazione circosostanziata.

Scommetto che il 70 per cento dei consumatori un po’’ accorti non sappia dove sia o che cosa sia la DOCG Montecucco.

Ciò che non è noto o conosciuto, in qualche modo non è scoperto; però i vini del Montecucco valgono ampiamente la ricerca.

Frequento la zona con una certa assiduità da qualche anno: garantisco, non solo molti vini sono eccellenti, ma posseggono un’individualità pulsante e caratteristica, soprattutto quando la voce del sangiovese predomina.

L’areale della DOCG, infatti, è ampio: steso tra le prime alture maremmane e il massiccio del Monte Amiata, permette di individuare sottozone specifiche: Cinigiano, ad esempio, con la sua luminosità intensa e gli affacci ampi, ariosi verso il mare, si differenzia assai dalla pedemontana Seggiano, con le sue valli e vallecole incantate.

C’è però – mi sono chiesto – un tratto in comune che identifica il vino rosso di questo territorio, che meriterebbe chiamarsi più propriamente “Colline Amiatine” o direttamente “Amiata”?

Per trovare una risposta, dopo qualche giorno di vacanza assaggiando assiduamente vini di Casteldelpiano, Seggiano (con le sue frazioni di Pescina, Poggio Ferro…), Montenero, Monticello Amiata, Cinigiano (e la sua frazione di Castiglioncello Bandini), sono andato a rivedere le vecchie note di assaggio relative ad un vino del produttore simbolo dell’areale, Leonardo Salustri: un Sangiovese in purezza che estrassi dalla mia cantina privata il 1 novembre del 2017, già vetusto di anni.

Credo dunque si possa riconoscere nei vini del Montecucco una fondativa, marcante balsamicità, intensa fino al resinato, ed una pienezza tattile riposata, ma compatta.

Quando lo bevvi, era già vecchio di 12 anni: un bel sangiovese classico di Cinigiano: ampio, equilibrato, rotondo, mediterraneamente fruttato, ma sfumato, minerale, intimamente classico.

Un vino maiuscolo al solo accostarci le nari, ché non si poteva resistere; svezzato tra tini di legno, cemento e botte grande, prima di andare in bottiglia.

Il colore stupiva e lasciava allibiti, perché ancora estremamente rubino dopo 12 anni: trasparente, con lacrime fitte, irregolari e veloci.

Un profumo di intensità ben superiore alla media, Integro e in evoluzione, insieme fruttato e minerale, ma soprattutto boschivo: di boschi assolati e selvaggi.

Ciliegia e mora erano un sottofondo lontano; il primo piano alloro, paglia al sole, aria aperta, “infiniti spazi e sovrumani silenzi”; poi polvere pirica, fegato, una speziatura, mista dolce e piccante, di pepe, noce moscata e chiodo di garofano.

Equilibratissimo al palato, fresco, rotondo, con corpo pieno, grande acidità, alcol perfetto ed un gusto di intensità rapinosa e rarissima. Molto persistente, con allungo naturalissimo nell’espressione.

Un tannino fitto e grintoso, appena un po’ rustico, ma vero, netto, forte e maschio.

Sole, maschio, equilibrio naturale, integro, netto, carezzevole, irradiante: come un diedro rifrange scomponendo la luce, così lui rifrangeva la parola “buono”.

Fu un accordo perfetto e d’amore su un anatra arrosto con olive e cavolo nero.

Ribera del Duero Crianza 2005, Matarromera, 14,5 gradi.

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Può un vino esprimere un sentimento? Domanda oziosa, forse oziosissima. Verrebbe da dire che un vino, semmai, un sentimento lo suscita in te che lo ascolti, evocandoti ricordi, esperienze , suggestioni, sogni, che son già dentro di te; similmente, in parte, alla musica.
Io poche volte ho percepito un senso di solitudine così vera come in certe zone centrali della Spagna: lande sconfinate, spesso aride, dagli ampi silenzi: il vero Far West europeo, non per nulla fondale immaginifico di tanti film di Sergio Leone e di Corbucci; non per nulla, scenario delle gesta folli e malinconiche di Don Chisciotte: perché di fronte a quel nulla, sotto quella luce che acceca, si può anche impazzire. La Ribera del Duero è una di queste terre, parte della regione della Castilla y Leòn: un altopiano ondulato e luminosissimo perché posto a quote elevate, in media 800 metri sul livello del mare, solcato nel mezzo da quel fiume che entrerà poi in Portogallo  scorrendo verso l’Atlantico e cambiando lievemente nome: da Duero a Douro , portando altre storie ed altri vini. Terra di sabbie e ciottoli calcarei, bianchissimi, che riflettono abbaglianti la luce; arida, con soli 450 millimetri di pioggia l’anno – ricorda, amica o amico che mi leggi: 700 millimetri è la media italiana.
Lì, si fa vino da secoli: già i Romani vi avevano portato Bacco. Lì, l’uva è il tempranillo, come nella Rioja, ma assume caratteri particolari al punto che si giustifica quasi che abbia un suo nome locale: Tinto fino; perché in effetti, la combinazione della luce nitida dell’alta quota, dei tanti giorni di sole e delle terre bianche, dona caratteri ai vini originali e spiccati: più alcolici, più potenti, ma di una peculiare finezza tannica anche quando sono relativamente giovani; ed irradianti, quasi la luminosità che ricevono le uve si facesse succo da bere.
L’ultimo Ribera del Duero l’assaggiai ormai qualche tempo addietro, il 20 luglio del 2015. Il vino aveva già dieci anni, ma il tempo non è un problema per i Ribera del Duero; ed, infatti, non lo era stato per questo Matarromera, ancora rubino scurissimo alla vista, profondo, con il sentore del legno  di affinamento ancora evidente come spesso capita coi moderni rossi spagnoli. Oltre il legno, però, l’evidenza della frutta rossa molto matura, ma fresca; e della frutta nera; poi cera, pelle ed un senso di legno diverso, più naturale, muschioso, evocativo, più parte del vino medesimo che sovrapposizione enologica. Puro e suadente al sorso, di corpo ampio ma fresco, con un’acidità superiore alla media ed un tannino ben presente, ma molto fine; lunghissimo, con   un retrolfatto che ricorda il succo amaro del melograno e le carrube. Eccola, la luminosità della Ribera, in questo vino di gran stoffa e rango, non fine, ma orgoglioso e generoso, quasi picaresco: sì, perché se chiudo gli occhi e mi vesto di stracci, e sogno di lanciarmi in irregolari avventure tra una taverna e l’altra, nel mio romanzo io bevo un vino così: per sola amica, la solitudine.

Chianti Classico 2005, Ormanni, 14 gradi.

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Poi, dopo tanti assaggi, apri di nuovo un vino di Gambelli. E capisci.
Che cosa si può capire, da un vino? Nulla e tutto.
Ad esempio, che sei tornato a casa: quel colore, quei profumi, sono parte della tua storia, della tua famiglia, delle tue origini, ormai lontanissime, ma orgogliosamente contadine; quello che senti lì, è Toscana, è Chianti Classico, è Sangiovese ed, anche, un po’ di Canaiolo; è poesia di Stilnovo e bestemmia di bifolco, così schiette e inestricabilmente unite; quello, dopo tanti assaggi, dopo tanto vagare per terre, mari, colline, montagne, pianure, coste, terrazzi, ritocchini, cru e sorì,  è la tua idea originaria di finezza ed eleganza, che tanto hai girato per trovare ed era lì, davanti all’uscio o, meglio, nell’interrato buio del tuo vecchio sottoscala; quello, ti dice che più spesso avresti dovuto aprirne, per ricordare, però sai che invece devi serbarne perché si ripeta ancora la magia, perché il mago, il Sor Giulio, non c’è più.
Il Chianti Classico 2005 di Ormanni, azienda storicissima , sita grosso modo all’incrocio tra i territori di Poggibonsi, Barberino Val d’Elsa e Castellina in Chianti. Azienda del cuore, se così si può, dire di Giulio Gambelli, che il Maestro seguì fino all’ultimo,  con quelle poche altre dove sapeva di aver carta bianca ed ottimi terreni: nel gruppo, per dire, Montevertine, Poggio di Sotto, la scomparsa Villa Rosa: i miti.
Fu un vino  particolare quel 2005, perché da Ormanni non si produsse la Riserva di Chianti Classico “Borro del Diavolo” , la cui materia confluì nel Chianti Classico annata non essendo ritenuta all’altezza della più prestigiosa etichetta. Ne comprai direttamente in cantina, e me lo ricordo, bevuto giovane, come scalpitava maschio. Ora lo riapro a 12 anni dalla vendemmia, nemmeno gli lascio il tempo di respirare: aperto e subito nel bicchiere, fiducioso anche per il tappo di sughero intero in perfettissime condizioni. Aperto e subito bello; meno male, però, che me lo gusto con calma, lasciandogli il tempo di dispiegarsi: già, perché questo è uno di quei vini che reagisce all’ossigeno cambiando continuamente, un po’ caleidoscopio, un po’ coda di pavone.
Anzitutto, però, lo guardo: non mi privo, amico o amica che mi leggi, del piacere della vista. È rubino trasparente e luminoso, ricco di riflessi, e vira in maniera estremamente progressiva e naturale all’aranciato verso il bordo. Lascia sul cristallo lacrime molto lente, molto fitte e regolari, molto persistenti: una trina equabile e solenne, come gli archetti delle chiese di stile romanico pisano-lucchese. Il profumo, subito pulito, è di intensità notevolissima, ma in qualche maniera contenuto, riservato: di una ritrosia elegante e pacata, ne vedi subito la melodia, tuttavia serve tempo per discernere le note e gli accordi, i passi dei violini e i trilli degli strumentini. I fiori del vero Chianti Classico: le viole, l’iris, la rosa canina. La frutta rossa insieme presente e sfumata: ciliegie, lamponi, amarene, susine; una speziatura complessa  e delicata che spazia dalle note del pepe bianco, alla noce moscata, al chiodo di garofano. Le erbe, con ancor più  complessità e delicatezza: rosmarino, salvia essiccata, alloro, timo, maggiorana. Un fondale morbido e arioso di bergamotto, che prelude ad accenni di sviluppo terziario, più evocati che reali: quasi un sentimento di paglia al sole e terra umida, accomunati in un acquarellato trascolorare. Tuttavia, ogni volta che ritorno al calice, un nuovo fantasma mi sorride e mi invita a seguirlo: ora il dattero verso un Oriente di fiaba, ora la ruggine di cancelli del tempo fatati, ora la canfora e la lavanda che nonne e mamme mettevano nei cassetti di bucato, ora le rocce di un muro scolpite dal vento, ora la pelliccia di volpe che indossava mia mamma quando veniva a prendermi alle scuole elementari e mi piaceva tuffarmi in quel morbido pelo; ora, i balsami dell’eucalipto, e i lunghi pomeriggi alla casa al mare. Il sorso è sognante: freschissimo, nitido e morbido insieme, setoso e croccante allo stesso tempo, in misura eguale maturo e succoso. Di ottimo corpo, eppure compatto sul palato, come se nello scorrere seguisse una linea flessibile ma continua come un binario e da lì irradiasse il suo sapore e tutta la sua struttura: ne basta un sorso minimo sulla punta della lingua per sentire il sapore espandersi, come fosse un giulebbe, un elisir. L’equilibrio è la sua grazia: dimentichi tannino, acidità , alcol e qualunque altro parametro in virtù dell’armonia. Eppure, tannino ce n’è assai, di setosissima qualità, matura; assai anche di acidità, ma così ben distribuita da risultare stuzzicante su tutto il fondo del palato, unendosi così naturalmente con la salinità da faticare a distinguerle. L’alcol, si percepisce a stento o per nulla, né col vino in bocca, nè nel finale, pulitissimo, lunghissimo, suadente nei suoi sussurri, non ampio nella sensazione, ma penetrante, profondo, articolato, vieppiù esaltato dal cibo.
Certo, son sfumature, è un vino da ascolto attento, da grandi silenzi ; eppure te ne puoi anche scordare e berlo così, in compagnia, scorrevole e amico: lui troverà sempre il suo posto. Non è, forse, il sommo dei vini di Gambelli: le annate giocano giustamente un ruolo e così l’ambizione delle selezioni; ma c’è anche in lui quell’ariosità soffice che ho sentito, impareggiabile, in tutte le sue creature; e ritrovo in questo Chianti Classico la mia idea di vino: fatta di grazia, di purezza, di levità, anche quando, come in lui,  la forza non manca. Serve il territorio, naturalmente; serve anche il vitigno, chiaro; ma se quell’idea la ritrovo in certi Pinot Nero, in certi Nebbiolo, in certi Sangiovese, allora conta, eccome,  la mano dell’uomo. Quella del Maestro, da anni si è fermata; ma il suo gesto, oggi mille mani lo possono ripetere, se lo vogliono.
Qualora tu abbia la fortuna, amico o amica che mi leggi, di trovarne, godine sulle carni bianche. Meglio: sulle pernici.

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Gaggiarone, Bonarda dell’Oltrepo’ Pavese Riserva 2005, Annibale Alziati, 14 gradi.

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Le vecchie osterie milanesi, quando ero bimbetto io, erano già una specie in via di estinzione: ne resistevano scampoli qui e là, sui Navigli, nelle periferie che ancora si confondevano coi campi, al Laghetto, in via Orti. Era una Milano più autentica ed umile, che l’autunno si prendeva per mantello un velo di nebbia fitto come la stoffa di un loden, che dal capo appunto del Laghetto non si vedeva il fondo, laddove si incrocia la via Francesco Sforza e la cerchia dei Navigli, poco dopo le fronde e la cancellata del giardino della Guastalla.
Erano, quelle osterie, come tante altre in tutt’Italia, rumorose, chiassose, polverose, coi tavoli di legno e le tovaglie a quadri; nella loro fase decadente, un po’ malinconiche e frequentate da personaggi  tristi e segnati dalla vita. Per allegrezza prima e per dolore poi, il gomito si alzava facile: Barbera, o più spesso Bonarda dell’Oltrepò Pavese era il combustibile: così frizzante e briosa, giovane e giustamente acida ma anche ricca e morbida al palato, consolatoria come le acque lombarde delle rogge, dei canali, dei laghi, pronte a dare la vita e la gioia, ma anche a raccogliere l’eterna requie, come nella storia della bella Gigogin e del suo innamorato che “veniva a piedi da Lodi a Milano”; diversa pertanto dal nervoso Lambruso, che essendo emiliano e battendogli in capo il sole della Bassa è sempre pronto a menar le mani. E difatti ancora oggi, quando viene qualche amico di fuori che vuol provare la cucina di Milano e lo porto ad assaggiare in qualche ricreata  trattoria di buon comando il riso al salto, la cotoletta, i mondeghili e l’ossobuco, mi piace ordinare la frizzante Bonarda (femmina, lei), che tutto lava e ben ci sta.
Tuttavia, il quadro abbozzato fin qui è anche parziale ed equivoco. Un passo indietro: si dice Bonarda, ma si parla dell’uva croatina, che è a bacca nera, ha una buccia importante ed una buona riserva di tannini. Essa entra come componente minoritaria, ma in dosi rilevanti, nel taglio di tanti vini del nord Piemonte, che sono fermissimi, secchi e da invecchiamento: quindi un’uva dalle grandi potenzialità,  solo parzialmente espresse nella versione oltrepadana amabile  e frizzantina, benché piacevolissima e golosa. E tuttavia qualche perplessità sull’effettivo valore di una croatina ferma secca può permanere, finché non se ne assaggia un altissimo esemplare. Qualche anno addietro andai a La Terra Trema, benemerita manifestazione che esiste e resiste dal 2003 e che si autodefinisce “Fiera Feroce”: vi si trovano vini che oggi si dice naturali, ma che più correttamente in tema con la manifestazione chiamerei: “consapevolmente contadini”. E lì conobbi questo Gaggiarone Riserva , acquistandone purtroppo un’unica bottiglia. Confesso che fui attratto anzitutto da quell’etichetta vecchio stile, un po’ medievaleggiante, un po’ naif ed un po’ vicina a certi disegni di Depero, o comunque al segno grafico di certi artisti degli Anni Trenta; che specificava orgogliosamente, con una dicitura alquanto desueta: “vino rosso amaro di Rovescala". Fu però poi il vino a sorprendermi, particolarissimo: quella croatina in purezza (o quasi: non sono sicuro, ma potrebbe esserci una piccola percentuale di uva rara) veniva da vecchie vigne di cinquanta, sessant’anni, appunto dal vigneto denominato Gaggiarone in quel di Rovescala, che della croatina pare sia la patria o comunque un luogo d’elezione: una sorta di Grand Cru dell’Oltrepo’, caratterizzato da forti pendenze e da un terreno con inserti di tufo e di gesso, coltivato senza concimazione e lasciato inerbire;  ed il vino, vinificato in francescana semplicità,  maturava tra vasche di cemento e bottiglia per 10 anni prima di essere messo in commercio; eppure era allora,  nel 2015, tutt’altro che pronto, col tannino che ancora scalpitava, ed io che vi vedevo però una promessa gloriosa. Aprendolo oggi, dopo ulteriore riposo, lo trovo rubino scuro di media profondità, persino torvo nella tinta che sfuma verso un riflesso granato, con gocciole lente, frastagliate, persistenti. Esprime un profumo molto intenso di frutta nera, con il mirtillo in evidenza, quindi prugne secche; si fa strada la frutta rossa, susine e fragole. Poi,  un complessissimo ventaglio di evocazioni e suggestioni, che si apre a coda di pavone: il ginepro, la liquirizia, la torba, la noce moscata, il chiodo di garofano, la menta, l’alloro, la canfora, le aldeidi, il tabacco sminuzzato, la polvere di caffè, la mandorla. Al sorso, è  potente, pieno, continuo, dall’attacco quasi morbido e dolce; dopo, si apre  disteso e subito piacevolmente ruvido, slanciandosi verso un finale lungo, fresco ed equilibrato, un po’ sovrastato dal tannino, ma in una maniera caratteristica, personale, che  gli dona quell’amaro promesso dall’etichetta;  un tannino che è molto abbondante e un po’ terroso, ma ben maturo, sposato a un’acidità media ed un gusto molto concentrato, sorretto da un’ossatura di richiami minerali, grafitici, soprattutto dopo 48 ore dall’apertura: se  dopo 24 ore si riscontra solo un po’ più di volatile, attendendo ancora ecco che il Gaggiarone Riserva si fa molto più armonico, il tannino comincia ad integrarsi morbidamente pur restando abbondante ed ecco la scia minerale e grafitica emergere e chiarificarsi. Un  vino brusco, asciutto, ma elegante e a suo modo accogliente; riflettendo in trasparenza quell’Oltrepò dei sogni, forse perduto, come lo descrisse Gianni Brera ne La Pacciada: abbondante e poetico. Un vino ampio, con una sua solennità terragna;  semplicemente eccezionale, da accettare com’è: caratteriale, ricco di chiaroscuri.
In omaggio alle tradizioni lombarde, l’ho accostato a risotto alla milanese ed a un biancostato bollito: lì, ha reso la tavola più luminosa. A sorpresa, però , è riuscito quasi eccellente anche su un pata negra di 36 mesi.
Mi piace chiudere, amica o amico che mi leggi, con l’omaggio a un maestro, e lasciarti la descrizione che Luigi Veronelli diede di una vecchia annata di Gaggiarone, tanto tempo addietro;  poche righe di una lingua antica, da rileggere commossi, perché in esse rivive la magia della terra, dell’aria e del sole, di quell’unica vigna. «Il colore rosso granato nutrito e pieno, brillante, il bouquet composto, ampio e compiaciuto (sentore di mandorla amara), il sapore asciutto, anche composto su bel fondo amarognolo, il nerbo e la stoffa consistenti, bene espressi, e il pieno carattere» (Luigi Veronelli, «Corriere della Sera», 10 ottobre 2003).

Bourgogne AOC, Cuvee de Noble Souche, 2005,  Denis Mortet, 13 gradi.

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Fu il vino dell’amore col Pinot nero e con la Borgogna; forse, col vino tout court. Una sera, tanti anni fa, fredda. A prima vista: il suo colore, il suo profumo, il suo bacio. Sensazioni mai immaginate, lo svelamento di un ideale fino ad allora solo vagamente immaginato. Il mio ideale della donna da sposare: accogliente, femminile, sensuale, elegante, morbida. Perdona, amica che mi leggi, se posso sembrarti un poco maschilista qui: è che da allora di vini ne ho assaggiati parecchi, e parecchi prima ancora, ma con nessuno ho più avuto quella sensazione lì. Col Sangiovese, che pure può essere gentile, io mi posso immedesimare: vi affondo le radici e sento l’eco dei miei avi; in un Nebbiolo, trovo il maestro, l’amico che ti ascolta, il senso del conforto. Ma sono vini maschi, al confronto con questo Borgogna. Specifico: questo Borgogna. Ne ho assaggiati altri negli anni, anche di caratura superiore se vogliamo, da Cru blasonati: più profondi, complessi ed articolati magari, ma nessuno con la stessa scorrevolezza agile, con la levità intensa e carezzevole di questo di Denis Mortet, con quel suo modo di stare a tavola senza attrarre troppo l’attenzione, ma blandendo in maniera sottile ed obliqua, quasi impercettibilmente. Unico per la sensazione che mi regala di star naturalmente bene, di non aver bisogno di un dialogo per parlasi e capirsi, come se bastasse un gioco di sguardi, o al più uno sfioramento, pelle a pelle.
Da tantissimo in realtà non lo incontro. Ne riposano sei bottiglie nella mia cantina di Milano. Mi decido infine un certo giorno a spostare gli scatoloni affastellati, pieni di  altre bottiglie, ognuna che racconta viaggi, ricordi, storie, e sposto vendemmie e territori, scoprendo che cosa si è sedimentato nel tempo; ma ne voglio una di quel Borgogna, perché domani compirò quarant’anni e per la prima volta dal 2011 potrò festeggiare nella tiepida quiete della mia famiglia.
Temo l’incontro e ne sono anche un po’ emozionato e preoccupato: per le mie conoscenze, non è affatto garantita la tenuta di un vino come questo per 12 anni; o, meglio, non è detto che l’evoluzione sia virtuosa: in fondo è un semplice Bourgogne AOC, non un Premier Cru o un Grand Cru.
Il tappo di sughero è lunghissimo. Accenna a spezzarsi quando esercito forza, ma riesco destramente ad estrarlo. Sorrido, perché anni di esercizio sono evidentemente serviti; ma più ancora perché già dal fiato della bottiglia capisco che il vino è in ordine: non è compromesso da spunti acetici, ossidazioni o altro.
Lo verso e godo la bellezza del suo color rubino trasparente che tende appena al granato, con gocciole belle, perfette. Il suo profumo! Ricordo che giovane mi sembrava una droga per la sua armonia e un amico ci scherzava su sarcastico, dicendo che lo si poteva considerare un sostitutivo della cocaina. Oggi è più maturo, ma ancora in evoluzione: se ha perso in fruttato, ha tuttavia ancora un bilanciamento meraviglioso, che si è spostato più sulle spezie. Eppure è ancora lui: molto intenso, puro, profondissimo, risonante, solenne, arioso come le navate di una cattedrale gotica, luminosa ma ricca di chiaroscuri, con fragola e più ancora fragola di bosco, con una sfumatura floreale tra la rosa, la viola e la mimosa. Le spezie, l’accennavo, sono tantissime: pepe e noce moscata in evidenza, cannella e chiodi di garofano; chi più ne ha, più ne metta. Un tocco di cipria, molto lieve, civettuolo, che contrasta con un fondo autunnale di tabacco e foglie ingiallite, più serio e compunto. Infine, come una scia variegata, un’affumicatura leggera, vaniglia, ricordi marini che mi richiamano alla mente l’odore delle posidonie al sole sulla battigia, il muschio ed un sospiro appena mentolato e di grafite e di pietra bagnata. Tuttavia è l’unione equilibrata di tutti gli aromi ad essere magica come una droga, non qualcuno di essi in particolare. L’assaggio: un beva piena ma leggiadra, setosa e ricca di nerbo; forse appena sfrangiata dall’età, ma è cosa assai lieve. E’ rotondo, dolce al tatto sul palato (ma, bada bene, non al gusto); senza una nota fuori posto, anzi, con una accordatura perfetta ed armonica che fa godere, come quando si ascoltano certi clavicembali antichi e ben temperati negli arpeggi delle Toccate di Girolamo Frescobaldi. Ha un tannino finissimo e di vera, superba eleganza;  un’acidità decisa, ma dissimulata, distribuita, irradiante. Il suo sapore è concentratissimo, in un dialogo tra fiori e spezie, forse appena semplificato rispetto all’olfatto, ma il sorso è in progressione ed in crescendo, fresco, lunghissimo, con un alcol equilibratissimo, che apre alla soddisfazione di un contrasto caldo-freddo magistrale. Leggiadria e potenza, verrebbe da riassumere, ma ancora non si è detto abbastanza di come a tavola sappia essere un perfetto compagno camerista, più che un ingombrante solista.  Io ad esempio l’ho gustato,  e parecchio, su un bollito misto con pollo, vitello, manzo, lingua e cotechino. L’amore si rinnova; malgrado qualche minima ruga, malgrado la constatazione, dopo tanti assaggi, che un lieve e forse impercettibile ammiccare a certi Pinot del Nuovo Mondo esista pure, realizzandosi in forme armoniose  e atletiche che sono lontane da una certa essenzialità ossuta. Sorprende quasi, se si pensa che le uve vengono da una zona estremamente secondaria e difficilmente ascrivibile alla rinomata Cote d’Or. Vengono dal piccolo paese di Daix, parte della misconosciuta Cote Dijonnaise, giusto nord ovest delle città di Dijione, non troppo oltre una distesa di sobborghi dal carattere industriale. Però a Daix ci sono delle belle colline dove le uve crescono a circa 400 metri sul livello del mare, su suoli bruni  e molto gessosi,  ma le vigne sono poche e poche forse sono sempre state. Denis Mortet, però ci credeva e da questi terreni meno famosi provò a trarre un vino che fosse accostabile a quello dei Cru più celebrati, ai quali aveva comunque accesso per proprietà o come affittuario: Gevrey Chambertin, Chamberlin, persino Clos de Vougeot, poi molti altri. Aveva fama di essere un gran perfezionista e i suoi vini, non filtrati e non chiarificati, si diceva fossero: “di pieno corpo, concentrati, armoniosi, intensamente profumati e di splendida eleganza”, tutte caratteristiche che ritrovo, lo sai, in questa meraviglia di Bourogne AOC 2005. Denis Mortet, Infatti, da qui terreni misconosciuti creò un vino grandissimo, in quella che fu la sua ultima vendemmia. Quando il vino riposava da poco nelle botti, una mattina di gennaio del 2006, si uccise con un colpo di fucile nel parcheggio di fronte alla sua cantina. Aveva appena 49 anni. Si dice che fosse depresso. Si dice. Per me resterà sempre una domanda senza risposta come possa uccidersi chi ha il dono  creare un esempio di così fulgida bellezza. Misteri dell’anima umana oscuri e terribili, inutile sondarli: meglio esercitarvi una cristiana pietas.

Alto Adige Sauvignon Lafoa 2005, Colterenzio, 13.5 gradi.

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Limone pallido, limpido e luminoso, cenni di lacrime: il velo che si forma sul cristallo del calice si ritira a macchia di leopardo. Aromi intensi, ma ritenuti: fiori bianchi, sambuco, petali di pesco, prima; poi note tropicali delicatissime, mango, melone giallo; agrumi: cedro, buccia di limone maturo; la pesca bianca; la purezza di erbe aromatiche, salvia e alloro nell’aria di montagna, ed acqua fresca se avesse un odore; l’asparago tipico del Sauvignon e’ in second’ordine, su uno sfondo di tostatura e lontanissimi ricordi di vaniglia (ed è come tornare bambino ed entrare nella grande Drogheria Formaggia che stava a Milano in via Larga, con i grani di caffè e le caramelle conservati nei grandi vasi di vetro). In bocca e’ ancora più meraviglioso che all’olfatto: cremoso e fresco, di grande intensità, con un’ acidità ancora alta e decisa malgrado i dieci anni dalla vendemmia, lunghissimo, trasfigurandosi su note finali di burro d’arachide. La sensazione tattile è bellissima: calma accarezza blandisce; frusta e pulisce.  Come l’immagine di una Venere greca scolpita nel marmo è elegante e rotondo. L’immagine nuda di un grandissimo vino.
Si dice che il Sauvignon non sarebbe atto a lungo invecchiamento, ma questo mostra il contrario. Si dice che le grandi scuole del Sauvignon siano quella francese della Loira e quella neozelandese, ma questo Lafoa altoatesino di Colterenzio offre un modello terzo di perfezione intangibile.
La scoperta: ricordo come fosse oggi quella serata al Bodega di Monza, ancora ai miei primi passi nel mondo del vino, l’atmosfera raccolta della sala inferiore, grandissima e alta, ma così calda con le luci tenui e le mura di mattoni grezzi. La degustazione con cena, come usavamo, era dedicata agli abbinamenti difficili. La mia sorpresa per un Sauvignon, vino da un’uva che non avevo mai seriamente considerato e che qui mi si offriva con classe, energia e purezza. Una delle tante perle che devo agli amici Enrico e Carlo. Dopo qualche giorno l’acquisto all’Enoteca Cattaneo di Carate (era forse il 2008) e poi la cantina, attendendo per anni e anni l’abbinamento giusto, la compagnia giusta, l’occasione giusta. Lo ritrovo dopo tanto tempo ora, certo mutato  ma forse ancora più perfetto, principe e sposo magnifico su un risotto con asparagi, su pesce spada in due maniere (infarinato in padella e fritto a cotoletta), con contorno di asparagi stufati. Come tutto i vini veramente speciali, buonissimo anche da solo: ma non sprecarlo -amico, amica che mi leggi- per le chiacchiere distratte e sciocche di un aperitivo, serbalo per un’amorosa meditazione.

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Gris Lis Neris IGT 2005.

Poche terre hanno la bellezza struggente del Friuli, il suo ruvido incanto, dalla severità solenne del Collio alle piane dell’Isonzo scivolando verso il mare. Poche terre hanno saputo identificarsi così tanto nei loro vini bianchi fino sposarli in un tutt’uno con il proprio cibo e più ancora con uno stile di vita ed un modo di essere. Vai per i bar e le mescite di Gorizia, di Cividale, di Udine, di Buttrio, dei tanti altri borghi che troverai sulla tua strada pellegrina, laddove tu per l’ora e tua usanza sorbiresti un caffè: vedrai intorno lo scintillio di oro liquido nel calice; un sorriso; una chiacchiera, dura magari, come quella gente, ma mai fredda, mai sguaiata. Bianchi così radicati nella terra e nella cultura materiale da aver saputo declinare e far proprie persino le uve più internazionali, elevandole a puro specchio dell’identità del luogo, anzi di “luoghi detti” ad alta vocazione. Allora il Pinot Grigio di Lis Neris non è un Pinot Grigio -non ti sbagliare- ma un vino friulano da uva pinot grigio, con in se’ la terra la cura la rabbia friulane. La cocciutaggine persino: qualcuno diceva che le vigne di questo produttore erano su terre troppo piane. La terra qui però ha parlato. Giovane ti dava ricchezza aromi floreali e di frutta: la potenza delicata dei forti. Lo ritrovo maturo a quasi dieci anni dalla vendemmia, In veste dorata che volge al ramato, la consistenza ricca farsi oleosa, con il fascino d’unguento prezioso, vagamente orientale. Del suo aroma originale intensamente fruttato pur permane il melone, delibato nelle sue note più carezzevoli e virato al miele di spiaggia, alle noci, alla castagna, con un tocco fungino da grande Champagne invecchiato; non è stucchevolezza, perché permane a rinfrescarlo un agrume morbido, chinotto; ed ancora ha in se’ la grazia floreale, non svanita, ma resa complessa ed ancor più delicata, quasi accompagnasse su una raffinata tavola come ornamento una crosta bianca di formaggi. Se lo bevi ne godi ancora la grande struttura, l’intensità rispondente dei sapori con gli aromi, la potenza appena un po’ alcolica e la delicata raffinatezza per la quale sa smaterializzarsi sul palato pur persistendo a lungo, conservando nello splendore della maturità in bocca freschezza pura e un’acidità sempre alta, chiudendo su un finale piacevolmente amaro, come quella malinconia sottile che ti prende al crepuscolo, tanto più intensa quanto  più grande è stato lo splendore della giornata. Per me l’istante d’amore: con lui spaghetti alle vongole.