Lo scorso anno, di maggio, eravamo in Sicilia con mia moglie in viaggio di nozze.
Meta fortemente desiderata ed altrettanto amata.
Mancavo da anni. Era trascorsa una decade, ormai, dagli ultimi viaggi di lavoro. Ancor più remoti quelli da turista, risalendo addirittura al 1997: due indimenticabili settimane con gli amici storici, tra Palermo e la provincia di Trapani, con base a San Vito Lo Capo.
Ricordo di quel tempo una sera ad Erice, così avvolta nelle nubi che, tra i vicoli, perdevamo contatto visivo in pochi metri. C’era un sentimento sospeso: per la nostra età, per la bellezza dei luoghi e per le ombre arcane che quelle nubi materializzavano attorno.
Cenammo in una trattoria della quale non ricordo nome, né esatta ubicazione; ma fu indimenticabile la pasta squisita con pesce spada, pomodorini, pinoli, menta, e quel Grillo che tanto bene l’annaffiava: un vino con profumi così particolari come non ne avevo mai sentiti, trasognate suggestioni mediterranee e orientali.
Dunque più volte durante il viaggio di nozze fui attratto dall’assaggio del Grillo, che mancavo da qualche anno, ma ne restai deluso, preferendogli sovente il Catarratto. I Grillo incontrati in viaggio avevano profumi fruttati e floreali innaturalmente marcati e slegati: più che suggestioni, erano luci abbaglianti, presumo dovute a vinificazioni in riduzione spinta, ovvero in assenza di ossigeno.
Finii col pensare che il mio gusto fosse cambiato e che il Grillo non fosse più nelle mie corde.
A Sciacca assaggiai un vino artigianale buonissimo della azienda Elios di Alcamo, che non conoscevo: un taglio di uve bianche autoctone vinificate con macerazione; me lo propose il competente e appassionato giovane gestore di Baccanale, un ottimo bistrot di vini naturali, presso il porto turistico.
Quasi un anno dopo, trovando in rete il Grillo di Elios, la curiosità mi vinse e colsi l’occasione di acquistarlo.
Scopro dalla scheda aziendale che questo Grillo in purezza proviene da terreni argillosi calcarei, in contrada Valdibella di Camporeale, a venti chilometri dal mare. La zona è relativamente fresca, permettendo vendemmie a inizio di settembre. Viene vinificato in bianco, con fermentazioni spontanee e con una certa naturale esposizione all’ossigeno. Affina 7 mesi in acciaio inossidabile.
Ne risulta un bianco poco lavorato, più simile a quel Grillo dei miei ricordi, sfumato, vago e solare, che mi fa battere il cuore fin dall’aspetto: ha un color limone carico con riflessi giada e appare piuttosto viscoso mentre danza sensualmente nel bicchiere, ma sul vetro lascia solo un velo che lentamente si dissolve, non lacrime.
Il profumo è l’evocazione di un paesaggio mediterraneo ideale: un quadro da Gran Tour di inizio Ottocento, dalle tinte solari, rese con vivida intensità, grande concentrazione, naturale ariosità. Scorrendo l’immagine, fiori gialli: ciuffi di ginestre e mimose; alberi carichi di agrumi rari (pompelmo, bergamotto) e di pesche profumate; macchie verdi di rosmarino; forse, disposti sul tavolo di un dehor, sotto una pergola di uva spina, fette di melone bianco, piccoli calici colmi di sambuca. In lontananza – minutissime stelle – il tenue candore dei fiori di vaniglia.
Questa l’evocazione olfattiva, incompleta: perché nella realtà c’è un lieve tocco di aldeidi che dona al vino freschezza e profondità.
Il sorso è ampio e di gran corpo, con estrema avvolgenza, per una sensazione tattile viscosa che ne maschera la secchezza, propiziando una sensazione pseudo dolce. Questa massa glicerica nattenua la discreta salinità. L’acidità è viceversa notevole, considerata la provenienza geografica: ne risulta un vino reattivo, col finale molto lungo, equilibrato, piacevolmente alcolico, dall’accenno amaro, forse terpenico.
Ecco che nella sua schietta fattura questo vino mi riporta in Sicilia: ne sento gli odori, ne godo i paesaggi, ne respiro la magia; e mi riconcilia, finalmente, con l’uva grillo, riportandola alla terra.
È stato eccellente, sulla nostra tavola, con spaghetti zucchine e bottarga di muggine.