“ed ecco dal Gral un divino bagliore fluire;
una sacra apparizione”
(Richard Wagner, Parsifal, Atto I)
Per molti anni in Valle D’Aosta sono stato di casa, per quanto frequentemente vi soggiornavo; ed erano sempre soggiorni emozionanti: la regione conserva una bellezza fatata, intimamente arcaica, anche nell’alta stagione, quando i turisti la prendono d’assalto.
Fu allora che imparai ad amarne i vini e quelli da uve autoctone in particolare; tra tutti, specialmente quelli delle prime balze intorno ad Aosta, alla destra della Doria, nelle zone di Jovencan, Aymavilles, Gressan, Charvensod: per l’originalità aromatica, tanto intensa e speziata quanto in bocca risultavano leggeri, lievi ed eleganti come nuvole, fragranti e discreti sulla tavola, con le deliziose pietanze della tradizione locale, talvolta così grasse da scoraggiare i palati non allenati.
Si andava ad un supermercato appena fuori Aosta, il Gros Cidac, dove si trovavano i meravigliosi formaggi della Valle, i salumi e quei boudin di sangue e barbabietola rossa, che adoravo.
C’era poi il fornitissimo reparto dei vini, dove ricercavo quei medesimi che avevo apprezzato nei ristoranti ed altri sempre nuovi, per ampliare la mia conoscenza. Il caleidoscopio delle varietà locali mi attraeva: credo che da sola la Valle D’Aosta abbia più varietà di quelle coltivate in Francia; di sicuro, molte più di quella dozzina che sono mondialmente diffuse.
Spiccavano, tra tutti, i vini dell’Institute Agricole Regional – una scuola, dunque – per la bellezza delle etichette che riproducevano opere suggestive di Francesco Nex: anche di questo si nutrivano i miei primi passi da assaggiatore curioso.
E poi la vita passa, in Valle D’Aosta son tornato pochissimo, fermandomi alle sue porte, a Donnas; ma portandomela nel cuore.
“Premetta” per me era rimasto solo un nome nella memoria, perché vini ottenuti da quell’uva, alla fine, non ne avevo mai assaggiati, né avevo una pallida idea di come fossero. Ormai questa bottiglia di Premetta era quasi dimenticata nella mia confusa cantina milanese ed è riemersa fortuitamente mentre spostavo cartoni cercando tutt’altro.
Anzi: mi sono deciso a portarla in casa per aprirla con la convinzione che il suo tempo fosse già passato e che avrei trovato solo un liquido spiacevolmente ossidato: inutile lasciarlamlì ad occupare spazio.
Eppure, leggendo la voce dedicata a quest’uva, sinonima di priè rouge, sulla “Guida ai vitigni d’Italia” di Slow Food, rinasceva in me la speranza di sorprendermi. Tannino che necessita d’essere domato, tenore alcolico, tanta acidità, tenue colore: nella mia piccola esperienza, credenziali per un’evoluzione virtuosa.
Il tappo di sughero è lungo, si lascia estrarre chiedendo forza, ma è e resta tutto di un pezzo.
Il vino, a 13 anni, è un gioiello, di un colore aranciato molto trasparente, sognante e antico, dai riflessi quasi ambrati ma rubino al centro, dalle gocce rade e lente, quasi traduzione visiva di un sirventese. Fosse un quadro, sarebbe una di quelle tele ottocentesche di ambiente medievale, figurante una corte interna – magari di uno tra i tanti castelli valligiani – e una dama e un cavaliere, le mani che si posano sul calice intrecciandosi, mentre una lama di luce autunnale illumina la scena.
Tale alla vista, quale il profumo.
Ormai frutto ne è rimasto poco: in questa sorta di splendore autunnale, però, vivide ancora baluginano la fragolina di bosco, l’arancia, la ciliegia sotto spirito; ed è ancora vitale: evoca una succosità rimasta solo, forse, una memoria tra le sue molecole aromatiche; perché a disegnarlo oggi sono la cannella, il chiodo di garofano, la noce moscata, il marzapane, il burro di cacao, il ginepro, corteccia di eucalipto, che si susseguono in ordine sparso in una danza circolare di continui rimandi ed eterni ritorni, che atterra infine su note minerali nette, di ghisa e di ruggine.
Tale il profumo, quale al palato
Di corpo medio, lieve e soave la sensazione tattile, molto salato, dal tannino ampio, finissimo, naturalmente levigato, l’acidità alta, trasmette una sensazione di grande naturalezza per tutto il sorso, riverberandosi per l’intera sua lunghissima arcata, essenziale e fluida, che termina con un tocco finale, elegante, morbido, di caramella mou.
Evocativo, poetico, originale, sfumato, è insieme molto evoluto e molto giovane: vivido e reattivo, tuttavia posato, calmo, di maestà ingenua e struggente; una sorta di puro folle delle leggende medievali.
L’ho amato con tortellini in brodo preparati in casa, squisitisimmi.