Navarra Crianza 2009, El Parador.

“Quando ero Enea nessuno mi volea, or che son Pio tutti mi chiaman zio”: così diceva il Papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, senese. Parlando di vino tra noi si potrebbe tentare una parafrasi: “Un tempo in carato ero tanto osannato, or barricato son tutto dannato”, o qualcosa del genere. Ero l’altra sera a una cena e degustavamo dei vini. La domanda ferale, prima ancora che il vino fosse versato: “Ma passa legno? Grande o piccolo? Perché se è barricato, mah, a me difficilmente piace, speriamo non sappia di legno”. O’ stolto! Bevi e godi, se puoi. Se godrai, chiedi solo allora di sapere se il vino che ti garba sia barricato o meno; se non godrai fa’ uguale; ma prima, con mente e cuore aperto, assaggia. E così regolati per la presenza di uve foreste, di lieviti selezionati e via via. Non confondere il fine con il mezzo!  Vai a un concerto per sentire un violino o la musica di Paganini? Perché se tu così ragionassi- amico, amica che mi leggi- difficilmente godresti questo Parador. Per cominciare, la Navarra che passa sempre per meschinella tra tante zone vinicole spagnole: così vicina alla Rioja e per certi versi così simile, se non persino più originale nelle caratteristiche climatiche e pedologiche, per quanto sta vicina alle montagne dei Pirenei;  eppure il successo non le arrise, per questioni banali di collegamenti ferroviari che non favorivano l’esportazione; storia dell’altro ieri, XIX secolo. Poi -ecco la colpa- alle tradizionali uve ispaniche rosse acconsente l’aggiunta di cabernet e di merlot, forestiere. Magari sarà sbagliato in termini di immagine, ma l’enologia tra le scienze è la più flessibile, perché il suo fine si basa su un dato accidentale e personale come il gusto. Bene: allora me lo apro e me lo verso questo Parador, di uve tempranillo, garnacha e cabernet sauvignon, che passa 12 mesi in barrique – appunto- di rovere americano e viene prodotto dalla famiglia Chivite, l’equivalente locale di nomi grossi e storici come gli Antinori, i Frescobaldi, i Folonari: chi ama essere snob, ne arrossirebbe. Pazienza. Io qui ho un bel rosso rubino trasparente del 2009, che sfuma sul bordo lievemente al granato e rilascia sul calice un velo trasparente  piuttosto testardo: ci vuole un po’ prima che si sciolga in gocciole molto lente e assai fitte, irregolari. 2009: eppure è l’ultima, forse la penultima annata: sono affinamenti lunghi quelli di questo vino, tipicamente spagnoli, che è solo un bene, perché il tempo è il segreto della sua grazia. Lo verso e…sì, si sente subito al naso la barrique, con quel tanto di affumicato e di dolce che rilascia, come foglie di tabacco umide. Ma non ti fermare lì: ha un’aroma piuttosto intenso che include anche frutta ed erbe, risultando molto fresco, giovanile e stuzzicante. Fragole in composta e secche, se le hai mai mangiate; susine rosse, corbezzoli selvatici e piccoli frutti a bacca nera, come i mirtilli; ma anche sfumature piacevolmente erbacee che ricordano le foglie di cavolo nero crude, quelle di pomodoro, il the nero, con la freschezza di un tocco sapiente di bergamotto. Certo, cocco e tabacco e vaniglia: la firma della barrique; ma se sulle prime il suo apporto e’ appena un po’ invadente, bastano due ore di apertura e ritorna nei ranghi. E in bocca è invece subito carezzevole e pieno, ma non pesante né tantomeno statico. Anzi: flessuoso e invitante come i fianchi di una donna, con aciditá non penetrante ma stuzzicante ed un tannino fermo, maturo, ricco, ma non  troppo ingombrante, almeno per il mio palato; dove entra, accarezza e si espande un poco con tocco dolce,  proseguendo poi a passo di danza verso la fine delle sensazioni, senza fretta però: l’alcol ben bilanciato da solo piacere e non disturba, mentre il il sapore persiste. Chiude appena con un poco di amaro, come un bacio strappato , ma è poca cosa. Magari da questo dettaglio qualcuno più di me esperto potrebbe dedurne un po’ di costruzione, ma se c’è è applicata con gusto e misura. Posso dire? Lo preferisco a certi vini che costano tre volte tanto. E poi: ti accompagna al pasto, dalla merenda all’arrosto facendo l’occhiolino e portando un’allegria distinta, non sguaiata, quasi signorile. L’ho trovato perfetto e felice su una minestra di farro, lenticchie e verdure, dai sapori non facili e complessi.

Tres Picos Granacha Campo de Borja 2011, Borsao Bodegas, 15 gradi.

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Sul libro “1001 wines you must try before you die” a cura di Neil Beckett (leggi: “1001 vini che devi provare prima di morire”; e a Napoli farebbero opportunamente gli scongiuri) trovi a pagina 457 il Tres Picos di Bodegas Borsao, che orgoglioso riporta in etichetta l’indicazione dell’uva: Garnache. A ben ragione: quest’uva dai molti nomi (Grenache in Francia, Granaccia nel Levate ligure, Alicante nella Maremma toscana e laziale, Tai o Tocai Rosso in Veneto, Cannonau in Sardegna) è sì una delle più diffuse del bacino del Mediterraneo (e ben oltre, ormai, nel Nuovo Mondo, in un crescente successo planetario), ma ha proprio in quella zona spagnola a nord di Saragozza, quasi equidistante dalle rive del Mare Nostrum e dell’Atlantico, il suo luogo d’origine (taciamo però del contenzioso in merito con la Sardegna, cioè se la Garnacha abbia viaggiato verso est durante la dominazione aragonese o non piuttosto verso ovest; e che quindi sia addirittura discendente di tradizioni isolane e fenicie). Dunque ci accostiamo a questa bottiglia col senso di un’epifania, di conoscere come debba veramente essere la Garnacha primigenia: perché qui sono luoghi incontaminati, piante vecchissime e nodose di trenta, quaranta e perfino sessant’anni; altitudini tra i 350 e i 700 metri, su varietà di suoli in diverse parcelle, con notti fin fredde  e giornate di luce mediterranea, del sud (siamo più o meno all’altezza di Viterbo). Lo versiamo rubino trasparente, dai riflessi purpurei, che danza indolente nel calice, appena un po’ oleoso, lasciando sul vetro archetti fitti. L’aroma ha una sua intensità, e ne rilevi a sufficienza quell’insieme di fragola, ciliegia e liquerizia che è la sigla della Garnacha. Piu’ caldi, frutti sotto spirito e appassiti: uvetta sultanina. Eppure è confuso: c’è un che di tostato, di affumicato, che ne riduce e vela la luminosità, sovrapponnedovi  note di tabacco e di legna che cozzano incongrue con la luminosità di vista e di olfatto che ti dispiegava in principio; ed uno sbuffo alcolico non l’aiuta. In bocca hai il tannino gentile che dalla Garnachia dalla buccia sottile che ti  aspetti; ma anche una concentrazione glicerica e zuccherina che si sommano all’alcolicità spiccata e che l’acidità, pur rilevante, non riesce del tutto  a bilanciare; e che una lunga persistenza grafitica e minerale -più ancora che fruttata- non riesce del tutto a far dimenticare. Insomma: un vino che entra ampio in bocca, che fresco (a 17, 18 gradi) risulta anche molto piacevole, ma che non riesce veramente a spiccare il volo sul palato, a danzare sul palato succoso di gioventù; e fa piuttosto l’effetto proverbiale dei disneyani ippopotami di Fantasia che si esibiscono nella Danza delle Ore. Bodegas Borsao è una cooperativa che ha il merito di aver salvato dalla miseria tanti piccoli agricoltori e dispiace dire che la mano poteva essere più leggera; magari la stessa annata (se il 2011 spagnolo è stato caldo come l’italiano, poveretti) non ha aiutato. Tant’è. Epperò io dentro ci ho sentito ancora una cosa, una certa qual vibrazione che mi fa sperare, che mi fa credere che in altri modi e stagioni quelle uve delle vecchie piante nodose, primitive di Garnacha avrebbero benaltro da dire. Ed io le aspetterò fiducioso. In tavola, con cibi sapidi, sa trovare un buon equilibrio: saporiti salumi spagnoli, carni alla griglia, formaggi stagionati e  legumi: io, per esempio, l’ho maritato amorevolmente con un trionfo di cece piccolo fiorentino, lessato con la salvia, l’aglio, il rosmarino, irrorato di extravergine del Montalbano.

per saperne di più: http://bodegasborsao.com/