Nell’estate del 2001 ero in servizio civile – mi ero trovato costretto ad interrompere momentaneamente gli studi, che portavo avanti con fatica.
Ero innamorato di una bella fanciulla – non ricambiato, o non ci capimmo.
Morì in quei giorni la mia amata nonna Gina.
Eppure, malgrado questi brutti ricordi, di quell’estate rammento il sole, come se la pioggia non fosse esistita. Sole, calore, luce: una vibrazione luminosa che investiva anche le notti.
Sarà che avevo solo 24 anni.
Quell’estate maturavano le uve di questo Montevertine – ed allora le colline di Radda non mi erano affatto familiari come oggi: mi orientavo appena nella vasta zona del Chianti Classico.
Nel 2001 c’erano a Montevertine Martino Manetti (e c’è tuttora), Bruno Bini e Giulio Gambelli (che ci hanno lasciato), i quali imperterriti portavano avanti un’idea di vino classico, proporzionato, riflessivo, trasparente nel colore e nell’anima, in un’epoca di vini scuri, pomposi, costruiti con la voglia di stupire ed ottundere.
Questi concetti mi erano allora ignoti: li avrei intesi solo molti anni dopo.
Nemmeno li conoscevo diversi anni dopo quando acquistai questa bottiglia, che stava impolverata e verticale sullo scaffale più alto di una piccola enoteca milanese, dalle parti di corso Buenos Aires: certamente avevo letto e ascoltato riscontri ottimo su questo vino, ma generici, cioè senza chiave interpretativa.
Qualcosa, nel tempo da allora trascorso, penso di averlo imparato: un po’ di nozioni e un po’ di esperienza.
Conosco oggi la strada per Radda, so dove si svolta per Montevertine; conosco quel cielo, quell’aria, ho odorato un pugno di quella terra; negli occhi ho disegnate quelle colline.
Quei nomi, che l’etichetta raccontava con trasparente umiltà e orgoglio, oggi so che posto occupano nella storia del vino mondiale.
Questo vino oggi ha 19 anni. L’avessi comprato in cantina, o comunque poco dopo L imbottigliamento, avrei avuto il polso fermo di attenderlo più a lungo; vista la cattiva conservazione subita durante i primi anni, mi son deciso ad aprirla, con adeguato anticipo.
Difatti il tappo è molto secco, tende a sfaldarsi: evito il peggio con cura e fortuna.
Non saprò mai come poteva essere questo Montevertine 2001, se ben conservato – altre bottiglie non ne ho.
Quel che leggo nel calice è un vino granato, con sfumature arancio e quasi dorate, di buona trasparenza, luminoso.
Il profumo è intenso e ritroso insieme, un continuo cangiare, con la stessa naturalezza delle nuvole mosse dal vento.
Si potrebbe analizzarlo freddamente, coi descrittori insegnanti dalle varie scuole, oppure applicando griglie tecniche standardizzate, ma se ne perderebbe l’essenza trasognata: c’è in lui un quid sfuggente, che la parola stenta a evocare.
Il motivo sta scritto in etichetta: un luogo e le persone. Nessuna griglia può racchiudere la vita.
Pertanto, anche se amo essere preciso ed metodologie condivise, mi arrendo. Sospinto dall’emozione, i freddi descrittori acquistano un significato nuovo e pulsante.
I fiori, le viole, sono proprio quelle viole, colte in un angolo e momento precisio: convivono nell’evocazione fresche e appassite.
La ciliegia è materica, ma ecco: un momento essa è acerba e fresca, poi matura, poi diviene conserva sotto spirito: il tempo relativizza in questo vino, la successione degli eventi oniricamente si confonde e parallelizza, come nel sinfonismo di Debussy.
C’è l’aria, c’è la pietra, c’è l’acqua dei torrenti; il bosco con le cortecce, i muschi, le castagne, i funghi, la terra; un quadro di prospettiva aerea, nel quale smagarsi.
Ci sono le erbe aromatiche, colte nelle diverse ore del giorno; così pure le spezie.
Perché questo è un vino che si muove, un vino che cammina; molti altri, pur grandi, stanno.
C’è il ferro e c’è il sangue: persino la violenza della vita qui è ricomposta in superiore armonia.
L’aldeide è un grido di rondine a sera.
Al sorso, seta: la tessitura di qualità impalpabile che ho trovato in tutti i vini di Giulio Gambelli: l’attaccare energico e delicatissimo insieme, come musica che nasca dal silenzio, ma decisa; l’apertura al centro bocca, come un rapace maestoso dispiega le ali, come la ninfea sboccia in una fonte.
Il corpo agile, il tannino autorevole, l’acidità vibrante, il sale della terra vivido.
Il gusto centrato, sferico, che armoniosamente degrada e svanisce, in un riverbero lunghissimo, indimenticabile, di inattingibile equilibrio, perfetto compagno di ogni tavola: col pollo alla cacciatora è stato oggi un dialogo d’amore.
Fosse scultura: il David di Donatello. Architettura: un chiostro brunelleschiano.
E poi, soprattutto, in lui si sente l’uva viva, schiacciata tra i denti quando pulsa ancora di vita, di sole, tutta succo, appena colta dalla pianta: mi ricordo quando mio nonno mi portava bimbetto sulle prode, coglieva un chicco maturo di sangiovese o di canaiolo – buccia tesa, polpa turgida – e me lo faceva assaggiare.
Con questo Montevertine ci si potrebbe perdere nel vago e nella poesia.
Forse, meglio tornare alle descrizioni asciutte che usavano un tempo.
Avrebbero scritto, magari: “Gran vino di stoffa e razza superiori, da uva sangiovese con quote minoritarie di canaiolo nero e colorino; profumato, armonico, secco e di corpo, da arrosti e umidi; guadagna con l’invecchiamento”.
E sarebbe stato migliore omaggio alla sua signorile misura.