I vini di Dario Dall’Ò.

Ho in Veneto amici e conoscenti che sento ormai raramente, ma che mi sono assai cari.

Ruotano quasi tutti intorno al mondo del vino; del palato di alcuni ho fiducia cieca.

Fabrizio Borin è uno di loro: mi fido sia del suo gusto che del giudizio schietto.

Vedendo Fabrizio bere spesso i vini trentini di Dario Dall’Ò, amico suo, me ne incuriosii e gli scrissi che ne avrei esatto un assaggio al primo incontro, per brindare.

Fabrizio è persona dinamica, non perse tempo: per suo tramite Dario mi contattò, mi raccontò di sé e della sua azienda, mi omaggiò inviandomi tre bottiglie del suo vino (malgrado insistessi per averle con un ordine regolare…).

Scoprii così la bella storia di un sogno realizzato, anzi: il cantiere a cielo aperto di un sogno, ma con le fondamenta ben gittate.

Dario, rodigino, si era occupato a lungo di vino in un’azienda sui Colli Euganei; luoghi di bellezza invidiabile, ma lui coltivava il sogno della montagna sin da ragazzino.

Così, cercando una casa per il tempo libero in Trentino, in modo quasi casuale trovò un’azienda in vendita, a Cavedine, della quale lui e la moglie Silvia si innamorarono. Al balzo, la decisione di una vita e di un’avventura professionale nuove.

Anche la scelta dell’enologo, un professionista celebre, Roberto Cipresso, fu quasi casuale, guidata solo dall’istinto e dal gusto personale; risalendo a lui tramite i riferimenti presenti sull’etichetta di un vino particolarmente apprezzato.

Altrettanto romantico, come Cipresso accettò l’incarico: venne, vide, “passeggiò le vigne” (per citare il vecchio, attualissimo detto veronelliano), toccò la terra: con quel gesto si convinse di poter trarre di lì qualcosa di buono e sono sicuro che Dario, in quel momento, toccò il cielo con un dito.

Da parte sua, per quel che ho veduto della sua attività e per quel che ho percepito in una conversazione telefonica, Dario è esuberante: idee, passione, comunicativa.

Il desiderio di legare il vino all’arte, con mostre in cantina; la maniera con la quale ha ricavato certi spazi della sede aziendale, modellando legno, ferro; la comunicazione aziendale ricercata ed evocativa (con qualche rischio di retorica): parlano di una mente creativa ed ambiziosa; mentre le iniziative in supporto de “La città della speranza” raccontano una moderna e benvenuta sensibilità ai temi sociali.

Poi però ci sono i vini e con quelli non si scappa: oltre l’ambizione ci vuole la capacità, oltre la capacità ci vuole il terroir.

Le vigne di Dario guardano in viso l’Adamello, giacendo su suoli granitici e porfirici. I tre ettari e mezzo dello chardonnay sono a 550 metri di quota, in valle ripida e chiusa. I 6 ettari del pinot nero a 450 metri, su alture più morbide e soleggiate. Gli impianti sono a guyot, tra i 12 e i 14 anni, con circa 6000 ceppi per ettaro, condotti in regime biologico. Le esposizioni: prevalentemente occidentali.

Un territorio montano dunque, a tratti estremo per le peculiarità pedoclimatiche.

Ebbene, non sono vini facili quelli di Dario: raccontano una montagna severa, rocciosa, introversa, fredda a tratti, quasi spiazzante; ma sono vini di carattere, che marcano un segno. Vini lenti, da attendere nel bicchiere e in bottiglia.

Ho la sensazione che ci sia potenziale per superare anche i conseguimenti attuali. Attendo con curiosità le future annate e il Metodo Classico che verrà.

“In primis” Chardonnay, 2018, Az. Agr. Dario Dall’Ò , 12,5 gradi.

Tenue color limone, con tenui riflessi topazio, trasparente, luminoso.

Forma sul calice un velo che si dissolve in fretta, senza lacrime.

Il profumo è nitido, di roccia: gessoso, minerale, di media intensità, ma complesso: l’ingentiliscono frutta a polpa bianca, pera, mela verde, erbe amare di montagna. Cenni di cedro e sentori empireumatici, come di petrolio, lo completano.

Altrettanto tagliente e severo al sorso, di trama gessosa e calcarea, ha corpo virato appena al sottile, estremamente teso, con salinità vivida e acidità vividissima, netto e incisivo verso un finale molto lungo, sapido, con ritorni medicinali ed una lieve scodata alcolica.

Vino, di primo acchito, anodino, nordico, freddo, composto e riservato, nelle briglie di un’interpretazione tecnica in riduzione, che tuttavia racconta il territorio, quasi estremizzandolo in prospettiva espressionista.

Così, l’immagino ideale su frutti di mare crudi.

Tuttavia, a distanza di 24 ore dall’apertura, correttamente conservato, trova aperture luminose sul fieno, sulla camomilla; un equilibrio al palato più concessivo e migliore, perfettamente accompagnando gli strozzapreti alla fiorentina, conditi con parmigiano e burro fuso.

L’assaggio dell’annata 2017 racconta un’impostazione molto simile, sempre giocata sulle durezze, con maggiore evidenza di agrumi ed equilibrio gustativo appena più alcolico, suggerendo una stagione meno semplice da gestire ed un minimo rilassamento occorso in bottiglia.

Dall’Ò Nero 2017, Vino Rosso, 13 gradi.

Ha colore rubino trasparente. Sul calice, le gocciole sono veloci, irregolari.

Il profumo è molto intenso, pulito: l’amarena nettissima, poi grafite, e chiodo di garofano, evidenti; si susseguono, a ghirlanda, mirtillo, mora, lampone, tabacco biondo, carne, senape, curcuma, alloro e rosmarino umidi, come dopo una notte di pioggia.

C’è ancora un accenno di profumo di legno di elevazione: cocco, fumé, un po’ di vaniglia; il vetro, col tempo, lo dovrebbe affinare.

C’è, soprattutto, l’odore della neve: chi non vi ha tuffato, da bambino in montagna, il viso?

Al sorso è di medio corpo, ma tenacissima stoffa: è come innervato da un cavo d’acciaio resistentissimo. Il tannino è ben presente, fine, con un tratto verde, amaricante, piacevole, ché restituisce un’idea vegetale e boschiva. La salinità è più che discreta e l’acidità vividissima, traducendosi un una freschezza sorprendente per un vino dell’annata 2017, secca e calda in molte zone italiane.

L’allungo è notevole, per persistenza, equilibrio e rigore, segnato appena da un ultimo sbuffo alcolico.

Vino di durezze e rarefazioni, dall’anima nordica, sembra proporre punti di vista sorprendenti e contrasti, più che simmetria e armonie; divisivo, con la tecnica in evidenza, ma vibrante materia e territorio, ha una freschezza compatta sconosciuta a molti Pinot Nero italiani.

Un bello sperare per la sua evoluzione in bottiglia e per le prossime annate.

Venissa, o L’oro di Venezia.

image

Preludio
Svegliarsi una mattina presto, le finestre appannate per il freddo, mentre fuori e’ ancora buio. Le 5 e 30. Il silenzio sull’aia e l’aria secca dopo tutta la pioggia di ieri. Metti in moto l’auto per un viaggio di poche centinaia di chilometri, ma nella tua testa e’ come partissi per l’Oriente: Venezia la grande, Venezia la magica, Venezia la sensuale, Venezia la Serenissima. Quella la tua meta mentre scivoli veloce sull’asfalto, nessuno intorno, con le prime luci di un’alba serena che sfiorano le foglie dei vivai di Pistoia, e già lasci Firenze intorpidita alla tua destra per salire solitario le balze dell’Appennino. Li’ tu poni una distanza e già entri nella dimensione del sogno: la neve che ieri ti ha precluso il viaggio ora ammanta i poggi e le cime in un candore irreale ed immoto, disperdendo la tua vista nella rifrazione luminosa di mille prospettive, quasi levando identità al sopra e al sotto, alla destra e alla sinistra. Altre auto non ce n’è. Cerbiatti guardinghi lasciano orme al bordo della strada e subito si rifugiano nei boschi. Intanto maestosa sorge la luce ed illumina il giorno e gli alberi senza foglie che il ghiaccio riduce a creazioni d’orafo; già si vede Bologna. Sono quelle mattine tra Natale e Capodanno quando tutto sembra più lento e silente. Te ne sorprendi  che ormai sei già oltre la Bassa e i campi neri di Rovigo, prossimo all’aeroporto di Venezia, mentre guardi il luccichio dell’asfalto vuoto laddove abitualmente e’ la ressa; e improvviso nel cielo intuisci il mare. Giungi infine a un cantiere lagunare che puoi immaginare solitamente animato, ma stamani e’ deserto, le nostre voci sole che riverberano sui capannoni e sui tralicci delle gru e degli argani.

Atto I – Sulla Laguna
Intanto si è fatto giorno, un’idea di tepore si dipana a dispetto dei nostri guanti e delle nostre sciarpe. Poca attesa, un suv argento e lindo si avvicina con un fruscio leggero di marca giapponese: Gianluca Bisol e sua moglie Laura. Per l’appassionato di vino Gianluca Bisol non ha bisogno di presentazioni: con la sua famiglia forse il massimo produttore di Prosecco, se pensiamo alla qualità espressa per un numero impressionante di bottiglie (2 milioni secondo la guida Bibenda del 2014), declinate in una estrema varietà ed originalità di proposte (metodi classici inclusi) e con una ricercatissima cura anche nella loro confezione.
Pochi passi e già siamo sul pontile, un motoscafo ci aspetta e lentamente lascia gli ormeggi muovendosi rispettoso tra i canneti di un canale, increspando appena lo specchio fermo dell’acqua scura. Laggiù, in Laguna, giace l’Isola di Mazzorbo, la’ c’è Venissa.
Scruto intanto Gianluca: comuni amici mi hanno parlato di lui da tempo, ma per me è il primo incontro e sono sempre un po’ guardingo -non prevenuto- verso chi gode di una certa notorietà. All’apparenza: baffi invidiabili e impeccabili, vesti ricercate e morbide da dandy; ma è oltre che bisogna guardare per definire la persona. I modi sono semplici, pacati, alla mano, naturali: non gioca né in attacco, ne’ in difesa; si capisce che è uomo di mondo, ma ha un’affabilità ed un’immediatezza che nulla concede alla vanità e ad un’esteriorità vuota. Piuttosto lo diresti un’esteta: guardalo mentre si gode la vista della Laguna dalla poppa aperta del motoscafo, malgrado l’aria con la velocità si faccia pungente, mentre ti spiega con passione e ti indica gli isolotti, le chiese i campanili e ti racconta con competenza e amore della Basilica di Torcello. La Laguna e’ un mondo a se’, silente e sospeso: quasi rimpiangi di non avvicinarti più lentamente alla tua meta, adagio, senza suono alcuno di motore, ma piuttosto con lo sciabordare di uno scafo di legno, dei tonfi lenti di un vogar di remi, su un barchino od una gondola nera, come tu fossi Casanova redivivo che va incontro a un’amante, coperto da un tabarro scuro ed una maschera a celarne le sembianze, dilatando così il tempo e lo spazio nel momento infinito di un’attesa. Perché in Laguna sono il cielo e le acque aperte a definire la misura del tempo; la luce del sole, della luna e delle stelle pallide lancette o piuttosto scarpette di cristallo che danzano le ore. L’oggi potrebbe esser ieri, il domani un passato di mille e una notte. Vi è una grandiosità intima nell’immenso spazio delle acque e in questo cielo, che solo le Alpi lontane e innevate interrompono come un ricamo da settentrione; la loro vista contrasta con i richiami salmastri dell’olfatto.

image

 Vi sono tratti selvaggi: gli isolotti coperti di piante lacustri a formare macchie intricate, dalle quali si alzano in volo i cormorani in stormi, solitari i gheppi; timide vi si nascondono le garzette, osservate dai gabbiani curiosi che stazionano sui pali che segnano la navigazione. Lo sai tu che un tempo molti di questi isolotti erano ordinate colture, per provvedere di insalate e frutta le mense veneziane? Di qui il cibo del popolo berciante e dei raffinati signori, fin sulla tavola del doge. Di qui si son nutrite la pittura di Canaletto, la musica di Vivaldi, il teatro di Goldoni: dei doni faticosi di queste terre-non terre, salse ed instabili. Non ultime, c’erano in abbondanza le vigne, per mangiarne uva e berne vino. Venezia: ti appare laggiù sullo sfondo, lontana e bassa sul l’orizzonte come uno scenario visto dalle ultime file della platea; in uno scintillio al sole delle undici dei suoi mille campanili e cupole e palazzi, marmi che nella distanza sembrano cristalli e trine preziose, materia naturale ed insieme meravigliosa, forse un miraggio. 

image

Così nella distanza ti appare ancora più desiderabile, come signora irraggiungibile, e ne immagini la vita nei campielli, nelle osterie, nei caffè, i banchi colorati dei tanti mercati, lo sciacquio dei canali e delle fondamenta percosse; ancora più bella nella mente, più vera, distillata nella sua essenza; ma è solo un momento: il motoscafo rallenta ed attracca.

Atto II – A Mazzorbo
Quante volte hai guardato scalini in pietra simili a quelli che oggi sali sbarcando, e gli anelli di ferro ai quali si fissano le cime, immaginando come le antiche dame tendessero la mano ai loro cavalieri per partecipare a un ballo in maschera nella Venezia più monumentale, ammirate tra il frastuono del volgo; scene che oggi magari si ripetono con le dive all’epoca della Biennale. Qui a Mazzorbo, invece, la dimensione e’ felicemente domestica. Poche anime percorrono la riva che fronteggia un’altra isola pressoché disabitata, pochi i suoni se non di vaporetti lontani o dell’affaccendarsi di qualche operaio o massaia. Le case sono basse, colorate, senza alcuno sfarzo di marmi. Fili di fumo lenti da qualche comignolo e nell’aria pura già si insinua piacevole un buon odore di cucina. Si ha la sensazione di un angolo appartato, volutamente periferico, ideale per fuggire: incontro all’amore o lontano dal passato poco importa, tutto propizia il ristoro della mente e del cuore. Stupisce apprendere che fino al X secolo fosse tra i più importanti insediamenti lagunari, più ancora di Venezia: Maiurbium, Magna Urbs, Città Maggiore, addirittura. Venezia l’affamata, se è vero che fin chiese e palazzi furono smontati per nutrire la città che si ingrandiva, le pietre portando sui barconi ai nuovi cantieri, lasciando qui gli orti.

image

Gianluca Bisol nel suo appassionato passeggiare per Venezia scopri’ qui venendo da Torcello un luogo e se ne lascio’ stregare: un vecchio brolo -cioè un orto circondato da un muro- assai trascurato, con alcuni locali annessi,  proprietà del Comune di Venezia, probabilmente un tempo parte del complesso della chiesa perduta di San Michele Arcangelo. Nel contempo noto’ alcune vecchie piante di vite che qualcuno ancora curava, si informo’ e apprese che anticamente un laguna si faceva vino in quantità per i veneziani. Se poi i commerci, a cominciare da quelli con l’Oriente greco, l’avevano via via nei secoli soppiantato, tuttavia alcuni vigneti erano coltivati fino a quell’inverno del 1966: se l’Arno sommerse Firenze, l’acqua alta in Laguna lascio’ le poche vigne troppo a lungo invase di acqua salata: per alcune ore le piante avevano imparato a resistere, ma quella volta furono troppe: ventidue. Puff! Svanita una storia millenaria. O quasi: pochi vignaioli resistenti a salvare le residue piante. Tanto si innamoro’ Bisol di quel brolo e di quella storia, che si immagino’ di far rivivere il vino di Venezia. Nella sua mente aveva un piccolo hotel, ma di pregio, accogliente e ricercato; un ristorante prestigioso, con i migliori chef ed il chiaro obbiettivo delle stelle Michelin; magari anche una vineria, per “un cicchetto e un’ombra”; insomma, una bella vetrina in Venezia per l’azienda Bisol. Soprattutto, però, l’idea di piantare una vigna in quegli 0,8 ettari, con le barbatelle che qualcuno in zona gli poteva ancora fornire di uva dorona, una antica varietà a bacca bianca  delle isole della Laguna veneziana, e farne un vino di pregio. 

image

Così, si armo’ di pazienza e parti’ con il progetto alla mano per convincere le autorità locali a concedergli lo spazio in concessione, affrontando tutte le trafile burocratiche e le resistenze del caso, che si possono immaginare: in fondo lui è un “foresto”, veneto ma non veneziano. Piccole beghe magari, ma tra permessi, concorsi e lavori si tratta di un progetto durato anni; e la mera esecuzione, senza dubbio il meno. Quando chiedo a Gianluca quanti maldipancia gli sia costato e gli costi questo progetto, risponde con un sorriso rassegnato. D’altra parte, aggiungo io, diceva Enzo Ferrari che: “Gli Italiani perdonano tutto, tranne il successo.”…

Atto III – A Venissa
“aah Venezia, aah Venissa, aah Venusia” e’ una citazione da “ Il Filo’ ” del poeta Andrea Zanzotto. Venezia come Venus: Venere, la dea del piacere.
A Venissa si entra direttamente dalla riva che guarda il canale attraverso un piccolo pertugio più che una vera porta, che si apre nella riga ininterrotta dei muri e delle case; basso, che quasi ti sembra di dover chinar la testa, come entrando nelle parti più sacre delle chiese ortodosse. Una piccola corte ordinata, poi subito svoltando a sinistra si apre il quadrato del brolo. Vigna o giardino? Perché la proporzione perfetta del vecchio muro, il susseguirsi regolare e fitto delle viti e dei filari inerbiti, le rose, la peschiera per regolare il regime delle acque, la zona lasciata ad orto, tutto concorre a evocare più gli spazi di un giardino all’italiana che quelli agricoli, dove il portico del ristorante controcanta il punto di fuga ideale che è il residuo trecentesco campanile di San Michele, che evoca quello celebre di San Marco nel modello elegante e affusolato, ma è molto più piccolo, rustico, leggermente inclinato dagli anni e dai cedimenti del terreno. L’ordine stesso delle piante, qui,rimanda più all’arte topiaria che all’agraria. 

image
image

Certo, c’è la veranda luminosa del ristorante stellato; le sei stanze d’albergo minimaliste ma calde grazie al recupero dei materiali antichi: mattone e legno; la sala riunioni attrezzata di tutto punto; ma il cuore di Venissa e’ in questo lembo verde, dove per secoli generazioni di veneziani hanno coltivato le viti strappando il suolo con dedizione caparbia al sale bagnato della Laguna, ciascuno con la sua storia, i suoi sogni, le sue gioie e le sue sofferenze; uniche, irripetibili, eppure sempre uguali, da che l’uomo posa il piede sulla terra. Qui dove sembra che il mondo resti tagliato fuori e con esso tutte le sue preoccupazioni. Qui dove si cela ai turisti di Venezia un cuore antico e agreste, solo che lo si voglia con pazienza e curiosità scoprire. Qui dove abbandono e rinascita si fondono naturali, come il batter d’ali della fenice.  Qui dove tra acqua e terra e’ solo un muro, fragile come un castello di carte, labile come il confine tra conscio ed inconscio. Qui  dove “stare” e “fluire” si annullano nel circolo perfetto di quest’orto concluso.

image

Queste zolle sono figlie del mare e dei sedimenti dei fiumi: limo, sabbia ed una quantità sorprendente di calcare (poca sorpresa, forse: quante conchiglie si saranno depositate e disciolte qui nei millenni?). Senza contare che l’acqua della laguna invade la vigna una decina di volte l’anno, lasciando un corredo di sali e di microrganismi. Quasi dettagli, però, perdono importanza di fronte alla bellezza che riempie gli occhi; solo il freddo di fine dicembre invita a rientrare, rimirando nuovamente le viti ancora piuttosto giovani.

Atto IV – Il Venissa
Si torna al tepore dell’interno di Venissa attraverso il portico. Tutto è pulito, ordinato, i tavoli della vineria  apparecchiati con eleganza e distinzione, senza eccessi. Mentre ci accomodiamo nella sala riunioni, alta e spaziosa come una chiesa (probabilmente un ex magazzino) chiedo a Gianluca qualche notizia in più sul vino e sulla vigna: la resa per ettaro e’ bassissima, 35 quintali, in parte per come è stato impostato il nuovo vigneto con lo scopo di ottenere un vino di pregio,  in parte per la salinita’ stessa del terreno. Al momento della vendemmia l’uva viene deposta in piccoli contenitori separando le diverse porzioni di vigneto, poi portata in tutta fretta e al riparo dal calore in cantina per la vinificazione. Dove? A Montalcino! Non ti stupire: il fratello di Gianluca, Desiderio, con Roberto Cipresso hanno lavorato per anni al progetto di questo vino e Cipresso possiede a Montalcino una cantina adatta alle micro vinificazioni. La dorona, ricordata già in testi quattrocenteschi, ha buccia spessa e si presta ad essere vinificata come un rosso importante, con una macerazione sulle bucce lunga, di 30 giorni. Affina poi in vetro. La sua bottiglia da mezzo litro soltanto e’ una piccola opera d’arte, con una foglia d’oro sottilissima fusa nel vetro, incisa e numerata a mano di bulino, opera fine di ingegno e maestranze locali. La sua forma e’ armoniosa, moderna ma allo stesso antica, con le spalle più larghe della base ed il collo corto e diritto, ricorda certi recipienti arcaici che si vedono nei musei. Certo contribuisce al fascino del prodotto, inteso come vino oggetto da ricercare, da possedere, da conservare, perfino da esibire. Meno di quattromila bottiglie per la seconda annata, la 2011. 

image

Però tu potresti storcere il naso: tutto bello, un vigneto unico e ricco di storia, una bottiglia di prestigio, ma il vino com’è? O si tratta solo del capriccio di un imprenditore per soddisfare  altri capricci di facoltosi clienti? O di un oggetto solo bello da maneggiare, da conservare nella sua cassetta lignea che pare opera di ebanista, e da aprire in qualche occasione per stupire gli amici sciorinando nomi altisonanti e vantandone la rarità estrema, l’origine esotica? “Il vino di Venezia” e’ una formula magica che più aprire porte in tutto il mondo, e’ evidente. Però quando Gianluca Bisol ci porge i calici affusolati ed il vino, lentamente, scende a riempirli e’ come una luce che squarcia il buio: il Venissa brilla nella penombra della vasta sala, giallo dorato profondissimo, carico e maturo, tuttavia giovane e pieno di vita, quella che è là fuori della ampia porta a vetri che dà sulla riva e sul canale, la vita delle acque che non sono mai ferme, in questo angolo veneto e latino, ma che al tempo stesso e’ profondamente mediterraneo e orientale. Mai smetteresti di guardarlo nella sua bellezza, nel suo ondeggiare indolente e viscoso, rotondo, che lascia come un velo di dama sensuale dietro a se’. Danza lenta la sua, un po’ araba e un po’ sarabanda, che ipnotica ti suggerisce di attendere, di rallentare, di aprire le porte ad un tempo diverso e lasciarlo entrare. All’olfatto, però, la rivelazione: qui hai certo da un lato i familiari riferimenti a frutti agrumati, maturi e perfino canditi, allo splendore delle arance; però hai in più un’evocazione potente di spezie orientali, raffinata, contrappuntata, che mantiene l’aroma dinamico e leggero. Una sensazione di naturalezza ricercata, raffinata, ricca di suo, senza far ricorso a legni nuovi, ma con l’evidenza della forza del suolo e dell’uva. Soprattutto trovi in lui un aroma che richiama distintamente la voce della Laguna, quel senso di salmastro, di vegetazione, di terra umida, che si fa malinconica in inverno, gioiosa a primavera, abbacinante d’estate, accogliente l’autunno. Ahimè non aver preso appunti quel giorno, per fissare tutte le percezioni e le emozioni degli aromi di questo vino! Solo la memoria a sostenere il mio ricordo di un corpo avvolgente, ampio e quasi indolente nell’incedere, come al primo meriggiare d’agosto, sotto il solleone, lenta si avanza una gondola nei canali, ondeggiando un poco, appena sospinta dalla vogata, sotto i panni stesi ad asciugare immoti nell’assenza di vento; ma che mantiene vivissima una dimensione di moto, un continuo cangiare sul palato che è come la marea che scende e che sale, zone diverse di volta in volta sollecitando. È che sotto, nascosta come pietra preziosa – gli esperti direbbero “integrata” – c’è un’acidità vivida che lo sospinge e lo rafforza, che guarderà agli anni a venire con l’increspatura di un sorriso. Carezzevole ed insieme consistente per un’ombra appena di tannini, e’ un vino che parla di Laguna, a suo modo estremo, concluso in se’ senza smanie di piacere; anche opulento, restando però secco, senza derive al gusto facile di un abboccato. Vino con le radici profondamente salde nella terra che lo ha generato e nella sua storia, che fa cadere ogni dubbio o perplessità: lo vinifichino pure a Montalcino o a Canicattì, lo vestano della più ricercata delle bottiglie o lo travasino in un bricco smaltato, questo è uno dei massimi vini bianchi che mi sia stato dato di assaggiare, comprendendo i grandi di Borgogna nella lista e gli Alsaziani ed i Renani, con un’identità così marcata che può anche respingere chi adagia il suo gusto su schemi risaputi. Il Venissa 2011 ti spiazza: ti soddisfa e permane lunghissimo ma lo bevi e ne riberresti; in tavola e lui illumina e nobilita della sua luce dorata ogni cibo, eppure è tale che ti fermeresti solo con lui, per accompagnare una tua interna meditazione, il ricordo di un tuo sogno. Ecco che mentre lo bevo chiudo gli occhi e ritorno bambino, per mano di mio padre e mia madre, la prima volta a Venezia, la nella Basilica di San Marco: intorno, tra il brusio della gente, uno stupore di mosaici d’oro fino a sopraffarmi, oro ovunque riverberando le sue tessere minute, ed intanto salivano alle volte dorate canti che mi parevano arcani e i fumi balsamici degli incensi, annebbiandomi la mente e tutto confondendo, ancora, nell’oro, che diveniva assoluto, definitivo. Riapro gli occhi e risono a Venissa: fuori una famigliola intravedo passeggiare, qui attorno ancora gli amici. Guardo Gianluca Bisol e capisco: non è semplicemente un esteta quest’uomo, o un mecenate che riporta a splendere una realtà decaduta lasciando zone d’orto agli anziani del luogo e l’accesso libero alla vigna, o un’abile uomo d’impresa e comunicatore; ma una persona alla quale la sorte ha concesso, pur tra difficoltà e preoccupazioni, di conservare in fondo all’animo il bambino che insegue i suoi sogni. E con un gesto deciso quel bambino impone inequivocabilmente la storia più vera di Venezia al mondo.

Dopo l’opera, nel foyer.
Io il Venissa 2011 me lo porto in tavola. Troppo buono: devo lasciargli il suo tempo e centellinarlo. Anni addietro avevo assaggiato il 2010: non mi aveva convinto in pieno (magari lui era troppo giovane,  magari io ero troppo giovane), ma questo mi pare straordinario. I Bisol ci ospitano nella Vineria: cibo delizioso, vini deliziosi che richiederebbero un racconto a parte, quelli di Bisol e quelli dei soci Lunelli, applausi;  più altri aperti ed offerti per il piacere di condividere l’assaggio e di scambiarsi un’idea, tra i quali un eccelso Amalfi Fiorduva di Marisa Cuomo. Pranzo del quale però mi resta suprattutto la misura di Gianluca e Laura: l’apertura equilibrata, la pacatezza dei giudizi, la ferma cortesia, la consapevolezza sicura di chi guarda il mondo con ferme radici. In un detto: la signorilità. Si fa presto sera in buona compagnia ed a fine dicembre le notti arrivan presto. Il motoscafo ci raccoglie che già cala il buio, Venissa si allontana come un sogno, fino a ridursi puntino luminoso in fondo alla scia della barca. Il tempo di un ultimo respiro dell’aria di Laguna, per depositarne nella memoria il fiato. In moto, vecchia Alfa! Si riparte per Gorizia, si va verso il Collio.